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‘L’Arte e la Morte’, libro di Antonin Artaud, L’Orma Editore

Argomento: Letteratura

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 31/12/2023 18:56:19

‘L’Arte e la Morte’, un libro di Antonin Artaud – L’Orma Editore 2023

“Chi, nel cuore…”, nessuno credo abbia mai espresso con tale concretezza l’affinità che trascende dall’arte nella morte, come Antonin Artaud ha delineato in questo piccolo gioiello letterario recuperato da un originale del 1929. Se non ciò che si mostra nel passaggio interstiziale dal vuoto della tela, del muro e/o del foglio di carta, alla pienezza del segno di matita, d’inchiostro e/o del colore che l’imbratta. Dacché la fragilità del dubbio è nelle parole che usiamo per descriverne l’essenza, di come l’artista usa il pennello o la matita quale arnese nel disegnarla, dipingerla e/o scolpirla. Qualcuno ha detto che ogni nostra azione confina col nulla, potrebbe essere così, ma di solito il cuore parla chiaro, non ne farei necessariamente un fatto esclusivo dell’arte tout-court. Direi piuttosto di chi si rende partecipe del momento emozionale espresso dall’artista nella fase creativa dell’arte come fosse il raggiungimento del suo massimo godimento. Mentre per noi che la osserviamo, sia quasi la cosa più naturale al mondo da dover accettare con l’inerzia del solo sguardo. Quasi che la morte, che pure in molta arte si contempla, non fosse che l’amara idea della fine, un’interminabile sequenza di dolorosi addii, di lasciti cui abbandoniamo noi stessi, nell’impercettibile e incessante astrazione che ci rende inconsapevoli della solitudine che si cela dietro la facciata della nostra vita. Il passaggio inesorabile del nostro sguardo fuggevole sulla superficie dell’arte, come di qualcosa che l’avvicina all’eternità…
“Chi, nel cuore di certe angosce, in fondo ad alcuni sogni, non ha conosciuto la morte come un senso di rottura e meraviglia con cui nulla si può confondere nel mondo mentale?”
C’è dunque qualcosa che va oltre la fragilità del dubbio, di vedere nell’arte ciò che ‘per scelta’ talvolta non è rappresentato, ma che pure vediamo come parte integrante del manufatto pittorico, come ad esempio un quadro, un affresco e/o dell’oggetto scultoreo che talvolta lo sguardo ‘visionario’ in sé, completa. Cosa non sempre facile all’esigenza dell’arte, non senza eluderne l’intento creativo, senza tradirne l’insita emozione che l’ha concepita, seppur mantenendo il ‘fuoco segreto’ che la divora e ne imprime la singola esistenza. Quel qualcosa che sempre accade nel fare e che rende appieno l’idea di ciò che noi tutti stavamo cercando: “un vuoto, un pieno”, che non sono della nostra piena certezza, ma che appartengono all’illusionistica quanto ‘visionaria’ realtà del sogno, “fino agli ultimi limiti del sensibile”…
“Sarà proprio come in un brutto sogno, dove sei fuori dalla condizione del corpo dopo che l’hai comunque trascinato fin là, mentre ti fa soffrire e ti illumina con le sue assordanti percezioni in cui la sua superficie sarà sempre più piccola e più grande di te, in cui non si potrà soddisfare più nulla della sensazione che porti di un’antica inclinazione terrestre.”
Non c’è che dire, per quanto monotono o inefficace possa sembrare agli altri è questo un meditare dell’anima che desidera trasfigurare il vuoto della morte nella pienezza di un’eternità che nessuna morte potrà mai sfiorare. Un argomentare questo non certo marginale, quand’anche necessario ad avvalorare la metafora consapevolmente cercata da Artaud, nel voler mettere a confronto la propria esistenza ‘visionaria’ di morte in quanto opera d’arte…
“Ho appena descritto una sensazione d’angoscia e di sogno, l’angoscia che scivola nel sogno, pressappoco come immagino che l’agonia debba scivolare e concludersi infine nella morte”.
Non si pensi ad uno svago perverso, al contrario qui s’inventa un efferato gioco al massacro per la propria sopravvivenza, che la scarsa disponibilità dell’autore continua a negare, tormentato com’è da un profondo senso d’assenza da qualcosa che è venuta a mancare nella sua linfa scrittoria, o che forse non gli è data. Vogliamo chiamarla ‘creatività vitale’ facciamolo pure, ma di quella infine si tratta, anche se non solo di quella, vissuta nella disperata attesa di riempire il vuoto che lo circonda, di dare una ragione alla sua esistenza, malgrado sappia che quel vuoto non potrà mai essere colmato, per una rinuncia che può sembrare un controsenso, ma che gli sembra aver già appurato nei suoi scritti precedenti e successivi come un’effettiva minacciosa ‘assenza’…
“Ed è proprio così, e lo sarà per sempre. Nel sentire la desolazione e l’innominabile malessere , che grido, degno del latrato di un cane in sogno, ti solleva la pelle, ti si rivolta in gola, nello sconcerto di un insensato annegamento”.
Viene da chiedersi in arte a che cosa grida l’uomo dipinto da E. Munch autore de “L’urlo” (1), una delle icone della pittura mondiale, se non a quell’angoscia improvvisa che lo coglie in modo “così forte, infinito che attraversava la natura” in quel momento…
“L’angoscia – scrive Artaud – non è né sconosciuta né nuova. la morte nella quale si è scivolati senza rendersene conto, il raggomitolarsi del corpo, la testa (che l’uomo di Munch si tiene tra le mani) – è stato necessario che passasse, lei che sosteneva la coscienza e la vita e quindi il supremo soffocamento, e quindi la lacerazione superiore – che passasse, anch’essa, per l’apertura più piccola possibile”.
Quella ‘cruna dell’ago’ da cui forse solo è dato di passare e che nell’arte pittorica più che in altra rappresenta la ‘paura’ della morte…
“Questa morte in catene nella quale l’anima si agita per ritrovare uno stato finalmente completo e permeabile”. “Dichiaro – e mi affido a questa idea che la morte non sia fuori dal dominio della coscienza, che sia entro un certo limite conoscibile e avvicinabile attraverso una certa sensibilità”.
È allora che il sogno si esprime nella realtà: “Il sogno è vero. Tutti i sogni sono veri”, prosegue Artaud. È vero nella ‘visionarietà’ di “Eliogabalo” (2) l’anarchico incoronato, la cui biografia, parlando solo di molteplici eccessi, in qualche modo, si rivela riflesso della vita stessa dell’autore, scomodo come artista al suo tempo, come lo è ancora oggi malagevole ad ogni interpretazione. Per cui ogni accostamento rimane in superficie, per la difficoltà di ‘penetrare il senso’ delle contrastanti coattive definizioni postume…
“È per questo che tutti coloro che sognano senza rimpiangere i propri sogni, senza portare con sé una sensazione di atroce nostalgia dalle immersioni nel fertile inconscio, sono delle bestie”. “Ho la sensazione di asperità, di paesaggi come scolpiti, di pezzi di terra ondeggianti ricoperti da una specie di sabbia fine, il cui senso vuol dire: ‘rimorso, delusione, abbandono, rottura”.
“Niente che assomigli all’amore, quanto il richiamo di certi paesaggi visti in sogno, quanto l’abbraccio delle colline, di una specie di argilla materiale la cui forma è come modellata sul pensiero!”.
È dunque l’assenza d’amore a segnare il punto di svolta che più avvalora questa «Vertiginosa raccolta di scritti surrealisti del 1929 come di un fuoco d’artificio nella scrittura di quell’inquieto poeta in prosa che è stato Antonin Artaud?» (3)
“Sì!”, risponde dalla sua Umberto Galimberti in “Paesaggi dell’anima” del 1966 (4), di quell’anima che si pensava potesse ammalarsi, proprio come il corpo. Oppure “No”, onde per cui «…bisogna recuperare l’irrazionale che abita la profondità dell’anima, e ci fa accedere alla radice da cui si dipartono sia la ragione sia la follia.»
E cos’è, se non l’amore che “mira a creare un rovesciamento delle apparenze, a introdurre un dubbio sulla posizione delle immagini della mente in rapporto tra loro, che provoca la confusione senza distruggere la forza del pensiero sorgivo (dell’arte), che rovescia i rapporti tra le cose (i sentimenti, le emozioni), dando al pensiero inquieto (i dubbi laceranti), un aspetto ancora più grande di verità (nella presenza) e di violenza (nella totale assenza), e che ci offre uno sbocco alla morte, ci mette in relazione con gli stati più sottili della coscienza entro i quali la morte si esprime”. “Che cos’è (allora) questa morte in cui siamo pur sempre soli, (se) l’amore non ci indica la strada?”
Artaud rivela la sua propensione e/o il distacco dal male e andare verso l’amore nella “Lettera alla veggente”…
“Il destino non era più, per me, la strada oscura che può nascondere solo il male. Avevo vissuto nel suo eterno timore, e a distanza, lo sentivo prossimo, da allora sempre annidato in me. […] M’importava poco che si aprissero davanti a me le porte più terribili, il terribile era già alle mie spalle. […] Quello che mi rassicurava più di tutto non era questa profonda certezza, legata alla mia carne, ma piuttosto la coscienza dell’uniformità di tutte le cose.” […] C’era però anche un’altra cosa. Questo senso, indifferente quanto gli effetti immediati sulla mia persona, era comunque colorato di qualcosa di buono”.
L’amore sublimato è qui raggiunto nella vicenda di “Abelardo ed Eloisa” che ha permeato la cultura popolare francese del XIX secolo: «un esercizio – come spiegano le attente curatrici – di ‘scrittura surrealista’ che prende spunto dalla storia dei due celebri e infelici amanti, […] che costituisce il substrato dell’esperienza poetica, non senza ironia, ricercata da Artaud, in cui scandaglia il desiderio sessuale dei due amanti sino alla minuziosa descrizione di un orgasmo.»…
“Perché è a lei che sempre ritorno attraverso il filo di quest’amore senza limiti, di questo amore che si spande nell’universo. E fa crescere crateri nelle mie mani, fa crescere dedali di seni, fa crescere amori esplosivi che la mia vita conquista al sonno. […] Ma per quali estasi, per quali sobbalzi, per quale scivolare continuo arriva all’idea del piacere della mente. Il fatto è che in questo momento Abelardo gode del suo spirito.[…] E allora “…la questione dell’amore si fa semplice. Che importa che sia di più o di meno, dato che può agitarsi, insinuarsi, evolvere, ritrovarsi e riemergere.” Se, insieme ad Eloise “Ha ritrovato il gioco dell’amore”…
Ed ecco che il gioco iniziale diventa ‘arte’, o meglio quell’ ‘ars amandi’ che Publio Ovidio Nasone (5) descrive come Ludus, cioè un gioco galante, una fonte di piacere in cui non si contempla la passione profonda, coinvolgente che caratterizza l’ossessione d’amore, bensì quella che l’iconografia di ritorno nell’arte di ogni epoca avvolge di un alone libero e sublime. Come in Erich Fromm (6) “L’arte di amare” è qui totalizzante, espresso attraverso il desiderio stimolante di un atto creativo che Artaud scambia con il bisogno di essere amato, pur sapendo che il vero amore è un sentimento molto più profondo e, soprattutto, trascende dal tentativo egoistico del piacere. Come pure Zygmunt Bauman avverte in “L’arte della vita” (7): «La nostra vita è un’opera d’arte, che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no», a cui aggiungo “che lo vogliamo o no”; da leggersi volta ‘al bene’, sia quando è volge ‘al male’ che facciamo a noi stessi nel conseguimento del fine esclusivo della vita…
“I bassifondi – rivela Artaud – non sono abbastanza fissi da vietare ogni idea di caduta. Sono come il primo livello di una caduta ideale di cui il quadro stesso dissimuli il fondo. C’è una vertigine il cui vortice fatica a liberarsi dalle tenebre, una discesa vorace che si assorbe in una specie di notte”.
Il timore di essere risucchiati in un buco nero? Forse…
“Una notte da galera, un’oscurità piena d’inchiostro dispiega le sue muraglie mal cementate”. Tutt’attorno - conclude l’autore – “…la strada era vuota. c’era soltanto la luna che continuava i suoi liquidi mormorii”. “Era inevitabile che l’eternità mi vendicasse dell’accanito sacrificio di me stesso, cui io non partecipavo”.


Note:
Quanto riportato nei virgolettati è di Antonin Artaud “L’arte e la morte”, L’Orma Editore 2023. Per una biografia dell’autore consultare Wikipedia.
(1), Edvard Munch “L’urlo” 1893, opera pittorica Oslo, Nasjonalgalleriet
(2), Antonin Artaud “Eliogabalo”, Adelphi Edizioni 1969
(3), Giorgia Buongiorno e Maria Giacobbe Borelli, curatrici della versione italiana de “L’arte e la morte”, L’orma Editore 2023
(4), Umberto Galimberti, “Paesaggi dell’anima”, Mondadori 1966
(5), Publio Ovidio Nasone, “L’arte di amare”, Mondadori 2006
(6), Erich Fromm, “L’arte di amare”, Mondadori 1993
(7), Zygmunt Bauman, “L’arte della vita”, Editori Laterza 2008











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