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Un dolce di grano appena un chicco d’uva

di Amina Narimi
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Pubblicato il 20/06/2016 14:59:52

 

 

Era il vento sul viso, puro velo di altra cosa.

Un dolce di grano appena un chicco d’uva

celavano il digiuno col sorriso

ed i capelli freschi, nel segreto oblio di me,

perché i tuoi piedi fossero leggeri. Mentre vieni, 

rendo grazie per averti

riconosciuto e sposo. Tra le bestie

è il corredo che ti offro, nel baule d’aramen,

otto ettari a pascolo e castagni,

che la terra assorbe lenta, a mille metri.

 

Ho messo dentro i ferri  con i chiodi,

i morsi dei cavalli, gli andalusi,

e quelli sardi più severi. Tra i  filetti inglesi

le lezioni nel tondino a dei bimbi un po’ speciali.

Lunghi anni tra giganti così fragili per sangue;

per destino, ho messo dentro le mie braccia

e tutta l’anima

allungata fino in fondo al loro ventre

per tirare fuori il male. Troverai chi si è salvato, 

e le zampe inginocchiate nel morire di chi non ce l’ha fatta. 

Con le fattrici ho messo via il dolore del travaglio

fra le onde dei puledri appena usciti dalla pancia,

il mio volto madido di luce, le mani sporche della nascita,

di una bellezza che non sapevo dire. Nel fienile

ti ho lasciato  i miei disegni asciugati nella paglia

e l’ora della cena, appesa ai ganci, in alto,

sempre dopo.. governati  gli animali.

 

Sfiora i bordi della dote in pieno inverno

i passi lenti che giravano il pastone attorno al fuoco,

e una canzone nella testa, quella lunga

storia d’amore con inizio e fine nei mastelli

della crusca, la pioggia d’argento che cadeva

investendomi di avena. Sulle greppie

 

è tutto là, puro velo di altra cosa. Cerimonia,

per durare- con chi batte le ore della fame,

a una a una le conosco, ed ogni posa,

fra tutte, quelle di Zahir e Leila, e di Rebecca anche.

 

Nell’astuccio con gli intarsi ho conservato

qualche cosa  di straziante

una gioia impronunciata,  tradita sulla lingua,

da ingoiare come un’ostia sul lavabo.

Non conoscevo l’ederlezi, eppure l’avvertivo

nel muoversi dell’aria all’incontrario

quando mettevo al collo dei cavalli sanguisughe

raccolte ai bordi delle vasche, lucide di fresco, 

all’acquabuona, 

come  le più belle perle al mondo da indossare.

Con  che tormento attendevo quello scambio,

/ nell’immensa lentezza della grazia/

il sangue andava da un essere a quell’altro,

svuotando il male nel respiro verde, e le bestiole

al rossovivo della festa, quiete,

le ho riposte sulle pietre umide, ubriache.

 

Quante mattine ci sarò a montare a pelo la mia Leila,

con un laccio sottilissimo  alle labbra,

usando il corpo all’alba come il sole. Mi affidavo

per ritrovare il branco sconfinato nella notte

chissà dove poi fermarmi e scivolare giù,

con la pelle più sottile che conosci; nuda,

tra i cavalli e l’erba, c’era qualche cosa

di grandioso, che ora chiamo sacro,

a quel tempo appena un  girotondo, lo scoprirai splendente,

e al petto l’amuleto per la promessa della semina

per  la crescita dei fiori a primavera. Godevo, sai?

Godevo, sapendo di pregare. Tra i raccolti

la polvere si alzava sulla schiena

formando un manto d’oro con Rebecca

che  spingeva tra le spalle per tornare

a casa. Nell’angolo a sinistra del baule,

come fiori al bordo di un sentiero

ci sono le ninive- 

le preghiere arrotolate nella mussola,

nascoste  nelle pigne, per i morti-

lasciate andare nei buchi dentro gli alberi,

nel posto più profondo del mio luogo più nascosto,

ai ripostigli della neve, nella neve.

 

Potrai scambiare per incenso, se non sai

che la medica fasciata troppo stretta e umida fermenta,

il vapore che ti fa la nebbia agli occhi proprio adesso-

stava lì accucciato al cuore dei covoni, nel tepore,

a covare come un male- gli davamo il giro d’aria

con bracciate e giravolte dei forconi

per farlo splendere nel sole- l’ho tenuto,

per non dimenticare. Ecco ora,

 

come per  raccogliere qualcosa che sai fragile,

tieni fra le mani la passione nelle ore della luce,

o, ai lati delle labbra, lo schiocco sussurrato

per insegnare a Zahir come fermarsi, con dolcezza

appena sotto c’è la commozione, a dorso nudo,

che mi prendeva a notte per  l’odore lento

che saliva dalla stalla alla mia stanza,

come  la più antica delle madri  che controlla

che ogni cosa sia al suo posto. - E anch’io

mi sono alzata  al buio per le scale

seguendo il borbottio che facevano i cavalli

ruminando o il suono ripetuto della lingua

che leccava i rulli  con il sale appesi al muro,

i miei piccoli stupori.- Una ricchezza, 

ora che ti vedo alla finestra

 

col ventre incollato a terra ti offro la mia mano

i nidi che sai leggere e un  piccolo lamento

cucito tra i capelli, a ricamo del corredo:

di quando Lei spariva nel dramma della luce

mettendo al mondo un nuovo nome, e poi narimi.

Delle mie minuscole parole

ho sentito fame e sete  solo allora

un vento  le ha spezzate

in puro velo di altra cosa

sulla tavola dei Morti, come un pane, 

indicandomi qualcosa nell’incontro,

un’acquabuona. Ai bordi della vasca

 

mi inginocchio con le perle intorno al collo,

un solo filo, che le rende grazie,

dalla notte all’alba, per gli anelli

scambiando la mia danza nella tua

un dolce di grano appena un chicco d’uva.


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