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Era il vento sul viso, puro velo di altra cosa.
Un dolce di grano appena un chicco d’uva
celavano il digiuno col sorriso
ed i capelli freschi, nel segreto oblio di me,
perché i tuoi piedi fossero leggeri. Mentre vieni,
rendo grazie per averti
riconosciuto e sposo. Tra le bestie
è il corredo che ti offro, nel baule d’aramen,
otto ettari a pascolo e castagni,
che la terra assorbe lenta, a mille metri.
Ho messo dentro i ferri con i chiodi,
i morsi dei cavalli, gli andalusi,
e quelli sardi più severi. Tra i filetti inglesi
le lezioni nel tondino a dei bimbi un po’ speciali.
Lunghi anni tra giganti così fragili per sangue;
per destino, ho messo dentro le mie braccia
e tutta l’anima
allungata fino in fondo al loro ventre
per tirare fuori il male. Troverai chi si è salvato,
e le zampe inginocchiate nel morire di chi non ce l’ha fatta.
Con le fattrici ho messo via il dolore del travaglio
fra le onde dei puledri appena usciti dalla pancia,
il mio volto madido di luce, le mani sporche della nascita,
di una bellezza che non sapevo dire. Nel fienile
ti ho lasciato i miei disegni asciugati nella paglia
e l’ora della cena, appesa ai ganci, in alto,
sempre dopo.. governati gli animali.
Sfiora i bordi della dote in pieno inverno
i passi lenti che giravano il pastone attorno al fuoco,
e una canzone nella testa, quella lunga
storia d’amore con inizio e fine nei mastelli
della crusca, la pioggia d’argento che cadeva
investendomi di avena. Sulle greppie
è tutto là, puro velo di altra cosa. Cerimonia,
per durare- con chi batte le ore della fame,
a una a una le conosco, ed ogni posa,
fra tutte, quelle di Zahir e Leila, e di Rebecca anche.
Nell’astuccio con gli intarsi ho conservato
qualche cosa di straziante
una gioia impronunciata, tradita sulla lingua,
da ingoiare come un’ostia sul lavabo.
Non conoscevo l’ederlezi, eppure l’avvertivo
nel muoversi dell’aria all’incontrario
quando mettevo al collo dei cavalli sanguisughe
raccolte ai bordi delle vasche, lucide di fresco,
all’acquabuona,
come le più belle perle al mondo da indossare.
Con che tormento attendevo quello scambio,
/ nell’immensa lentezza della grazia/
il sangue andava da un essere a quell’altro,
svuotando il male nel respiro verde, e le bestiole
al rossovivo della festa, quiete,
le ho riposte sulle pietre umide, ubriache.
Quante mattine ci sarò a montare a pelo la mia Leila,
con un laccio sottilissimo alle labbra,
usando il corpo all’alba come il sole. Mi affidavo
per ritrovare il branco sconfinato nella notte
chissà dove poi fermarmi e scivolare giù,
con la pelle più sottile che conosci; nuda,
tra i cavalli e l’erba, c’era qualche cosa
di grandioso, che ora chiamo sacro,
a quel tempo appena un girotondo, lo scoprirai splendente,
e al petto l’amuleto per la promessa della semina
per la crescita dei fiori a primavera. Godevo, sai?
Godevo, sapendo di pregare. Tra i raccolti
la polvere si alzava sulla schiena
formando un manto d’oro con Rebecca
che spingeva tra le spalle per tornare
a casa. Nell’angolo a sinistra del baule,
come fiori al bordo di un sentiero
ci sono le ninive-
le preghiere arrotolate nella mussola,
nascoste nelle pigne, per i morti-
lasciate andare nei buchi dentro gli alberi,
nel posto più profondo del mio luogo più nascosto,
ai ripostigli della neve, nella neve.
Potrai scambiare per incenso, se non sai
che la medica fasciata troppo stretta e umida fermenta,
il vapore che ti fa la nebbia agli occhi proprio adesso-
stava lì accucciato al cuore dei covoni, nel tepore,
a covare come un male- gli davamo il giro d’aria
con bracciate e giravolte dei forconi
per farlo splendere nel sole- l’ho tenuto,
per non dimenticare. Ecco ora,
come per raccogliere qualcosa che sai fragile,
tieni fra le mani la passione nelle ore della luce,
o, ai lati delle labbra, lo schiocco sussurrato
per insegnare a Zahir come fermarsi, con dolcezza
appena sotto c’è la commozione, a dorso nudo,
che mi prendeva a notte per l’odore lento
che saliva dalla stalla alla mia stanza,
come la più antica delle madri che controlla
che ogni cosa sia al suo posto. - E anch’io
mi sono alzata al buio per le scale
seguendo il borbottio che facevano i cavalli
ruminando o il suono ripetuto della lingua
che leccava i rulli con il sale appesi al muro,
i miei piccoli stupori.- Una ricchezza,
ora che ti vedo alla finestra
col ventre incollato a terra ti offro la mia mano
i nidi che sai leggere e un piccolo lamento
cucito tra i capelli, a ricamo del corredo:
di quando Lei spariva nel dramma della luce
mettendo al mondo un nuovo nome, e poi narimi.
Delle mie minuscole parole
ho sentito fame e sete solo allora
un vento le ha spezzate
in puro velo di altra cosa
sulla tavola dei Morti, come un pane,
indicandomi qualcosa nell’incontro,
un’acquabuona. Ai bordi della vasca
mi inginocchio con le perle intorno al collo,
un solo filo, che le rende grazie,
dalla notte all’alba, per gli anelli
scambiando la mia danza nella tua
un dolce di grano appena un chicco d’uva.
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