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’PAPA FRANCESCO : Il libro della gioia’ (2)

Argomento: Fede

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 24/04/2014 18:31:09

Papa Francesco: Il Libro della Gioia (seconda parte)

(continua)

 

Tuttavia l’invito alla preghiera di Papa Francesco, non è cosa da poco, in quanto ‘pregare’ risponde a una necessità di fede che Egli si trova a ridistribuire ai credenti in forma di amore per l’umanità, di fratellanza benevola, di solidarietà amicale, affinché ognuno trovi e/o ritrovi nella preghiera comunitaria la forza per tirare avanti, la linfa vitale necessaria nella serenità, la ‘gioia’ nell’uguaglianza e il giusto rigore nella tolleranza e nella libertà religiosa, come teoria di sopravvivenza in questa nostra età. Riferendo le parole dell’apostolo Paolo infatti Egli ripropone alla comunità uno dei precetti della massima importanza nel cammino di crescita: “Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti” (1 Ts 3,12), che riguarda di fatto la libertà religiosa e l’uguaglianza, in quanto parte integrante dell’istituzione giuridica del ‘diritto’. Ciò malgrado – scrive Marco Ventura in ‘Il dibattito delle idee’ (La Lettura/Corriere della Sera 08 Sett.2013 ) – “ragioni apparentemente contraddittorie siano alla base di seri problemi di sopravvivenza di forti maggioranze confessionali, (..) per cui si domanda agli Stati una politica attiva di riconoscimento della diversità religiosa e non religiosa come ‘parte integrante’ del diritto di partecipare alla vita sociale”.

Un’ ‘esortazione’ ad uscire ad abbracciare gli altri che vuole sottolineare con forza la ‘missione’ primaria della Chiesa nell’evangelizzazione, fin troppo spesso presa dalla tentazione dell’efficientismo negletto, e che invita ad essere protagonisti nel cambiamento. Una Chiesa coraggiosa, quindi, che sprona i credenti cristiani a guardare ai mali del mondo come a sfide per crescere, e non farsene alibi per il disimpegno. Con ciò Papa Francesco ci chiede di avere ‘uno sguardo contemplativo’ a significare che “..il mandato missionario del Signore comprende l’appello alla crescita della fede e (..) allo stesso tempo, dar luogo a un cammino di formazione e di maturazione”. (160.) “Non sarebbe corretto interpretare questo appello alla crescita esclusivamente o prioritariamente come formazione dottrinale. Si tratta di osservare quello che il Signore ci ha indicato, come risposta al suo amore, dove risalta, insieme a tutte le virtù, quel comandamento nuovo che è il primo, il più grande, quello che meglio ci identifica come discepoli (160): “Questo è il mio comandamento affinché vi amiate gli uni con gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12). (161.)

Così la ‘preghiera’ rivolta da Papa Francesco assume carattere morale e moralizzatrice che invita a crescere nel Vangelo, perché è rivolta a un bene desiderabile, quindi possibile. È propositiva perché contiene “..una proposta di vita, di maturità, di realizzazione, di fecondità” (168.), alla cui luce si può comprendere il nostro essere e divenire custodi del bene e della bellezza, qui nella sua accezione serenità nell’armonia e di prosperità nella pace. “Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana” (169.). Un capitolo in particolare affronta qui diverse tematiche di rilevanza sociale affidate all’insegnamento della Chiesa, sebbene già nella premessa non si escluda la possibilità di divenire ‘oggetto di discussione’, perché, è detto, i grandi principi sociali non rimangano mere indicazioni generali che non interpellano nessuno” (182.). “Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Amiamo (noi plurale maiestatis) questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità. (..) La Chiesa non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia” (Benedetto XVI ‘Deus caritas est’). (183.)

Eccoci al dunque, la Chiesa sente l’obbligo di una ‘giustizia sociale’ che sia ‘giusta’; che si preoccupi della costruzione di un mondo migliore, sempre vicina ai poveri e agli abbandonati dalla società. “Di questo si tratta – dice Papa Francesco – perché il pensiero sociale della Chiesa è in primo luogo positivo e propositivo, orienta un’azione trasformatrice, e in questo senso non cessa di essere un segno di speranza che sgorga dal cuore pieno d’amore” (186.). Dacché l’inclusione sociale certamente non nuova, dei poveri all’interno del messaggio cristiano; quel “grido altissimo” che Papa Francesco recupera dal suo omonimo Francesco d’Assisi, attualizzandolo “nella Chiesa, guidata dal Vangelo della misericordia e dall’amore per l’essere umano, ascolta il grido per la giustizia e desidera rispondervi con tutte le sue forze” (188.) Ciò implica sia la cooperazione nel risolvere le cause strutturali della povertà e promuovere lo sviluppo integrale dei poveri; sia recuperando i gesti più semplici del quotidiano, della solidarietà e della giustizia sociale, per far fronte alle miserie che i poveri si trovano ad affrontare.

La solidarietà quindi, come reazione spontanea da pare di chi ne riconosce la funzione sociale: “A volte si tratta di ascoltare il ‘grido’ di interi popoli, dei popoli più poveri della terra – e portare loro quella pace in cui tutti noi agogniamo – perché la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei diritti dei popoli”. (..) Abbiamo bisogno di crescere in uina solidarietà che “deve permettere a tutti i popoli di giungere con le loro forze ad essere artefici del loro destino”, così come “ciascun essere umano è chiamato a svilupparsi” (190.). L’imperativo di ascoltare il ‘grido’ dei poveri si fa carne in Papa Francesco ed egli dice (spera) sia così anche per noi quando ci commoviamo nell’intimo nostro essere di fronte all’altrui dolore; mentre ci ricorda con le parole del Vangelo: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt 5,7) attribuendo a questa frase un autentico valore salvifico. È questo un messaggio così chiaro che non possiamo esimerci dal valorizzarlo con qualche intervento estraneo al ‘libro’ in questione col fare riferimento alla ‘empatia’, la specifica capacità di partecipazione emozionale nel rapporto con e/o verso gli altri. Quell’attitudine a rendersi completamente disponibili verso gli altri, caratterizzata da uno sforzo di comprensione intellettuale dell’altro, superando la forma affettiva (simpatia, antipatia), e ogni giudizio morale, mettendo da parte le nostre preoccupazioni e i nostri pensieri personali, pronti ad offrire, al bisogno, la nostra piena attenzione e quella solidarietà che è richiesta.

Ma c’è qualcosa in più che si rileva dalle frasi di Papa Francesco che va oltre il significato del merito etico-morale, ed è ciò che più affonda nel cuore (umano, non umano) quel processo di comunicazione non violenta, peculiare di una richiesta di ‘pace’, di ‘gioia’ che si rinnova nel dare (Mauss). Veniamo quindi alle parole della ‘esortazione apostolica’ che abbiamo fin qui lette, e sono tante, ognuna delle quali contiene una profonda riflessione escatologica (sul destino ultimo dell’essere) di un sapere (conoscenza) che ha un suo peso, quando è rivolto a tutti noi, restituitoci come un ‘dono’ ricevuto per grazia di Dio. Un argomento che non possiamo tacere e che ha molto appassionato Alberto Melucci (*) definito ‘il sociologo dell’ascolto’ aperto ai temi della pace, delle mobilitazioni giovanili, dei movimenti delle donne, delle questioni ecologiche, delle forme di solidarietà e del lavoro psicoterapeutico. Il quale, in anticipo sui tempi, ha esplorato il mutamento culturale dell’ ‘identità’, in funzione della domanda di cambiamento proveniente dalla sfera lavorativa in generale. E che, inoltre, ha affrontato i temi dell’esperienza individuale e dell’azione collettiva studiandone la loro ricaduta sulla vita quotidiana e sulle relazioni di gruppo, riconfermando la validità dell’interazione scientifica tra le diverse discipline, e apportando innovativi contributi alla ricerca sociologica:

“Sono convinto - scrive Melucci - che il mondo contemporaneo abbia bisogno di una sociologia dell’ascolto. Non una conoscenza fredda, che si ferma al livello delle facoltà razionali, ma una conoscenza che considera gli altri dei soggetti. Non una conoscenza che crea una distanza, una separazione fra osservatore e osservato, bensì una conoscenza capace di ascoltare, che riesce a riconoscere i bisogni, le domande e gli interrogativi di chi osserva, ma anche capace, allo stesso tempo, di mettersi davvero in contatto, con gli altri. Gli altri che non sono solo degli oggetti, ma sono dei soggetti, delle persone come noi, che hanno spesso i nostri stessi interrogativi, si pongono le stesse domande e hanno le stesse debolezze, e le stesse paure”.

Non sembra anche a voi che Papa Francesco risponda con ‘coraggio’ personalmente e direttamente a tutte queste esigenze? Io penso di sì. Ma che cos’è il ‘coraggio’ se non un atteggiamento positivo con cui si affronta una situazione di pericolo o con cui si tende a uno scopo dal raggiungimento difficoltoso e incerto? “Come stato emotivo opposto alla paura – scrive Umberto Galimberti (*) – il coraggio è considerato una delle principali virtù umane fin dai tempi di Aristotele che lo distinse dalla temerarietà, ritenendolo il giusto mezzo fra questa e la paura. A differenza della temerarietà, infatti, il coraggio tiene conto delle condizioni di realizzabilità dello scopo o di superamento del pericolo. (..) Per questo il cuore (inteso come sede) è l’espressione metaforica del sentimento, una parola dove ancora risuona la platonica ‘tymoidés’ che non è languore né la malcelata malinconia, né sconsolato abbandono”.

Il sentimento è forza e non dobbiamo averne paura, scrive ancora Papa Francesco: “la forza di essere se stessi al di là di tutte le convenienze, di tutti i calcoli, di tutte le opportunità”. Al dunque sembra dirci ancora Papa Francesco è una questione di ‘fiducia’, sembra che non possiamo fare a meno di fidarci di qualcuno e allora perché non di Dio? Non è forse da cercare qui una delle ragioni più importante della Catechesi e della Evangelizzazione?, mi chiedo io. Se è vero che non ci fidiamo più di nessuno per via di comportamenti inaffidabili (politica, democrazia, società) che hanno reso la fiducia troppo rischiosa (declino culturale, perdita di valori, sviluppo ecc.), non vedo cos’altro rimane in cui poter e/o dover credere se non in noi stessi e alla nostra atavica che ci riconduce, seppure con qualche incognita individualistica, a quella spiritualità innata in ciascuno che ci eleva al mondo superiore? E seppure volessimo proprio non fidarci di nessuno di fatto le cose non cambiano, perché ci piaccia o non ci piaccia, non possiamo prescindere dal ricorrere alla ‘fiducia’ quale unico mezzo di scambio e di convenzionalità che ancora ci rende partecipi della società in cui viviamo. Non viene forse chiamato ‘libero’ chi, possedendo la pienezza della ragione e della volontà (libero arbitrio), è capace di volgere se stesso e gestire le proprie ideologie (leggi utopie) che, in ogni caso, rispondono a leggi supreme, dettate dalla platonica ‘tymoidés’, da quel ‘coraggio’ che si rivela nel sentimento e che ci da ‘forza’, che è esso stesso forza di cui parla Papa Francesco.

Ma dobbiamo riflettere su un’altra parola, in questo caso suggerita da Mons. Semeraro e che abbiamo incontrato in apertura: la “prossimità” che, nel nostro contesto vuol dire ‘vicinanza’, usata allo scopo di creare quella relazione fiduciaria che ci fa sentire ‘uguali pur nelle nostre differenze’, gli uni e gli altri non accomunati da un rapporto di contrapposizione, come spesso accade, ma di solidale alleanza contro l’inquietudine che genera la solitudine; la ‘differenza’ che crea sconcerto e che per questo il Papa fa appello alla ‘solidarietà’ come mezzo di comprensione e di scambio; quell’andare incontro agli altri, anche ai più reietti, abbandonati dalla società. Il riferimento alle borgate disastrate delle grandi metropoli, alle favelas presenti anche nella sua giustamente amata Argentina è specifico. Non in ultimo egli fa appello alla ‘prevenzione’ piuttosto che alla repressione dei soggetti emarginati, quanto a interventi di clima ‘fiduciario’, a quella ‘prossimità’ che allenta le tensioni e consente di passare da una cultura di controllo a una cultura di aiuto e tutela che agevola un diverso modo di vivere, di uguaglianza e fratellanza insieme.

“Discutere di uguaglianza o di disuguaglianza può sembrare in prima battuta una discussione ovvia, scontata e persino sterile – scrive Maurizio Ferraris (*) in apertura del volume ‘Le domande della Filosofia’ dedicato proprio a questa tematica –. Chi non è d’accordo che uno dei valori supremi della nostra civiltà sia quello dell’uguaglianza?” – si chiede, per poi concludere che è un valore e un diritto assoluto che va riconosciuto e tutelato sopra ogni altra cosa, ma che è anche uno dei compiti che la filosofia politica moderna e contemporanea ha cercato di assolvere, in quanto diritti che tutti gli esseri (umani) hanno in quanto umani, diritti che sono uguali per tutti (diritto alla vita, alla proprietà, alla libertà, ecc.) e che sono a fondamento dell’uguaglianza. In quanto, in ogni caso, siamo tutti uguali “perché tutti – in qualsiasi condizione ci troviamo – abbiamo gli stessi diritti” (ibid.). Devo ammettere che davvero finora non me ne ero accorto poiché le disuguaglianze (tra gli uni e gli altri) per cui riuscire a garantire il ‘riconoscimento’ (teoria del) mi hanno sempre fatto sentire uno zombie in cerca di una ‘giustizia’ (universale e formale) che decidesse in modo imparziale sul mio destino. Ma così non è.

“Il contratto sociale che dovrebbe essere ‘paritario’, stabilito da individui tutti uguali, spinti tutti dalla stessa necessità: uscire dal disordine dello stato di natura che non garantisce la sicurezza, la pace e la tutela dei beni e costruire un ordine politico che stabilisca tutto ciò che in natura manca” (ib.); nella realtà non ha funzionato perché non ha in natura un ‘giudice’ al di sopra delle parti così imparziale da rendere l’uguaglianza indiscutibilmente paritaria. L’argomentazione è filosofica anche se con Alexis de Tocqueville (*) è divenuta di tipo politico-sociale e quindi di autonomia democratica culturale e civile che ci parla di giustizia, di libertà e di pace. Che siano tutti temi riferiti alla ‘utopia’? di cui non avrei voluto parlare ma che Papa Francesco, parlando con ottimismo del ‘futuro’ promosso dalla religione della ‘nuova chiesa’, sembra aver depennato dal suo vocabolario, sostituita da un numero straripante di altre parole di cui sembrava avessimo perduta la consapevolezza, come ‘tolleranza’, ‘speranza’, ‘perseveranza’, ‘lealtà’, ‘pentimento’, ‘povertà’, ‘ambizione’, ‘famiglia’, ‘fede’ e, non in ultima la ‘pace’, e senza lasciarsi irretire dal passaggio storico del futuro come minaccia di isolamento, al futuro come promessa della costruzione di legami affettivi e di solidarietà.

La ‘perseveranza’ – ci dice A. C. Grayling (*), racchiude in sé altre ‘virtù’ di cui si è accennato: il coraggio e la speranza, cruciale per la sua capacità peculiare di ottimismo e capace di infondere un tratto positivo al carattere umano, oltre ad altre caratteristiche presenti nell’individuo, come la determinazione, l’ambizione, la ‘forza’ e la decisione, il cui opposto è la rinuncia, l’abbandono fine a se stesso. Nel ramo della filosofia denominato ‘epistemologia’ (teoria della conoscenza), la ‘fede’ è definita una credenza vera e dimostrata, in quanto descrive una relazione fra uno stato della mente e un fatto: “Il contenuto dello stato della mente è un giudizio formulato in modo responsabile; il fatto è (per esempio) una particolare configurazione della realtà che – quando il giudizio è vero – è proprio ciò che lo rende tale (..) venendosi a trovare in modo completo ed esclusivo nel territorio della mente, e non si basa su nessun elemento della realtà” (* A. C. Grayling).

Un concetto questo certamente discutibile, in seguito utilizzato dall’autore in senso contrastante con i principi della Chiesa, per cui la ‘fede’ sta all’origine della religione cristiana (di Cristo) e il ‘verbo’ (la parola) è di per sé strumento di conversione. Da cui prende l’avvio uno dei criteri fondamentali dell’evangelizzazione: l’uguaglianza di quanti si riconoscono nel ‘popolo di Dio’ e, in senso lato, degli esseri umani tutti, di esortazione alla ‘giustizia divina’. “Questa verità – sollecita Papa Francesco – è ancora oggi fondamentale nella dottrina della Chiesa per combattere l’individualismo edonista. (..) la riflessione dovrebbe avvalorare il suo significato esortativo e aiutare a farla propria con coraggio e fervore. Gli apparati concettuali esistono per favorire il contatto con la realtà che si vuole spiegare e no per allontanarci da essa. Questo vale soprattutto per le esortazioni bibliche che invitano con tanta determinazione all’amore fraterno, al servizio umile e generoso, alla giustizia, alla misericordia verso il povero (e verso gli altri). (..) Non preoccupiamoci solo di non cadere in errori dottrinali, ma anche di essere fedeli a questo cammino luminoso di vita e di sapienza. Perché ‘ai difensori dell’ortodossia’ si rivolge a volte il rimprovero di passività, d’indulgenza o di colpevoli complicità rispetto a situazioni di ingiustizia intollerabili e verso i regimi politici che le mantengono” (194.) (cit. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Libertatis Nuntius del 1984).

“Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è (e non vuole essere) un eccesso di attivismo ma, prima di tutto, un’attenzione rivolta verso l’altro ‘considerandolo come un’unica cosa con se stesso. (..) Dall’amore per cui a uno è gradita l’altra persona dipende il fatto che le dia qualcosa gratuitamente” – spiega Papa Francesco citando ancora una volta San Tommaso d’Aquino (Summa Theologica), aggiungendo che l’amore autentico ci permette di servire l’altro non per necessità o vanità, ma perché è bello, al di là delle apparenze mettendo in luce quello che è stato il messaggio tommaseo sull’amore e il suo modo di vivere la fede.”(199.) Un dare e un avere reciproco, quindi, che è alla base dell’uguaglianza e della lealtà, entrambi fattori di quella ‘equità’ e ‘giustizia’ più spesso sollecitata e solo apparentemente conflittuali.

Ciò malgrado – scrive Umberto Galimberti (*) “le norme giuridiche si scontrino spesso nel cielo delle idee e, ancor più spesso cozzino tra loro nell’ambito ristretto e profondo delle singole soggettività, per cui il giudice si trova molto spesso in mezzo alla guerra dei delatori e alla guerra delle soggettività, in un conflitto di doveri che chiedono un oltrepassamento della legge (e quindi della giustizia) in nome dell’equità”. Ammettere che la ‘giustizia’ fatta dagli uomini sia anche giusta, o sempre giusta, è ammettere una falsità di cui sono piene le fosse, per questo – ci rammenta U. Galimberti – Aristotele introdusse il concetto di ‘phrónesis’: “quella forma di prudenza e saggezza legata all’applicazione della norma (legge), là dove la situazione si rivela decisamente più complessa della semplicità con cui la norma universale è formulata”. Mi sembra che dovremmo recuperare il senso e forse la saggezza rivelatrice dei ‘diritti fondamentali dell’uomo’, e ri-ciclando Kant, di quella ‘equità’ che vede la legge fatta per gli uomini e non gli uomini fatti per la legge. Cosicché sulla scia di Papa Francesco anche noi possiamo ammettere che la ‘giustizia divina’ è superiore a quella umana già solo per il fatto che riconosce nell’applicazione della ‘legge’ una forma di ‘equità’ sociale distribuendo in modo ‘egualitario’ principi e fini che concernono la vita (quanto la morte).

“La sola ragione è sufficiente per riconoscere il valore inviolabile di ogni vita umana, ma se la guardiamo anche a partire dalla ‘fede’, «ogni violazione della dignità personale dell’essere umano grida vendetta al cospetto di Dio e si configura come offesa a Lui» - scriveva Giovanni Paolo II, nell’Esort. Ap. ‘Christifideles laici’. (1988). Per un certo verso si è parlato molto del bene comune e sociale tralasciando quella ‘gioia’ che fin da principio ci conduce per mano e che è alla base di questa ricerca, la cui finalizzazione deve comunque condurci a una riflessione sulla ‘pace’, altrimenti perché parlare di giustizia quando non può esserci giustizia senza la pace.: “Sarebbe parimenti una falsa pace quella che servisse come scusa per giustificare un’organizzazione sociale che metta a tacere i più poveri o tranquillizzi quelli che godono dei maggiori benefici. Le rivendicazioni sociali che hanno a che fare con la distribuzione delle entrate, l’inclusione sociale dei poveri e i diritti umani, non possono essere soffocate con il pretesto di costruire un consenso a tavolino o un’effimera pace per una minoranza felice. (218.) La pace «non si riduce ad un’assenza di guerra, frutto dell’equilibrio sempre precario delle forze (in campo). Bensì si costruisce giorno per giorno, nel proseguimento di un ordine voluto da Dio che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini» - scrive Paolo VI nella Enciclica ‘Populorum Progressio’(1967), e che Papa Francesco porta a conclusione lanciando un anatema: “In definitiva, una pace che non sorga come frutto dello sviluppo integrale di tutti, non avrà nemmeno futuro e sarà sempre seme di nuovi conflitti e di varie forme di violenza” (219.), insieme ovviamente, a una benedizione affinché non debba essere così.

Da non sottovalutare le frasi seguenti che hanno il sapore di un ammonimento: “Vi è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite. La pienezza (la sete di potere) provoca la volontà di possedere tutto e il limite (la fine impietosa) è la parete che ci si pone davanti. Il ‘tempo’, considerato in senso ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si apre dinanzi, e il momento è espressione del limite che si vive in uno spazio circoscritto”, da cui emerge “un primo principio per progredire nella costruzione di un popolo: (in quanto) il tempo è superiore allo spazio”. (222.) Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione di risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. (..) significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di ‘iniziare processi più che di possedere spazi’. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta dio privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti senza ansietà, con convinzioni chiare e tenaci” (223.224.).

Papa Francesco ci ricorda che: “L’annuncio di ‘pace’ non è quello di una pace negoziata, ma la convinzione che l’unità dello Spirito (e nello Spirito), armonizza tutte le diversità. Supera qualsiasi conflitto in una nuova, promettente sintesi (..) in cui la realtà è più importante dell’idea. (..) ciò che coinvolge è la realtà illuminata del ragionamento”, (..) onde per cui è possibile affermare che la realtà è superiore all’idea. Superare questa dicotomia non è facile e richiede un qualche approfondimento concettuale –filosofico che sposta il criterio dell’incarnazione della parola (il Verbo) sul piano della riflessione teologica pura: “Il criterio di realtà, di una Parola già incarnata e che sempre cerca di incarnarsi”. (233.) «In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio» - afferma l’apostolo Giovanni (1 Gv4,2) qui citato da Papa Francesco, e che tuttavia non convince se non preso come dogma. Postulato questo che ci porta, da un lato, a valorizzare la ricca tradizione bi millenaria della Chiesa, senza pretendere di elaborare un pensiero disgiunto dal Vangelo. Dall’altro lato, ci spinge a mettere in pratica la Parola, a realizzare opere di carità e misericordia e/o di ‘giustizia’ e ‘pace’ di cui la Parola è feconda.

La giustizia dunque come apertura necessaria al ‘dialogo sociale’ in quanto contributo alla ‘pace’, dove “il tutto è superiore alla parte”. Affermazione questa non senza un qualche coinvolgimento scientifico che apre al ‘dialogo tra la fede, la ragione e le scienze’, solitamente ostiche nel favorire una ‘pace’ che suoni come riscatto ancestrale, lì dove si è detto la pace va conquistata. “La Chiesa non pretende di arrestare il mirabile progresso delle scienze. Al contrario, si rallegra e perfino gode riconoscendo l’enorme potenziale che Dio ha dato alla mente umana. Allorché il progresso delle scienze, mantenendosi con rigore accademico nel campo loro specifico, rende evidente una determinata conclusione che la ragione non può negare (ma nemmeno spiegare), allora la fede non la contraddice” (243.) Tuttavia noi sappiamo che non è stato sempre così, la storia ci insegna qualcosa che va decisamente all’opposto di tale affermazione; che contrasta con la scienza dei ‘matematici impertinenti’ e dei ‘filosofi dell’ultima ora’ “che vanno oltre l’oggetto formale della loro disciplina e si sbilanciano con affermazioni o conclusioni che eccedono il campo propriamente scientifico. In tal caso non è la ragione ciò che si propone, ma una determinata ideologia, che chiude la strada ad un dialogo autentico, pacifico e fruttuoso” (243.). È allora che la ‘Chiesa’ fa appello al dogma referenziale per definire espressamente una verità di fede per cui: “La credibilità dell’annuncio cristiano sarebbe molto più grande se i cristiani superassero le loro divisioni e la Chiesa realizzasse «la pienezza dalla cattolicità a lei propria in quei figli che le sono certo uniti col battesimo, ma sono separati dalla sua piena comunione» (244.), (Conc. Ecum. Vat. II)”.

È questo un aspetto della ‘fede’ che non è possibile affrontare nel breve spazio che abbiamo di fronte se non nel vedere un riferimento preciso ad altre tematiche politico-ecumeniche importanti in ordine alle diverse ‘comunioni religiose’ e all’apertura auspicata dal Concilio Vaticano II sul futuro dell’umanità. Con ciò – dice Papa Francesco – “A partire da alcuni temi sociali, (..) ho cercato ancora una volta di esplicitare l’ineludibile dimensione sociale dell’annuncio del Vangelo, per incoraggiare tutti i cristiani a manifestarla sempre nelle loro parole, atteggiamenti e azioni. (258.). (..) In quest’ultimo capitolo non offrirò una sintesi della spiritualità cristiana, né svilupperò grandi temi come la preghiera, l’adorazione eucaristica o la celebrazione della fede, sui quali disponiamo già preziosi testi magisteriali e celebri scritti di grandi autori. (..) Semplicemente propongo alcune riflessioni circa lo spirito della nuova evangelizzazione (260.)”. Per poi inoltrarsi nelle motivazioni per un rinnovato impulso missionario che fa seguito alla Lettera apostolica di Giovanni Paolo II (Novo Millennio ineunte del 2001): “Nello stesso tempo si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica dell’Incarnazione”.

È con quanto segue, infatti, che Papa Francesco favorisce l’incontro in pienezza con Dio, e ci indica il realizzarsi che l’amore per il prossimo e la carità verso i più deboli e i poveri del mondo si traduce nella forza spirituale che ci permette di amare gli altri, facendo proprio il messaggio evangelico: «fino al punto che chi non ama il fratello cammina nelle tenebre» (1 Gv 2,11); «rimane nella morte» (1 Gv 3,14) e «non conosciuto Dio» (1 Gv 4,8). E portando come esempio le bellissime parole riportate nel “Deus caritas est” di Benedetto XVI, 2005): “Chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio” (272.). Ma Papa Francesco non si ferma qui, va avanti come un fiume in piena, ora inveendo, ora militando: “Io sono una missione su questa terra e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere se stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare”. (..) Per condividere la vita con la gente e donarci generosamente, abbiamo bisogno di riconoscere anche che ogni persona è degna della nostra dedizione. Non per il suo aspetto fisico, per le sue capacità, per il suo linguaggio, per la sua mentalità o per le soddisfazioni che ci può offrire, ma perché è opera di Dio, sua creatura. (..) Ogni essere umano è oggetto dell’infinita tenerezza del Signore, ed Egli stesso abita la sua vita. (274.) La sua resurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. È una forza senza uguali. È vero che molte volte sembra che Dio non esista: vediamo ingiustizie, cattiverie, indifferenze e crudeltà che non diminuiscono. Però è altrettanto certo che nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un frutto. In un campo spianato torna ad apparire la vita, ostinata e invincibile” (276.). Quasi a voler affermare una massima di C. G. Jung (*) entrata nell’uso comune che recita: “Ogni vita non vissuta rappresenta un potere distruttore e irresistibile che opera in modo silenzioso e spietato”, per cui andare incontro alla fine è sperare in un nuovo splendente inizio.

E davvero ostinato ci sembra il fervore che anima Papa Francesco, che quasi stupisce e ci meraviglia, e che ci riserverà ancora chissà quante altre sorprese. La sua forza sta nell’intercedere con autentica vitalità nella sua missione evangelizzatrice, e che si esprime nel suo costante rivolgersi alla ‘preghiera’, com’egli spesso dice citando San Paolo: «Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia (..) perché vi porto nel cuore» (Fil 1,47). Ancor più Papa Francesco chiede ai fedeli di pregare per lui, affinché la preghiera lo sostenga nel cammino di fede che ogni giorno si trova a dover indicare alla platea sempre più sterminata che l’accoglie, e con la quale condivide ormai ogni attimo della sua missione: “Così scopriamo che intercedere non ci separa dalla vera contemplazione, perché la contemplazione che lascia fuori gli altri, è un inganno” (282.); per cui la ‘pace’, quella ‘pace sociale’ che tante volte qui abbiamo intersecata, possa estendersi a tutta la collettività cristiana (e non solo) al fine di permettere la realizzazione di quella ‘giustizia divina’ che tutti ci accomuna.

Con questa ‘esortazione evangelica’ Papa Francesco ha rincorso con quella ‘gioia’ che abbiamo preso a inseguire fin dall’inizio di questa ricerca e lo ha fatto senza affanno, con la semplicità e la bonarietà che gli è più consona e che sembra auspicare ogni giorno un nuovo incontro che certamente ci sarà, prima o poi, quando l’incommensurabile amore di Dio poserà lo sguardo su di Lui e su ciascuno di noi, per il quale egli instancabilmente prega. Mi piace qui concludere con la frase idiomatica dell’inizio: Che egli sia l’uomo della futura ‘gioia’ ?

 

Note: I numeri che seguono i brani virgolettati “” (esempio 124.) fanno riferimento ai passi del libro: “Evangeli Gaudium”.

Papa Francesco “Evangeli Gaudium” Esortazione Apostolica, introduzione di Mons. Marcello Semeraro. Libreria Editrice Vaticana. Edizioni San Paolo 2013.

 

Francesco “La gioia di ogni giorno” Libreria Editrice Vaticana. Edizioni San Paolo 2014. www.libreriaeditricevaticana.com Nelle edizioni Mondadori: “Il cielo e la terra” (con Abraham Skorka) “Non fatevi rubare la speranza” “Non abbiate paura di sognare cose grandi” www.librimondadori.it


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