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L’assenza intrapresa - a Pina Bausch

Argomento: Danza

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 20/11/2011 11:19:12

L’ “assenza” intrapresa (quando già l’anima abbandona il corpo)




Strano come in teatro il chiassoso attendere di una “andata in scena” si trasformi talvolta in frantumi di un’orchestrazione immaginaria, formuli proposizioni di aspettative incoerenti con l’oggettività della rappresentazione, per la quale l’attesa, seppure prolungata per una premiér, possa avere una qualche ragione di essere. Solitamente l’attendere, sia pure per un’ “andata in scena” non esprime concetti, tantomeno formula proposizioni, semmai aggiunge immagini stereotipe a simboli preesistenti inerenti alla natura del teatro più che alla rappresentazione in se stessa. Casomai si relaziona col forzato scambio di osservazioni che riguarda il linguaggio extra-teatrale, talvolta alterato da troppa minuziosità tecnica o perché smentito da avventata incompetenza, come appunto accadeva la sera, in cui al Teatro Olimpico di Roma si esibiva per la prima volta, il Tanztheater Wuppertal, diretto da una esordiente sulla scena della danza contemporanea che aveva però già fatto parlare di sé la stampa europea degli “addetti ai lavori”, e non proprio in maniera entusiastica: Pina Bausch. 

Il suo nome è legato al termine Tanztheater (teatro-danza), adottato negli anni '70 da alcuni coreografi tedeschi - tra cui la stessa Bausch - per indicare un preciso progetto artistico che intende differenziarsi dal balletto e dalla danza moderna e che include elementi recitativi, come l'uso del gesto teatrale e della parola. La sua carriera artistica inizia da adolescente, esibendosi in piccoli ruoli di attrice nel teatro di Solingen. In seguito si trasferisce a New York, grazie ad una borsa di studio. Perfeziona la sua tecnica alla Juillard School of Music. Successivamente viene scritturata, come ballerina, dal New American Ballet e dal Metropolitan Opera. Nel 1962, dopo il suo rientro in Germania, che la vede impegnata ancora come danzatrice, compone le prime coreografie per il corpo di ballo della sua scuola nel 1968, la Folkwang Hochschule, che dirigerà dall'anno successivo. Nel 1973 fonda il Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, cambiando nome al già esistente corpo di ballo di Wuppertal. I suoi spettacoli riscuotono fin da principio un indiscusso successo, accumulando riconoscimenti in tutto il mondo. I primi lavori sono ispirati a capolavori artistici, letterari e teatrali, ma è con Café Müller (1978), il suo spettacolo più celebre, composto sulle musiche di Henry Purcell, che si assiste ad una svolta decisiva nello stile e nei contenuti. Mentre le sue prime opere erano animate da una dura critica alla società consumistica e ai suoi valori, le opere più mature approfondiscono sia il contrasto uomo-società, sia la visione intima della coreografa e dei suoi danzatori, che sono chiamati direttamente ad esprimere le proprie personali interpretazioni dei sentimenti. La novità del suo lavoro non consiste tanto nell'invenzione di nuove forme e nuovi gesti da riprodurre uguali a se stessi, quanto nell'interpretazione personale della forma che vuole rappresentare. Un altro elemento di novità è costituito dall'interazione tra i danzatori e la molteplicità di materiali scenici di derivazione strettamente teatrale - come appunto le sedie del Café Müller - che la Bausch inserisce nelle sue coreografie. Il 2009 la vede impegnata in un progetto cinematografico in 3D di Wim Wenders che s'interrompe in seguito alla sua morte improvvisa. Il film-documentario "Pina" uscito postumo quest'anno, è un lungometraggio interamente dedicato al suo Teatrodanza, successivamente portato a termine dal solo Wenders e presentato con successo al 61° Festival di Berlino nel 2011.

Io immaginavo che le stanze della danza assumessero nella mente di quelli che la amano una dimensione fuori dell’ordinario, di tipo “superlativo” per pochi adepti o conoscitori colti, ma quella sera c’era stato un affollamento inconsueto e per certi aspetti sorprendente, che pensai dovuto alla straordinaria sete (o fame dipende) del nuovo che spesso incalza, soprattutto quando si arriva a una saturità di cose viste, lette, ascoltate, quando non addirittura artate e divenute ormai polverose, insomma, che non entusiasmano più. In passato c’eravamo abituati a vedere una danza senza alcuna necessaria relazione con il mondo reale, intrappolata entro formule e gesti convenzionali in quanto surreali, atteggiamenti corporei che avevano perso la dimensione umana per entrare in quella immaginaria dell’eloquenza fine a se stessa, del garbo dell’eleganza, immersa in una coltre di sognata realtà che apparteneva ad esseri alati forse, certamente caricati di angeliche virtù. Mentre solo alcuni nomi, che oggi definiamo “rappresentativi” di un percorso artistico, avevano portato in scena (con coraggio o meno) la propria fisicità, per così dire avevano espresso con il proprio corpo quella “tensione” muscolare e nervosa, specchio di umana forza e fragilità, che in seguito elegemmo ad “eroi” di un passato a latere della nostra epoca e della storia della danza artistica. 

Prima di lei, solo Isadora Duncan aveva osato tanto, e pur rifacendosi a una classicità millenaria, aveva infranto le regole convenzionali portando la danza fuori del teatro, per restituirla alla libertà espressiva con coreografie aeree di grande effetto, accentuate dalla sua dirompente corporeità, cui fece seguito un lunga e infausta stagione di silenzio. Fino ad arrivare a quella fatidica sera “della prima” in cui Pina Bausch apparve sulla scena a interrompere l’incanto illusorio di un danzare fine a se stesso, con la violenza di una macchina mangiapersone (pubblico incluso) che trasfondeva il linguaggio della danza nel linguaggio del corpo fisico, dove fin anche le emozioni divenivano epidermiche, i corpi stessi ritrovavano nella nuda preziosità della terra la loro ragione di esseri, uscivano per così dire “dall’oscurità del mondo alla ricerca di una perduta immagine primordiale”, (K. Kraus). Improvvisamente la dimensione della danza si appropriava dello spazio scenico e del teatro, usciva all’esterno di esso e diventava urbana, ossia metropolitana, assumeva i lineamenti dell’umana gente, i ritmi convulsi del quotidiano, penetrava nelle viscere costipate (materiali) dei corpi, delle nevrosi e delle paure che la colpiva nella psiche, in cui i dettagli erano la realtà oggettiva degli sguardi tesi, a dipanare patologie devianti, senza possibilità di riscatto. Così il “Café Müller” luogo di incontro e di comunicazione si trasformava in luogo di perdizione psicologica, d’incomprensioni senza appello, di estenuanti lotte di prevaricazione e di predominanza assoluta. In cui la musica, altro elemento ingombrante ma necessario, scandiva sulla musica di Purcell (stereotipo) il linguaggio dei gesti e le funzioni dei corpi, chiamati dalla coreografa a rappresentare se stessi: quell’umana gente che in effetti rappresentano al pari delle loro emozioni e dei loro sentimenti. Allora gli alberi del bosco, la terra, la roccia, la pioggia, il vento nella corsa, le strutture architettoniche, i treni, le auto, tutta la meccanicità del mondo, anche quando non sono presenti, (e non potrebbero esserlo), tutto si muove contemporaneamente e dinamicamente nel ripetersi dei gesti della quotidianità che vuole che anche se stiamo fermi, la terra continua a muoversi contribuendo così al movimento costante delle cose, esseri umani compresi. 

Perfino lì dove l’ “assenza” oggettiva della scenografia, seppure minima e necessaria, si rivela frutto di ricerca di spazialità che restituisce ai corpi, se non il predominio, l’essenzialità di una coesistenza coatta, al tempo stesso libera e spontanea, utile ma non indispensabile, come frutto di coinvolgimenti e ricongiungimenti. Così come nella “Sagra” di Stravinskij(ana) memoria, in cui l’invasiva presenza della terra (in scena) ne esclude ogni altra, per il ritorno a un rito ancestrale che vede la nascita e la morte come il conseguimento di un iter di apocalittica memoria. È allora che in Bausch la terra diventa madre e padre, amante e figlia, primogenitura di esseri umani e realtà oggettive pur differenziate che accoglie indistintamente nella sua natura: “assenza intrapresa”, voluta, di un certo modo di essere che esclude ogni priorità, ogni presunzione di primariato, rimettendo il tutto all’interno di quell’ “uovo cosmico” in cui ogni cosa trova la propria ragione di esistere. Ma ècco che, incapaci come noi siamo, di sostenere l’assenza di peso dei nostri corpi alati (di Icaro memoria), nel tentativo di levarci altissimi fin dove la Bausch ci vede fatti di luce e di splendore, nella divinità infinita dei nostri corpi, veniamo presi dai nostri indefiniti dubbi che ci portiamo dietro e ci torna infine la paura di non farcela a sostenere il calore infuocato del sole, e meschini torniamo miserevolmente a essere umani, precipitando così, irrimediabilmente verso il basso, e infine ricongiungerci alla terra da cui veniamo. Ragione per cui, forse, non saremo mai déi. 
Pina Bausch un autentico “mito del silenzio”.

Riconoscimenti:
La Biennale Teatro di Venezia, diretta da Franco Quadri, nel 1985 alla Fenice dedica una retrospettiva agli spettacoli di Pina Bausch e del suo Tanztheater. Tra i numerosi premi vinti dalla Bausch per la sua attività con il corpo di ballo del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch sono da ricordare: il Premio Ubu nel 1983 per il miglior spettacolo straniero; un secondo Premio Ubu assegnato nel 1990 e un terzo nel 1997. Nel 1999 le viene attribuito il Premio Europa per il Teatro e la laurea honoris causa in arti performative dall'Università di Bologna. Nel 2003, a Parigi, viene nominata Cavaliere dell'ordine nazionale della Legion d'onore, mentre nel 2006, a Londra, le viene conferito il Laurence Olivier Award e viene nominata direttrice onoraria dell'Accademia Nazionale di Danza di Roma. 

Come attrice è apparsa in: 
'Die Generalprobe', regia di Werner Schroeter (1980)
'E la nave va', regia di Federico Fellini (1983)
'Parla con lei' (Hable con ella), regia di Pedro Almodóvar (2002)
'Pina', regia di Wim Wenders (distribuito nel 2011)

Regista e sceneggiatrice:
Die Klage der Kaiserin (1990)

(da Wikipedia l’enciclopedia libera).
È difficile immaginare cosa sarebbe il teatro della danza dell'ultimo quarto di secolo senza la paradigmatica esperienza e creatività di Pina Bausch. Questa coreografa dall'inconfondibile silhouette nera e dall'effigie esangue, sofferente, come in preda all'imminente consunzione ma in realtà da anni potente e energica capofila del genere teatrodanza (o Tanztheater), è riuscita a modificare gli orizzonti culturali ed estetici della danza del nostro tempo, guadagnandosi non solo una schiera di imitatori ma anche un pubblico insospettabile: forse il pubblico più largo e nuovo che qualsiasi altro coreografo di oggi abbia attirato a sé. Complice del suo successo, almeno in Italia, è proprio il termine Tanztheater da lei adottato per definire il suo teatro della danza, o 'della vita' e 'dell'esperienza': in realtà un termine d'uso, strettamente correlato a un preciso progetto artistico comune a un'intera generazione di creatori e coreografi tedeschi come lei ingaggiati, già negli anni Settanta, all'interno di grandi strutture e teatri d'opera della Germania. Per segnalare che la loro produzione artistica non avrebbe più avuto alcuna attinenza con il balletto o la danza moderna, precedentemente accolti in quegli stessi teatri, essi preferirono chiamare le loro compagnie, nonché definire la loro stessa produzione, Tanztheater. Nella lingua tedesca questo vocabolo composto significa semplicemente teatro della danza, ma in molti paesi di lingua non tedesca, come appunto l'Italia, esso ha dato adito alle più diverse e spesso improprie traduzioni/interpretazioni. Tanto è vero che la tentazione di inscrivere la geniale Bausch nell'alveo dei registi teatrali, sminuendo così sia la sua formazione strettamente coreutica che quella dei suoi interpreti-ballerini, ha provocato non pochi equivoci nell'iniziale esegesi del suo teatro, almeno sino a quando la sua evidenza danzante e le recise affermazioni della stessa B., che tante volte ha dato di sé persino la definizione di `compositrice di danza', per rimarcare l'importanza della musica e dell'ispirazione musicale nelle sue opere, hanno finito per convincere anche i più increduli della natura eminentemente coreografica, anche nell'uso del gesto teatrale e della parola, del suo 'teatro totale'.
L'immagine dell'adolescente e timidissima Pina che trascorre i suoi giorni sotto i tavoli del ristorante del padre e ne osserva, in desolata solitudine, gli avventori (un flash che servirà poi per ricondurre a memorie personali il suo indiscutibile capolavoro del 1978: Café Müller) è la prima di un'agiografia che contempla pure lo sconforto della ballerina in erba dai piedi troppo lunghi (a dodici anni calzava già il 41) per calzare le scarpette a punta. Ma prima di entrare, quindicenne, alla Folkwang Hochschule di Essen, diretta da Kurt Jooss, allievo e divulgatore delle teorie e dell'estetica dell'Ausdruckstanz (danza espressionista) promulgata da Rudolf von Laban, la B. non aveva mai frequentato veri corsi di balletto o di danza; compariva assiduamente, però, nel teatro della sua città e ben presto ne divenne una comparsa, utilizzata in operette e piccoli ruoli e anche in serate di balletto. A Essen, dove ha la fortuna di studiare proprio con Jooss, si diploma nel 1959 e ottiene una borsa di studio dal Deutscher Akademischer Austauschdienst (l'Organizzazione tedesca per i programmi di scambio accademico) che le consente di perfezionarsi negli Usa. A New York è `special student' alla Julliard School of Music, dove studia, tra gli altri, con Antony Tudor, José Limón, Louis Horst e Paul Taylor; contemporaneamente entra a far parte della Dance Company Paul Sanasardo e Donya Feuer, creata nel 1957. Viene quindi scritturata dal New American Ballet e dal Metropolitan Opera Ballet diretto da Tudor. Nel 1962 Jooss la invita a tornare in Germania e a diventare ballerina solista nel suo ricostruito Folkwang Ballet. Dopo l'elettrizzante esperienza americana, il nuovo impatto con la realtà tedesca è deludente. Il lavoro dei danzatori non è così approfondito e severo come a New York: la B. cerca partner infaticabili, che le somiglino, e inizia a collaborare con il danzatore e futuro maestro Jean Cébron che sarà suo partner nelle prime esibizioni italiane (al festival dei Due Mondi di Spoleto del 1967 e del '69). Dal 1968 diviene coreografa del Folkwang Ballet e nell'anno successivo ne assume l'incarico di direttrice. Risale a quel periodo anche la creazione di 'Im Wind der Zeit' (1969) che le vale il primo premio al Concorso di composizione coreografica di Colonia, seguito, tra gli altri lavori dell'epoca, da Aktionen fur Taumnzer (1971) e da Venusberg per il 'Baccanale' del Tannhauser di Wagner (1972). Nel 1973, su invito del sovrintendente Arno Wüstenhöfer, accetta la direzione della Compagnia di balletto di Wuppertal, ben presto ribattezzata Wuppertaler Tanztheater: i suoi primi collaboratori sono lo scenografo Rolf Borzik, scomparso nel 1980, e i danzatori Dominique Mercy, Ian Minarik e Malou Airaudo.
Nel 1974 crea la pièce Fritz (su musiche di Mahler e Hufschmidt), l'opera-ballo 'Iphigenie auf Tauris' (riallestito nel 1991 all'Opéra di Parigi), la rivista Zwei Krawatten, il balletto su musiche da ballo e canzoni del passato 'Ich bring dich um die Ecke' e 'Adagio-Fünf Lieder von Gustav Mahler' : una danza sui Lieder mahleriani. Il 1975 è l'anno della realizzazione scenico-coreografica di 'Orpheus und Eurydike' di Gluck, ricomposto nel 1992 e ammirato anche in Italia (Teatro Carlo Felice, 1994), e dell'importante trittico stravinskiano Frühlingsopfer (Wind von West, Der zweite Frühling e Le sacre du printemps ), seguito dalla prima svolta nella carriera dell'artista che coincide con un progressivo allontanamento dalle forme canoniche della coreografia, ben evidente in opere ormai di rilevante importanza storica, come Die sieben Todsünden su musica di Kurt Weill (1976), Blaubart, Beim Anhören einer Tonbandaufnahme von Béla Bartóks Oper"Herzog Blaubarts Burg", su motivi dell'opera bartókiana Il castello del duca Barbablù , che nel 1998 affronta da regista, su invito di Pierre Boulez. E ancora Komm tanz mit mir (1977), una pièce accompagnata da antiche canzoni popolari, l'operetta Renate wandert aus (1977) e un originale adattamento del Macbeth shakespeariano ( Er nimmt Sie an der Hand und führt Sie in das Schloss, die anderen folgen, 1978). Gli allestimenti successivi al capolavoro 'Café Müller' (quaranta minuti di danza su musica di Henry Purcell, per sei interpreti in tutto, tra cui la stessa coreografa che sino alla fine degli anni Novanta non accetterà più di comparire in scena) tengono conto soprattutto della scoperta del linguaggio, del verbo, della parola e di un'intera gamma di suoni originari, intesi come possibilità di articolazioni animali (ridere, piangere, urlare, sussurrare, tossire, piagnucolare) già sperimentata in 'Blaulbart' : vero spettacolo di riferimento per il passaggio alla sua nuova `drammaturgia totale'. Proprio in questo spettacolo frantumato e elettrizzato dal fruscio delle foglie secche disseminate in scena, la coreografa inizia a mettere a fuoco un nuovo metodo di lavoro. 
Invece della tradizionale imposizione ai ballerini di movimenti e passi, si propongono dei `questionari' scritti e orali ai quali la risposta potrà essere verbale o corporea. Istigando la sua troupe, la Pina Bausch finisce per sostituire le partiture e i testi drammatici (Stravinskij per il suo madido e furioso 'Sacre du printemps', Brecht per 'Die sieben Todsünden', Shakespeare per il già citato 'Macbeth' del 1978, che ha il titolo di una lunga didascalia) con un variegato collage di risposte a domande quali: «Da piccolo avevi paura del buio?», «Cosa fai quando ti piace qualcuno?», «Qual è il tuo maggiore complesso fisico?». Il risultato eclatante della sovvertita pratica coreografica - come dimostra lo spettacolo 1980, Ein Stück von Pina Bausch - non consiste però solo nell'entrata in scena di urla, gesti sonori, canti, parole e musiche di riporto - tutte novità relative nella storia della danza, in specie per il ceppo espressionista, a cui Pina Bausch, con il tramite del suo maestro Jooss, ma anche nella progressiva demolizione del mito e dell'estetica tradizionale del ballerino. Trasformarlo in `persona' che si muove in abiti quotidiani (giacca e pantaloni per i danzatori, sottovesti, ma soprattutto lunghi abiti da sera per le danzatrici) crea uno scandalo negli edulcorati ambienti del balletto europeo e costa a Pina Bausch accuse di volgarità e cattivo gusto germanici, specie da parte della critica americana, sbigottita di fronte al realismo del pianto delle sue danzatrici, e persino accuse di sadismo verso il vissuto interiore degli interpreti.
In Italia, spettacoli degli anni Settanta e Ottanta come 'Kontakthof' del 1978 (incredula e ancora impacciata l'accoglienza al Teatro alla Scala nel 1983), 'Bandoneon', creato nel 1980, subito dopo un lungo soggiorno in Sud America e 'Auf dem Gebierge hat Man ein Geschrei gehört' (1984) ottengono un riconoscimento ufficiale a Venezia, grazie a un'antologia della Biennale Teatro alla Fenice (1985). Prima di questa importante vetrina solo 'Café Müller' e 'Keuschheitslegende' (1979), entrambi presentati al Teatro Due di Parma nel 1981, con 'Nelken' (1983), allestito nell'anno di nascita al Teatro Malibran di Venezia, avevano turbato, rapito e scosso il pubblico italiano. E mentre alcune opere importanti come 'Arien' (1979) e 'Walzer' (1982) attendono non solo una prima italiana ma di essere riallestite, la coreografa viene consacrata negli anni Novanta un po' ovunque. Nelle sue pièce totali si scopre quanto abbia saputo dolorosamente scavare nella psiche del danzatore, restituendogli una gestualità senza maschere e una padronanza totale della scena. Errate interpretazioni del suo metodo di lavoro, come già si diceva, hanno tentato di accostarla al mondo del teatro di improvvisazione. In realtà, la B. ha sempre utilizzato a sua esclusiva discrezione i materiali espressivi dei ballerini, anche affidando il vissuto di un danzatore a un altro, come se avesse a che fare con semplici passi di danza e non con un frammento di vita: il piglio un poco dittatoriale - in lei sofferto e gentile - è quello tipico di molti coreografi. 
E coreografa alla potenza si è rivelata nel saper gestire il respiro scenico dell'universo dei suoi interpreti a cui è toccato ricostruire le anomalie del vivere sociale, l'irrisolta battaglia tra i sessi, lo sgretolamento dei valori più saldi della generazione successiva all'Olocausto, in un corollario di vizi e virtù umane del popolo tedesco ma non solo, esposte non senza una potente patina di divertimento e di ironia. Basti pensare alla creazione di quegli assolo, che restano a futura memoria nell'iconografia del suo teatrodanza, in cui l'invenzione gestuale è tanto minima quanto freschissima (in 'Nelken', Luzt Förster traduce con l'alfabeto dei sordomuti la canzone 'Someday he'll come along' e Anne-Marie Benati se ne sta sola, senza vestiti ma con un paio di mutande bianche e una fisarmonica al collo, nel campo di garofani che accoglie la pièce), o a quei trionfali `passi à la Bausch, ritmati e a larghe volute, con i quali ha tanto spesso spedito (come in 1980 , morbido ma agrodolce party dal sapore hollywoodiano) i suoi fedelissimi tra il pubblico, in una manovra di avvicinamento alla non-fiction sempre più insistita e fisica. Nell'arco creativo che corre da 1980 a Palermo, lo spettacolo sontuoso e degradato, allestito nel 1991 sul campo degli scempi siciliani (si assiste al crollo di un muro che inevitabilmente evoca quello di Berlino) la B. ha indubbiamente creato il suo teatrodanza maggiore. E si è concessa poche libertà d'autore: il vezzo molto tedesco di definire Stücke , ossia 'pezzi', tutte le sue opere collettive, come schegge romantiche della sua fantasia musicale, e l'altro vezzo del viaggio goethiano, esotico e ricognitore, tuttora inarrestabile. La creazione a getto continuo di scenografie vive e naturali (di Rolf Borzik, prima, e di Peter Pabst, poi) ha contribuito a alimentare la trasognata spettacolarità degli Stücke sempre vestiti della prediletta costumista Marion Cito.
L'acquario con veri pesci fluttuanti e la serra di piante grasse di 'Two Cigarettes in the Dark' (1984), la terra che dall'alto cade nella fossa `romana' di 'Viktor' , lo spettacolo creato nel 1986 e dedicato alla città caput mundi ; il deserto punteggiato di grandi tronchi spinosi e ingombranti di 'Ahnen' (1987) come l'acqua che ostacolava le disperate corse di Arien e il prato profumato di '1980' , hanno di volta in volta preservato la sua inventiva dal pericolo di reiterare la formula-cliché deflagrata e a frammenti del suo teatrodanza. Nello spettacolo 'Danzon' (1996) la scena proiettata e a 'cartoline illustrate' di Peter Pabst indica un momentaneo allontanamento dagli elementi vivi della natura a lei cara: tra pesci tropicali che scorrono in immagini filmiche torna a danzare, con le sue braccia morbide e tormentate, la stessa B., sublime e decorativa mentre saluta il pubblico alzando una mano. Due episodi cinematografici, come la partecipazione, nei panni di una contessa non vedente nel film 'E la nave va' di Federico Fellini e la confezione del lungometraggio 'Die Klage der Kaiserin' (1989), in cui l'influenza felliniana e l'impianto visionario non giungono però a comporsi in un ritmo narrativo efficace e serrato, non la distolgono dal proseguire il suo viaggio goethiano alla scoperta di paesi e città del mondo. Dopo Roma e Palermo, le nuove tappe sono Madrid ( 'Tanzabend II' , 1991), Vienna, Los Angeles, Hong Kong, Lisbona. Nascono il californiano 'Nur Du' (1996), il cinese 'Der Fensterputzer' (1997), concepito nel momento della cessione di Hong Kong alla Cina e il portoghese 'Masurca Fogo' (1998): tre spettacoli 'leggeri', più corti e rapidi di quelli storici degli anni Ottanta (spesso condotti oltre il limite delle tre ore), con ritmi incalzanti e musiche a collage, sempre festose. La nuova risorsa della coreografa di Wuppertal è infatti la riscoperta della danza pura - il tango di 'Nur Du' , il folklore rivisitato di 'Danzon', le ammalianti passerelle di 'Masurca Fogo' - nell'utilizzo di danzatori sempre nuovi ai quali sembra però assai più difficile poter sottoporre i `questionari' del suo metodo, così adatto a generazioni di ballerini a lei coetanei ma forse sprecato per le generazioni danzanti telematiche e cibernetiche, alle quali non a caso assegna sempre più spesso ruoli muti e di puro movimento nel confronto ancora strettissimo con i grandi e riconoscibili interpreti del Wuppertaler Tanztheater che non l'hanno abbandonata (oltre a Minarik e a Mercy, l'attrice Mechthild Grossmann).
Nato negli anni Settanta, come il cinema neorealista a cui fu strettamente legato, sullo sfondo di una cultura tedesca disposta a mettersi in crisi, il teatrodanza di Pina Bausch si deve considerare un edificio storico che funge da spartiacque: esiste infatti un teatrodanza precedente alla B. e di origine tedesca, che non ha mai ottenuto il successo e il riconoscimento di quello bausciano, mentre la coreografa ha fatto tesoro sia dell'insegnamento di Jooss che di quello di Tudor (il maestro del balletto psicologico ), andando a influenzare le arti limitrofe, come il teatro a cui ha svelato la portata dell'eredità di danza e balletto, nel segno di un neo-espressionismo che non ha certo esaurito la sua funzione estetico-artistica-sociale, anche se fatica a superare le modalità compositive spledidamente cristallizzate dalla coreografa. Esemplare resta il suo lascito coreutico in opere come 'Le sacre du printemps' e 'Café Müller' , in cui la tecnica coniuga i fondamenti della danza libera nell'utilizzo espressivo soprattutto degli arti superiori. Nel teatrodanza della B. il corpo del danzatore necessita di una formazione accademica - frequente l'uso di figure tipiche del balletto ( arabesque, attitude ) e di pirouettes - anche se nel suo irrinunciabile avvicinamento alla vita la coreografa rompe continuamente la prigionia dei codici o vi fa ritorno per paradosso, in episodi, spesso ironici, di riflessione sulla danza stessa e sulla fatica di danzare, che costituiscono uno dei leitmotive non secondari della sua coreografia 'totale'.



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