Per scrivere un numero sufficiente di versi
bisogna essere stati nervosi molti giorni
in ulcerata gioia.
Statue senza colori indicano le finestre
hanno acconciature anni '70, dei loro poeti
ci sembra più vicino Cavalcanti.
Non tutti verificano ciò che è stato fatto
- qualcosa a vent'anni che neanche ci si accorge
i primi movimenti del poemetto per la madre
una decina di liriche piombate.
Non è che ci sia poi tanto conforto
nei piccoli occhi epilettici dei fiori.
Un tetro calamaro muove invece
i suoi tentacoli nella mia testa, i suoi concetti.
*
Mi guardi come fossi un imbecille
quando nelle stazioni di servizio
maturano i bulbi dei rimorsi. L'aria
cattiva circonda le verande in resina.
Un sorriso su tutti i bicchieri del mondo
ripara i nervi dal tartaro della mia generazione.
Non c'è coincidenza, è finito anche l'ultimo intanto.
Non suda per il caldo
ma per una diagnosi sbagliata.
Le bollette non scadranno ma
per favore, non diteglielo.
La bici si stacca da terra e vola -
canta la rana più magra dello stagno.
La soddisfazione non è una tabellina a memoria.
Non so se sia previsto l'amore senza sesso, a me basta
scrivere piccoli libri per essere in ottima forma.
La nostra immaginazione ha guinzagli più lunghi.
Negli attici alberati è più facile
smettere di respirare e
solo dopo un po' riprendere. Finché
gli impiegati riempiranno i ristoranti del centro.
*
«Chi siamo?» chiede il quasiprete
quando piuttosto dovrebbe
domandarsi se per caso
siamo veramente.
Complessità elementari,
osmosi e strade e case.
Molluschi siamo in una maglia di legami,
siamo la taverna e il canto
il vuoto dell’origine, la mancanza, la nera
distanza che si riproduce. Siamo
le piccole madri bianche.
[ da Ipotesi di felicità, Alberto Pellegatta, Mondadori, Lo Specchio ]