...E se fossi vittima di un’illusione?
Mi sento obiettarmi:
quello che è in me, è l’immagine,
il riflesso, l’idea dell’universo.
Il pensiero non è che il fantasma
del mondo offerto a ciascuno di noi.
L’universo per sé stesso esiste
all’infuori di me, indipendentemente da me,
con tale immensità
da far sì che io sia un nulla
e come già morto.
Se anche io non fossi,
o se chiudessi gli occhi,
l’universo sarebbe egualmente.
Un’angoscia, una ferita fresca
mi stringe lo stomaco…
Poi ecco che un grido sale dentro di me,
un grido lucido, cosciente e indimenticabile
come un accordo sublime di tutta la musica: «No!».
No. Non è così. Io non so
se al di fuori di me l’universo
possiede una realtà qualsiasi.
Quello che so, è che la sua realtà
non appare che per mezzo del mio pensiero
e che fin dal principio esso non esiste
se non per l’idea che me ne faccio.
Sono io che ho fatto sorgere
le stelle e i secoli e che ho teso il cielo
nella mia testa.
Io non posso uscire dal mio pensiero.
Non ho il diritto di farlo,
senza errori e senza menzogne.
Non posso. Ho un bel tentare
di dibattermi come per sfuggire da me stesso:
non posso concedere al mondo
altra realtà che quella della mia immaginazione.
Credo in me e sono solo,
poiché non posso uscire da me stesso.
Come immaginare senza impazzire
che io non sia solo?
Quale cosa potrebbe provarmi
che oltre l’insuperabile pensiero
il mondo abbia un’esistenza disgiunta da me!
[La poesia qui proposta è un libero adattamento in versi della scrittura in prosa tratta da L’inferno, Henri Barbusse, trad. di Manuela Madama, Edizioni di Atlantide, pagina 236]