Mi chiamavano schizofrenico,
ero un malato, da manuale,
ora sto steso su un filo elettrico
ché nel mio mondo non ci so stare.
Quarant'anni rinchiuso in me stesso,
vaso inchiodato tra i fiordalisi,
son molti a contarsi, son molti a scordarsi,
vorrei viver normale, rincorrendo la crisi.
Ventun'ore son tante,
tra milleduecentosessanta minuti
e settantamila secondi,
mi mancan le forze, non sento le braccia,
contando i miei battiti in attesa che affondi,
che sprofondi nel vuoto senza molti sorrisi
della fine imminente, rincorrendo la crisi.
Nelle vicinanze
d'una casa di cura
di nome Villa Serena,
- mi domando che vi sia
di sereno, nel ricovero
d'uomini scivolati in cancrena-,
dondolo da un traliccio
dell'alta tensione,
afferrando con dita veloci
le notizie della televisione.
Parte inattiva statistica
della nostra nazione
senza nessun imbarazzo,
mi son sentito in diritto
di reclamare un lavoro,
urlando: «altrimenti m'ammazzo»,
e, coerente, almeno una volta,
alla solennità dei miei avvisi
mi buttai dalla vita,
rincorrendo la crisi.
[Scarti di magazzino, 2013]
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