La scala a chiocciola, librata in mezzo ad una scia di monumenti funebri di superficie,
conduce nel cuore delle terre nere - a Occidente, direbbe il saggio Ptahhotep-
conduce all’archivio storico d’una intera città
sommersa da centinaia d’anni di corone funebri,
lento incedere di corteo, benedizioni bagnate di dolori attoniti.
Come un archivio di ministero,
debitamente incasellati: i morti.
Morti, d’ogni età, d’ogni secolo, morti stoccati in nicchie d’un metro
in corridoi senza tempo, a due dimensioni,
città nella città, città sotto città, un carosello di fiori sbiaditi
coccarde nere fine ottocento, ritratti velati di nebbia,
conditi da un’atmosfera di noia mortale,
nome dopo nome viso dopo viso
muti racconti ammantati dal sudario dell’oblio.
Vorrei (e mi ritrovo a scrivere «vorrei» in un testo dopo troppo tempo),
essere burocrate da casellario
dando un minuto di voce a ciascun concessionario:
al bimbo morto, a un anno, nel ‘43
condannato a vestire in eterno da bebè;
a un magistrato, baffi all’Umberto, costretto a vivere la morte,
di fianco all’umile, magari ladro, scafato tecnico da cassaforte;
ad una contegnosa docente di Liceo, deceduta nel ‘19,
che mai arrivò a spiegare ai suoi mille e mille alunni
come mai morirono di ferite o campi di concentramento
in un ventennio speso a risiedere in un reggimento.
Fuggito dal remoto avvenire risalendo di corsa la scala
i monumenti funebri di superficie ci richiamano all’oggi, all’istante,
o a un futuro meno distante.
[Scarti di magazzino, 2013]
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