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di Alfredo Caputo
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Pubblicato il 22/11/2009 02:38:33

A volte il sangue scorre inspiegabilmente lento dentro di te. Avverti un certo bisogno di rallentare il ritmo consueto, e non sai nemmeno il perché. Non certo per prepararti ad un possibile evento successivo, o per sondare e tastare un particolare terreno d’azione, o per mascherare, a livello esteriore e negli atteggiamenti, la rabbia o l’euforia che ribollono. No, è semplicemente per fermarti un attimo e scrutare nel tuo interno. Analizzarti e studiarti più dettagliatamente, fin quasi ad arrivare all’autoscomposizione e casuale ricomposizione dei tasselli del puzzle che si addentrano nei meandri della tua coscienza, che la abitano e la tormentano. Eppure, al di là della sua apparente casualità, ciò a volte sembra seguire un rigoroso quanto assurdo criterio, soggetto solo a proprie regole interne. Senti di trovarti nel limbo dell’anima. Da una parte ricordi, dall’altra serie infinite di possibili eventi che la mente proietta sulla scia dei primi, ed in base ai quali li costruisce. Percepisci un blocco, un arresto del sistema nervoso, senza sapere che quest’ultimo, paradossalmente, sta lavorando più del solito e più del dovuto. E cerchi disperatamente un rifugio, un angolo della mente in cui fermare lo stesso arresto e far lavorare di nuovo normalmente gli ingranaggi. La disperazione è resa ancor più ridicola e annichilente dal fatto stesso che essa risiede in un quasi imperturbabile stato di placida calma psicologica. Sapere e rendersi conto di essere disperati senza tuttavia avvertirlo direttamente e palpabilmente. Un’assurda condizione di disperazione priva di disperazione, di vuoto e apatico tormento.
Era questo che pensava Tim mentre se ne stava sdraiato sul letto, con lo sguardo perso nel vuoto, e con la mente, invece, così carica di attività e tensione nervosa, nonostante l’apparente stato di inamovibile e passiva inerzia che sembrava renderlo abbandonato a se stesso. Era qualche giorno che in lui si era innescato un lento quanto progressivo lavorio, a volte inconscio e quasi del tutto inavvertito, che lo estraniava per la maggior parte del tempo dal mondo esterno, e gli produceva, come effetto, una scarsa reattività fisica. Da qualche giorno sentiva un generale senso di demotivazione, che lo rendeva assente ed indifferente allo scorrere contingente intorno a sé. A malapena soddisfava i suoi essenziali bisogni quotidiani. La notte dormiva poco. Ciò non lo rendeva teso o nervoso, anzi accresceva ancora di più la sua pigra e anodina rilassatezza ed il suo abbandono fisico, almeno così sembrava a chi lo osservasse dall’esterno.
Se ne stava quasi tutto il giorno sdraiato su un letto o un divano a pensare, pensare, e ancora pensare. Tutti, in famiglia, mostravano irritazione, sdegno, e a volte anche aperta avversione nei confronti di questo suo, per così dire, atteggiamento, che appariva ai loro occhi impertinente e testardamente voluto. Ma lui sembrava non farci minimamente caso. Era tutto immerso e concentrato nel suo processo di elaborazione interna, quasi come se avesse un preciso compito da portare a termine, un obiettivo da inseguire pervicacemente.
Un giorno, inaspettatamente e senza alcun preavviso, uscì di casa. Erano le tre del pomeriggio. Il sole picchiava forte, e si respirava un’aria a dir poco asfissiante.
Camminava a passo deciso e leggermente svelto, guardando in un’unica direzione, solo dinanzi a sé, con il solito sguardo che sembrava perso nel vuoto. Non sembrava avesse una meta ben precisa. Dopo aver camminato per circa un chilometro, scorse una panchina dall’altra parte della strada, vi si diresse e si sedette. Era molto sudato, visibilmente affannato e stranamente agitato, a differenza di qualche minuto prima, quasi come se una disgrazia incombente lo dovesse raggiungere da un momento all’altro.
Dopo un po’ passò di lì una giovane donna, sulla trentina. Il suo volto era parzialmente coperto da un paio di grandi occhiali scuri. Portava una lunga giacca nera e degli alti tacchi a spillo. Si fermò davanti alla panchina, sulla quale Tim era seduto con lo sguardo rivolto verso il basso.
<< Mi hai rovinato la vita, lo sai? >> Disse Tim senza alzare lo sguardo.
<< Io ho cominciato a fartela vivere, la vita. >> Rispose la donna con una compostezza e lentezza per certi versi inquietanti.
<< Non si può continuare così. Bisogna voltare pagina. >> Disse lui, come se non avesse minimamente ascoltato ciò che gli era stato appena detto.
<< E cosa pensi di fare? >> Ribattè prontamente la donna, di nuovo con tono estremamente calmo e con aria imperturbabile.
<< Ho deciso di voltarla, la pagina. Ma lo farò col sangue. >> Rispose lui, con gli occhi immobili e sbarrati, in una maniera a dir poco raggelante. A queste parole, il volto della sua interlocutrice si dipinse di terrore e sgomento. Non riuscì nemmeno a muoversi, tanto era presa dalla paura. Senza aggiungere altro, Tim infilò lentamente una mano all’interno del suo cappotto aperto, cacciando fuori una lunga rivoltella. Sempre lentamente, la puntò contro il volto della donna e senza esitare sparò un colpo. Questa, senza emettere alcun suono, cadde immediatamente al suolo. Un rivolo di sangue attraversò un tratto del marciapiede su cui era riverso il corpo esangue della vittima.
Tim, senza mostrare minimo segno di turbamento, si alzò di scatto e restò a contemplare per un po’ la salma della donna.
<< Beh, dopotutto.. eri solo la mia amante. >> disse abbozzando un leggero sorriso e con tono sottilmente ironico. Si voltò e si incamminò di nuovo verso casa.



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