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ad Anjia P. Ettorova, con tutta la mia banalità

di Filippo Di Lella
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Pubblicato il 16/07/2019 16:35:00

Quand'è mezzanotte
mi piace star fuori,
sentire il rumore,
lo sferragliare dei treni,
la sirena della stazione,
mi piace
immaginare la polvere di carbone,
quasi la vedo posarsi;
mi piace star fuori ma,
oggi,
sei tu a tenermi fuori,
ti rinchiudi,
nei tuoi silenzi
il rombo del treno è rimorso,
la sirena rimpianto,
la polvere nel cuore
e tutto piange rabbia,
sconforto,
sconfitta, delusione.

I passanti ridono nei colbacchi.

L'aria fresca porta pioggia,
sarà la solita, stupida,
tempesta.
Nel vento aleggia un aquilone,
forse una lanterna,
non saprei,
è in alto e la guardo,
mi perdo
un brivido d'universo
sulla mia pelle d'oca,
sono fuori dai tuoi pensieri,
non ho più la chiave
e tu non apri,
sto fuori vestito come ad agosto
ma s'è fatto ottobre
e nessuno m'ha avvisato
e tu non apri,
resto fuori
è gelido il sapore del disappunto,
piove collera, silenzio,
quale antenato di ghiaccio ti generò?

Non avevo mai pensato
che da un fiore nascesse il temporale
Non avevo mai pensato,
affatto ma,
ora che son fuori,
non sento che i miei dèmoni gridare
la loro voce è il tuono,
il loro graffio strage e mi tocca,
stupido,
affrontarli in calzoncini
e i passanti ridono nei colbacchi.

Potessi riportare non oro,
né argento
ma foschie d'amore,
maciullerei i cappotti,
i cappelli, le risate
con la forza di un brivido
ché il tuo nome procura,
con quella stessa forza apri,
ti prego,
quella porta,
il cielo nero mi ricorda che son solo,
apri, apri,
non ti muovo pietà?

Come spighe al vento resto
e i passanti, loro,
tremano nei colbacchi.

Apri,
apri, Anjia,
apri, ti prego,
Anjia, ché l'inverno mi divora,
Anjia, ti immagino lì
abbracciata ai raggi della stufa,
tiepida, col tuo maglione,
Anjia illuminata di calore,
Anjia fuoco che riscalda,
Anjia che consuma,
che confonde,
che ripara,
Anjia chiusa;
marcirò nel sottoscala,
nel portone,
ovunque,
ma i passanti, loro,
ridono di me
ora che nevica,
ora che non scende grazia dal cielo
ma solo ghiaccio
e l'ultimo treno è già partito,
magari l'avessi preso!
Ma che dico,
Anjia,
perché devi essere così feroce,
così deliziosa,
ché mi mandi in bestia,
ché mi fai volare,
Anjia?!
Le stelle mi rubano il cielo
e il nero che mi proponi
e vorrei menare calci alla luna
e tu non parleresti
e lame diamantine dai tuoi occhi
e calcerei Dio,
l'anima,
la morte
con un fischio a sei code,
uccidendo i passanti
nei colbacchi
per avere solo
un piccolo spiraglio!

Siete altrove,
Anjia?
Forse al teatro Nouveau,
tra applausi di marionette?
Al cafè,
confondete belletti e smalti
col ghiacciaio del vostro petto?
Dove siete, Anjia?
Al cirque?
A smarrire il vostro sorriso
tra la folla?
Voi non rispondete e a me resta
il mio niente che ho sempre avuto,
mio,
niente,
nient'altro che uno sputo
scaraventato qui,
sulla Soperga,
a morir di niente
ché di poco pur si vive.

Nel fragore della fragilità mostruosa,
la disperazione,
compagna pure dei passanti,
esplode in coriandoli di silenzio
come bomba nella valvola mitrale
sullo sfondo del gelido inverno.

Aprimi, Anjia,
sia pur per un istante,
ritroveremo parole nuove.

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