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Aicha ( seconda parte)

di Caterina Niutta
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Pubblicato il 25/10/2010 00:26:28

I genitori concordarono presto la data delle nozze, le modalità, la dote di lei e il prezzo, anche se simbolico, che doveva versare lui, alla sua famiglia, la loro religione lo raccomandava fermamente.
Il grande giorno si avvicinava e le sue cugine, insieme a qualche amica, si prodigavano a preparare dolci e stabilire il menù per il ricevimento. Pensarono pure a procurarle gli abiti che avrebbe dovuto indossare durante i due giorni di festa. Certo non avrebbero potuto comprarli tutti, ma quale ragazza rinuncerebbe a cambiarsi sette volte d’abito? Dovevano essere bellissimi, tanto da farla apparire una principessa, il suo principe sarebbe stato sicuramente molto elegante.
Il giovedì precedente il grande giorno affittarono l’hannam, e vi si recarono tutte, una cerimonia da non perdere. Aicha, si sentiva come Cherazade in le Mille e una Notte in quel luogo dove, suoni, vapore essenze, si mescolavano e il lento scorrere dell’acqua evocava sensazioni di benessere e pace dell’anima. Uscendo non poté fare a meno di specchiarsi in una vetrata, guardò con la coda dell’occhio, non voleva che le altre la notassero, ma le sembrò d’essere bellissima. Era risplendente ma agitata e confusa allo stesso tempo. Aspettava questo giorno da anni, una vita le pareva, ma più si avvicinava a quello che avrebbe dovuto essere la materializzazione dei suoi sogni, più cresceva in lei una strana sensazione che non sapeva descrivere. Pensò di parlarne con Amina. Sentiva il bisogno di confidarsi con qualcuno. Ma qualcosa le impedì di parlare. Avrebbero capito le sue titubanze? No, già s’immaginava gli occhi sgranati di sua madre, e lo stupore di tutti, non s’era mai detto che una ragazza rifiutasse una tale occasione! E poi. Per quale motivo all’improvviso si sentiva insicura? Sciocchezze, si disse, il suo principe era li, in quella bellissima tenda, allestita con tanta cura, insieme agli uomini e già si sentivano le litanie del “talba”, la cerimonia era iniziata, tra un paio di giorni, la festa finita, inchAllah! Il viaggio in aereo, ma a quello avrebbe pensato poi, adesso tutti l’aspettavano.
Fatti tutti i cerimoniali che la sharia consiglia, venne il momento d’essere introdotta nella stanza del suo amato. Si accinse ad affrontare quest’incontro, con il cuore che le batteva, tanto d’aver l’impressione che il corsetto stesse per scoppiare da un memento all’altro. Sua madre non le aveva detto niente, e poco, qualche indiscrezione l’era arrivato all’orecchio tramite Amina, ma tutti le dicevano di non dare ascolto a quella ragazza, non era certo un tipo per bene, e poi era pure andata a scuola!

“Le vostre donne sono come un campo per voi, venite dunque al vostro campo a vostro piacere.” (Sura 2:223).
Mustafà recitava, questo versetto, e l’aspettava. Lei entrò nella stanza, le gote rosse e nonostante gli occhi bassi,non poté fare a meno di notare l’imbarazzo sul viso del marito.
Non si conoscevano. Non erano mai stati insieme, mai lasciati da soli. Né un sorriso, uno sguardo, nulla, tutto sotto la rigida sorveglianza di uno stuolo di parenti. Ma la Sharia era chiara, il matrimonio andava consumato, e tutti erano fuori ad aspettare la prova della sua illibatezza.
Sì, qualche ragazza l’aveva conosciuta in Francia, ma quelle erano un altro genere di donne, libere e infedeli, da passarci una notte ma non da sposare. La donna che gli avrebbe garantito una discendenza e dignità davanti ai suoi pari, era li, ferma sull’uscio e visibilmente in forte imbarazzo.
Mustafà decise di compiere velocemente il suo obbligo. Prendendola per un braccio, la spinse dentro la stanza e chiuse la porta. L’abbracciò e la riversò sul letto. Per due secondi lesse nei suoi grandi occhi nocciola, velati di lacrime, il terrore. Spense la luce, e fece ciò che un uomo deve fare in queste occasioni. Quindici minuti dopo, inchAllah, tutto era finito. Ritornarono ai festeggiamenti. Lui nella tenda degli uomini, lei in casa con le donne. Il drappo, testimone della sua purezza era stato esposto, del suo dolore e del suo sbigottimento, della sua anima ferita a nessuno interessava, infondo era una donna, e il Profeta a tal proposito s’era espresso saggiamente.
Non aveva idea di cosa le serbasse quell’incontro, tanto era il suo candore e la sua purezza d’animo, ma tanta brutalità, non l’avrebbe mai pensato possibile.
Forse qualcuno s’era sbagliato, il Profeta non poteva certo aver stabilito una pratica così crudele. Tutti cantavano e gustavano prelibatezze, servite in splendidi vassoi, solo Aicha smise di sorridere e cercò di pensare ad altro per trattenerle lacrime, che pressavano e a fiotti sarebbero uscite e solcato le guance pallide.

Casablanca –Lione. Era in Francia. Percorsero in autobus i chilometri che li separavano dal villaggio in cui Mustafà aveva preso un appartamento in affitto. La nebbia l’avvolse, e il freddo le trafisse il cuore, appena messo piede fuori dall’abitacolo. Due stanze in un vecchio caseggiato, abitato interamente da immigrati, e un mondo nuovo e per niente colorato l’aspettava.
Il marito la lasciò sola già dalla prima sera, gli amici lo aspettavano giù al bistrot. A tarda notte, maleodorante di fumo e un po’ alticcio, al rientro si sarebbe accinto a “arare il suo campo”!
Aicha provò a ribellarsi, ma già al secondo tentativo, l’adorabile uomo dagli occhi di fuoco e baffetti birichini, esercitò il suo diritto di batterla, perché il sommo profeta non s’era dimenticato d’impartire precise raccomandazioni a tal proposito!
Nebbia, freddo, solitudine e due stanze da dividere con un estraneo. La Francia. Incominciò a odiarlo quel paese estraneo e poco accogliente. Gli mancava il sole, e nulla era come al suo villaggio. I datteri che comprava al mercato erano insipidi, e l’uva passa non profumava di spensieratezza, come quella che il padre le riportava, ogni volta che si recava in paese. Solo il ricordo di quel dolce sorriso e il profumo che emanava quel pacchettino, sapientemente chiuso, quando con mani tremanti lo apriva e gustava con avidità quei chicchi che racchiudevano tutto il sapore della sua terra. Solo quel pensiero la consolava. E ora si trovava qui, a fare i conti con quella fitta nebbia che le trafiggeva l’anima e l’avvolgeva come un triste sudario.
Fu così che un giorno si risvegliò in terapia intensiva, con tubicini che entravano e uscivano dal suo corpo e un cerchio alla testa, un dolore lancinante che l’obbligò a richiudere gli occhi.
Pensò di voler rimanere lì per tutto il resto della sua vita. In quella stanza asettica e incolore. Gli occhi serrati, stretti in uno spasmo di dolore e paura. Sarebbe stato facile staccare uno di quei tubi, quando l’infermiere lasciava la stanza, un gioco da bambini, uno scherzo, e tutto sarebbe finito. Respirò piano, per non far rumore, e inspirando un sentore di balsamo e mirra le solleticò le narici. Quell’odore, un angelo era stato sicuramente lì da poco, pensò, forse era ancora nella stanza.
Un angelo. Pensieri confusi si affollavano, facendola rabbrividire. Sì, ecco, la sua piccola Nadia, ora ricordava. Era nata nove mesi dopo quell’indimenticabile sera. Carina, paffutella chiacchierona e sempre sorridente. A volte guardandola giocare doveva fare uno sforzo sovrumano per non pensare che quel fiore fosse il frutto di un gesto così crudele. Ma era la sua vita, e per lei sarebbe uscita da quella stanza e continuato a vivere.
L’angelo per il momento poteva attendere, non era ancora giunta la sua ora, no, non se lo poteva concedere.

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