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La tradizione in Italia Il Carnevale

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 29/01/2017 08:30:54

La tradizione in Italia: Il Carnevale

(Testo di Giorgio Mancinelli con la collaborazione di Landa Ketoff, desunto da Folkoncerto: ‘Maschere rituali’, un programma radiofonico di RAI Radio3 del 1980/81, prodotto da Pierluigi Tabasso).

“Ciascun suoni, balli, canti
arda di dolcezza il core
non fatica, non dolore:
ciò c’ha esser, convien sia.
Chi vuol esser lieto … sia.”

Sui versi del ‘magnifico’ Lorenzo de’ Medici diamo inizio ai festeggiamenti che, nel rispetto dell’etimo mediovale prende il nome di ‘Carnovale’ coniato sulla perifrasi ‘carne-levare’, ossia quel ‘togliere la carne’ che nel calendario cristiano coincide con il primo giorno di Quaresima e la successiva astinenza ‘dalla carne’ per la durata fissata di ‘quaranta giorni’ che precedono la Pasqua.
In origine, si vuole, sostituisse un ciclo di festeggiamenti per l’inizio d’anno, i cui riti celebravano il ritorno della luce del sole che una cupa superstizione riteneva fosse prigioniera di alcune divinità ctonie legate al sottosuolo, al risveglio dei morti e alla venuta degli spiriti maligni che si presentavano sulla terra in forma di demoni mostruosi, in grado di infliggere le peggiori pene corporali.

Un chiaro esempio di tradizioni più antiche si svolge ancora oggi a Mamoiada in Sardegna, al centro delle celebrazioni del Carnevale, nella tradizionale processione detta dei ‘Mamutònes’, sorta di maschere rituali che hanno l’aspetto di vero e proprio travestimento di tutto il corpo, la cui origine risale ad epoca remota. La processione, ordinata secondo canoni secolari, esce dalla casa detta della vestizione nelle prime ore del pomeriggio e procede assai lentamente fino a notte inoltrata per le strade del paese. Legati ad una grossa fune dagli ‘Issaccadòres’, i Mamutònes rivestiti di pesanti pellicce di capra, procedono a piccoli saltelli ripetuti di volta in volta nel numero di tre, facendo risuonare il pesante fardello di campanacci che portano addosso attorno alla vita e alle caviglie, il cui suono incute una sorta di terrore mistico che si rinnova, per quanto suggestivo e solenne, come uscito dall’antro misterioso del ‘caos’.
Il Carnevale dunque in quanto una ‘festa’ che possiamo definire rappresentativa di un insieme di tradizioni religiose arcaiche che secondo le diverse credenze popolari, hanno rivelato a un tempo un carattere propriamente ‘magico’, fondato sulla presenza di esseri fantastici, come maghi e streghe, gnomi, folletti e altre creature fantastiche abitanti di un mondo estremo, animatori di sogni, di favole e di narrazioni mitiche, entrate poi nella tradizione culturale di molti popoli.
Ne parliamo oggi in occasione della sua ‘ricorrenza calendariale’ che si vuole desunta da più antichi riti apotropaici, la cui origine si fa risalire a un nucleo di ricorrenze pagane legate alla cultura agricola e contadina, governata dal susseguirsi delle stagioni, di cui l’avvento della primavera, dopo il periodo di sterilità dell’inverno, costituiva il momento focale dei festeggiamenti.

Canti e danze propiziatorie venivano improvvisati per l’occasione negli spazi all’aperto, sulle aie e nei campi con riti diversi, il cui intento era quelo di risvegliare e accattivarsi la simpatia i folletti dei boschi, le buone fate e gli gnomi animatori favolistici della natura. Bisognava però non farsi riconoscere e quindi rallegrarli con mascherate e giaculatorie. La prima manifestazione d’origine pagana riferita alla forma ‘carnevalesca’ che si ricordi risale all’antichità ed era dedicata al dio greco Dionissos, trasformata in epoca imperiale romana nel ciclo dei festeggiamenti detti Saturnalia che si svolgevano dal 17 al 23 dicembre, periodo in cui si festeggiava il Solstizio d’Inverno, fissato da Domiziano per l'insediamento nel tempio del dio dell’abbondanza Saturno.
I Saturnalia erano vere e proprie orge liberatorie, si aprivano con un sacrificio a cui seguiva un grande banchetto pubblico, in un crescendo che assumeva talvolta caratteri orgiastici, in cui i partecipanti inoltre usavano ‘maschere’ per non essere riconosciuti durante lo scambio degli auguri, quell’ ‘io Saturnalia’, accompagnato da piccoli doni simbolici, detti anche strenne. Avveniva che durante tutta la settimana, si nominasse un re burla detto ‘princeps saturnalicius’ al quale era concesso il potere di comandare l’andamento dei festeggiamenti. Per l’occasione si permetteva il capovolgimento di ogni forma di stato sociale, come quello dello scambio dei ruoli, finanche agli schiavi di essere serviti dai padroni.
A questi facevano seguito i Lupercalia, che si celebravano dal 13 al 15 di febbraio, in onore del dio Fauno, nella sua accezione di Luperco (in latino Lupercus), cioè protettore del bestiame ovino e caprino dall'attacco dei lupi, con i quali si festeggiava in Roma il ritorno della fertilità dei campi con cerimonie di purificazione e rituali di propriziazione della fecondità. Considerati diretti progenitori del Carnevale, in quanto prevedevano inoltre manifestazioni collettive comprensive di mascheramenti, travestimenti e mimetizzazioni, i Lupercalia erano portatori di promesse e speranze di ‘ricongiungimento’ delle genti con la parte oscura della natura e si collocavano all’origine dell’amore pagano. Di fatto in essi si promulgava la negazione dei ‘principi fondanti l’ordine morale costituito’ che assumeva così l’aspetto di un mondo alla rovescia, inclusivo di esternazioni e ambiguità sessuali in cui, per così dire, si doveva ‘fecondare’ la natura stessa.

Un ‘fare estremo’ questo che in età medievale avrebbe dato luogo al corteo fragoroso e burlesco della ‘Festa dei Folli. “I cronisti dell’epoca e poi gli storici, si raccapezzano male fra le varie ‘Feste dei folli’ poiché non tutte si svolgevano nello stesso giorno”. Jean-Baptiste Thiers, uno dei primissimi studiosi di queste feste, scrive: “A volte gli ecclesiastici si facevano merito davanti a Dio e agli uomini di danzare in chiesa … così come all’interno di cattedrali e collegiate dove si svolgeva tutta una serie di feste, sottolineate da rituali d’eccezione e da danze liturgiche; una serie quasi ininterrotta che aveva spesso un’appendice nei giorni che seguono l’Epifania, fino all’ottavario incluso in gennaio. Si trattava dunque di un lasso di tempo superiore al mese contraddistinto da alcuni momenti focali, ognuno dei quali con una diversa origine e una forma di devozione particolare, limitata dapprima a un solo giorno e a una sola cerimnia, poi estesa a più giorni. In effetti, tutti questi motivi ispiratori, tutti questi temmi liturgici finivano col confondersi e ogni gruppo di chierici negli stessi monasteri celebrava una sola grande festa d’inverno, nel giorno imposto da una tradizione sempre molto antica, oppure da una innovazione del tutto arbitraria che nasceva dall’imitazione dei vicini o addirittura dal desiderio di superarli.” (J. Hers)
Malgrado tutto questo, la vicinanza calendariale con il Solstizio d’Inverno il Carnevale s’impose prepotentemente nel tessuto popolare ed è facile sentir parlare di ‘feste delle calende’. Da qui nasce evidentemente la tentazione di vedere in esse una semplice eredità dei famosi Saturnali romani, tanto spesso citati dai censori e dai più eruditi ma mai dimenticati del tutto. In effetti sembra che fra la festa pagana consacrata nel basso Impero al dio Saturno e quella dei primi secoli del Cristianesimo vi sia stata solo una brevissima frattura, ciò per quanto la rivoluzione dei ‘valori pregnanti’ dell’epoca, nata come per gioco, si trasformò ben presto in satira, aspra o divertita che sia, a secondo dei casi, in qualcosa di diverso, tra il cinico e l’infernale.
Così, nella cornice ristretta del coro e del chiostro canonicale, nasceva una efferata critica dei costumi che, sotto toni umoristici, sorprende per i suoi accenti liberi e irriverenti: “Capitava di vedere sacerdoti e chierici mascherati e travestiti da donna che intonavano canzoni oscene, che giocavano ai dadi e mangiavano pasticci di carne nei luoghi sacri. Negli stessi luoghi venivano bruciate vecchie scarpe maleodoranti, nel frattempo che alcuni uomini mascherati da ‘pazzarielli’ e schizzati di mosto, per così dire ‘pazziavano’ per le strade delle città, mettendo alla ‘berlina’ i chierici e i nobili della società. Tutti danzavano in girotondi nel mezzo della chiesa saltando e correndo per le navate contorcendosi e urlando parolacce blasfeme tra le risa degli spettatori, intanto che altri con indosso maschere di bestie mostruose, di donnacce lussuriose e saltimbanchi d’ogni specie, occupavano le navate processionali.” (M. Colangeli)
In riferimento alla tradizione più remota, il Carnevale costituiva, e probabilmente lo è ancora, la rivincita popolare sulla rigida disciplina imposta dagli innumerevoli tabù religiosi di allora, rispettare i quali non era soltanto una questione di salvezza o dannazione, ma sempre più spesso di vita o di morte. Va ricordato che in quel tempo di persecuzioni religiose le persone venivano messe al rogo anche per cose di poco conto che delatori, appositamente istruiti dalle gendarmerie locali, mettevano a frutto. Tuttavia la ‘Festa dei Folli’ ma anche altre, come ad esempio la ‘Danza Macabra’ e la ‘Festa dell’Asino’, tra quelle più conosciute, oltre a superare ogni eccesso dei ‘tabu’ costituzionali, assumevano il carattere parodistico della burla farsesca, per meglio dire, della ‘carnevalata’ volgare quanto blasfema, pesante da sostenersi da parte dei governanti e dei rappresentanti religiosi che di volta in volta venivano presi di mira.

Del resto ogni aspetto della religione era fatta oggetto di scherno, a cominciare dall’altare maggiore sul quale si banchettava come sul tavolo dell’osteria; come pure di mettere in ridicolo i costumi stessi dei prelati spesso derisi nelle loro funzioni; o di re-interpretare i Libri Sacri con sottintesi volgari e osceni. Si arrivò finanche a ridicolizzare il rituale stesso della ‘Messa’, re-interpretata con ragli d’asino al posto dei responsori apertamente trasformati in canti osceni, seguiti da danze impudiche che spesso si trasformavano in orgie collettive all’uso pagano. Ma come è facile intuire sebbene le autorità preposte non vedevano di buon occhio il grossolano darsi alla ‘pazza gioia’ del popolo, in realtà non potevano impedirlo in quanto ormai era parte della tradizione popolare.
Usanze così profondamente radicate che s’imponevano agli occhi di tutti come diritti acquisiti e inalienabili, almeno fino a prima dei riformatori del XVI° secolo, tale che risultava estremamente difficile poter sopprimere. È in questa tendenza che si inserisce in modo logico la famosa ‘Festa dell’Asino’, di cui tanti autori hanno così spesso parlato, forzandone a volte l’immagine e il significato. Pretesto per festeggiamenti di dubbio gusto, per eccessi e irriverenze nel momento stesso in cui la processione che l’accompagnava usciva dalla navata centrale e dilagava in strada. Ciò per quanto anche la ‘Festa dell’Asino’, come inevitabile conseguenza di un rovesciamento delle gerarchie, resta però all’interno della chiesa medievale, una celebrazione cristiana, rituale e liturgica, ammessa e riconosciuta dalle autorità religiose e spesso preparata con la massima serietà. Come il brano che segue, tratto dalla ‘sequenza’ che, per ragioni diverse, non è qui riportato interamente.
Da ‘La fête de l’âne’, Orientis partibus:
« Orientis partibus
adventavit asinus,
pulcher et fortissimus,
sarcinis aptissimus.
Hez ! Hez Sire Asnes, hez!
. . .
Hez va, hez va, hez va, hez !
Biaux sire asnes, car alez,
Bele bouche, car chantez!»
Si può non essere d’accordo con questa argomentazione, ma tutto ciò finora detto è il riflesso di civiltà e culture che il ‘Carnevale’ in particolar modo mette in mostra nei suoi risvolti politico-sociali, incluse le sue stravaganze, i suoi giochi burleschi, gli scherzi e i lazzi con i quali si attestavano le cure e le ambizioni, nonché le identità e i rapporti di forza che attraversavano le diverse sfere del potere politico-religioso. Ne sono un esempio i ‘Carmina Burana’ desunti da manoscritti sacri redatti in latino risalenti alla metà del secolo XIII° che, durante il Medioevo furono accorpati e trasformati in parodie gogliardiche in volgare, rappresentati e più o meno tollerati all’interno delle celebrazioni religiose.
Da ‘Carmina Burana’: Tempus est iocundum.
“Tempus est iocundum, o virgines!
modo congaudete, vos iuvenes !
o! o! totus floreo!
Iam amore virginali totus ardeo;
novus, novus amore est, quo pereo!
Cantat philomena sic dulciter,
et modulans auditur; intus caleo:
o! o! totus floreo!
Iam amore …
Flos est puellarum, quam diligo,
Et rosa rosarum, quam sepe video :
o! o! totus floreo!
Iam amore …
Veni, domicella, cum gaudio !
veni, veni, pulchra! Iam pereo!
o! o! totus floreo!”

Parodie di Sante in forma di rappresentazioni venivano allestite sui sagrati delle chiese e all’interno di esse, e più o meno tollerate dalla Chiesa dominante, a seconda dei governanti che fossero cattolici o protestanti, italiani, francesi o tedeschi. Trascrizioni di ‘inni sacri’ e ‘preghiere’ in volgare divennero così popolari da entrare a far parte di ‘messe profane’ intitolate agli stessi figuranti che le rappresentavano, come ad esempio la ‘Missa gulatorum’ ossia dei ghiottoni; la ‘Missa potatorum’ ossia dei beoni e la ‘Missa de’ villani’ ecc. spesso accompagnate da strumenti tipici come tamburelli e zufoli ed eseguite in forma ‘a ballo’, in girotondi e sfilate processionali.

All’occorrenza la ‘Festa dei Folli’ costituiva la provvisoria emancipazione dei subalterni, ai quali si lasciava di celebrare la loro breve sovranità mediante eccessi tanto più insensati in quanto destinati a durare per brevissimo tempo. Il rovesciamento dei ruoli sociali trovava quindi nuova espressione nella cerimonia dell’intronizzazione di un ‘papa’ o ‘vescovo dei pazzi’ che, issato su di un carro, era trascinato in corteo fra urla, lanci di uova e ortaggi, cui faceva seguito una folla euforica di chierici, giovani coristi e diaconi danzanti. Erano gli stessi ‘folli’ a custodire le chiavi del manicomio; addirittura potevano entrare nelle case e permettersi licenziosità più o meno piacevoli, e se avevano il volto coperto da una maschera non erano obbligati a rivelare la propria identità. Si ripeteva così l’inversione dei ruoli consuetudinari e il rovesciamento delle gerarchie conosciute fin dall’antichità e mai scomparse dalla memoria popolare.

Ma leggiamo insieme almeno due filastrocche tradizionali legate al Carnevale nei testi trasmessi da Dodi Moscati, interprete dell’area umbro-laziale che li ha ripresi dalla viva voce degli abitanti dei luoghi di riferimento regionale:

E qui passa il Carnevale.

“Qui passa il Carnevale
e tra suoni balli e canti
gli è la scena degli amanti
ne succede in quantità.

Carnevale non te ne andare
Carnevale non te ne andare
io ti ho fatto un bel mantello
ogni punto un fegatello
Carnevale non te ne andar.

E more, e more, e more lariciunferarillallero
E more, e more, e more il Carneval.”

Tuttavia, lungi dall’essere considerata una ricorrenza straordinaria per quanto pagana, una volta entrata a far parte del costume popolare e nel patrimonio culturale di molte regioni italiane e di gran parte d’Europa, la ‘Festa dei folli’ fu portatrice di notevoli cambiamenti nelle consuetudini musicali canore e strumentali all’interno della ‘musica sacra’ secolarizzata dalla Chiesa nel Canto Gregoriano.
Ciò che aprì la strada a un certo modo di interpretare il canto profano propriamente detto, nella forma dello ‘stornello a contrasto’, della ‘serenata’ ecc. entrati in seguito nelle esibizioni tipiche del Carnevale , come appunto si legge in numerose e particolareggiate descrizioni lasciate dai contemporanei e, successivamente, in molte manifestazioni regionali entrate nel patrimonio tradizionale popolare.

Ne è un tipico esempio il ‘Ballo delle fornaccine’ tratto dal ‘Carnevale di Bibbiena’ risalente al 1300, in cui si narra che “..nell’ultimo giorno di Carnevale due gruppi di suonatori erano soliti sfidarsi per le vie e le piazze del paese a raccogliere denari. Al termine della raccolta i gruppi si riunivano in Piazza Grande e davano avvio ai balli. La banda musicale raccolta presso la fonte, veniva circondata dalla folla che su un motivo uniforme si metteva a cantare alcune strofe di ballate molto conosciute. Nel frattempo, in un’altra piazza era stato organizzato un grande falò di ginepro, attorno al quale alcuni tra quanti giunti dalle campagne vicine, sempre assai numerosi, traevano gli auspici per la raccolta, dalla buona o la cattiva riuscita del falò.” (M. Colangeli)

Quella detta ‘delle fornaccine’ riproposta in tempi più recenti dalla viva voce di Caterina Bueno è forse la ballata più conosciuta giunta fino a noi di questa tradizione:

“Eran le Fondaccine che han fatto un ballo
bello ballo per amor
eran le Fondaccine che han fatto un ballo.
In mezzo di quel ballo c’è nato un pomo,
bello pomo per amor
in mezzo di quel ballo c’è nato un pomo.
Di là ne vien un uomo padron del pomo,
bello pomo per amor
di là ne viene un uomo padron del pomo.
Cavasi le scarpette s’alza nel pomo.
Bello pomo per amor.
Cavasi le scarpette s’alza nel pomo.
Sale di rama in rama fino alla cima,
bella cima per amor
sala di rama in rama fino alla cima.
Colse le tre ramelle delle più belle,
belle, belle per amor
colse le tre ramelle delle più belle.
A ognuno ne dié una salvo alla bruna,
bella bruna per amor
a ognuna ne dié una salvo alla bruna.
E benché son brunella son la più bella,
bella balla per amor
e benché son brunella son la più bella.”

Fondaccini erano chiamati gli abitanti del rione Fondaccio. Il ‘padron del pomo’ è riferito a Marco Tarlati che nel 1359 ebbe il dominio di Bibbiena. Il continuo riferimento allusivo si pone maggiormente in evidenza, allorché i partecipanti danno inizio al testo tradizionale della ‘Mea’, mostrando all’occorrenza con applausi scroscianti la loro gioia per i più bravi improvvisatori di rime.

La fuga della Mea.

“La Mea la fa ‘l bucato
per conquistar su’ amor;
la Mea la lo lava
alla fonte dell’amor;
la Mea la lo rasciuga
alla spera del sol;
la Mea la lo ripiega
all’ombra dell’allor;
l’alloro l’era verde
la Mea s’addormentò;
di lì passò ‘l su’ amor
la Mea lo sospirò;
non so sospirar più Mea
ch’io ti voglio sposar.
Le vie le son sassose
cavalli son sferà;
suo padre alla finestra:
‘lasciatela pure andar’.
Trovò un barcarolo
‘mi vuoi tu imbarcar,
cento zecchini d’oro e borsa ricamà’;
suo padre alla finestra:
‘lasciatela pure andar’.
‘Amor se sei Giulietta,
amor senza danar’;
suo padre alla finestra:
‘lasciatela pure andar’.”

Di riferimento alle celebrazioni canore propriamente dette che, al tempo stesso, sono la testimonianza viva della presenza magica di un mondo indubbiamente superstizioso di cui è impregnato tutto il nostro territorio, dal nord al sud, sono le ‘ballate a tema’ e le ‘canzoni amorose’ a scopo liberatorio e d’intrattenimento, strettamente legate alle tradizioni orali-narrative successivamente trasferite nei racconti e nelle leggende popolari delle nostre regioni. È così che giungiamo sulle montagne del bresciano in quel di Bagolino dove, in occasione del ‘martedì grasso’ le ragazze da marito si barricano in casa, mentre gli uomini, travestiti con sfarzosi costumi, s’improvvisano ballerini per conquistarle, al ritmo di ‘ariose’ e ‘polesane’. L’elemento caratterizzante del loro ricco costume è il cappello e la maschera di tela dipinta di bianco che li rende tutti indistintamente uguali e al tempo stesso dona loro un carattere leggiadro e arcano. Qui, nel mezzo degli scherzi ci si insegue per colpirsi nelle ‘glorie maschili’ e si rinnova il detto: “di carnevale ogni scherzo vale e, peggio per lui se dopo fa male”.

A Napoli, ad esempio, oltre allo scambio dei ruoli, assumeva aspetti quanto mai spettacolari l’orgia mangereccia, in cui l’ossessione della ‘scorpacciata’ era giustificata dalla prossimità della Quaresima, tipica di una cultura in cui la fame era la regola. Infatti già nel XVIII° secolo, si costruiva un teatro detto ‘della cuccagna’ con un mucchio di vivande d’ogni sorta, in cima al quale troneggiava il dio Saturno dell’abbondanza. Quindi, all’ora prestabilita lo sparo di un cannone tuonava e una folla immensa dava l’assalto alla montagna di cibo. Ne seguiva un’orgia immane di cui si trovano riferimenti in molta letteratura giunta fino a noi. Del Carnevale campano, più esattamente a Montemiletto in provincia di Avellino, ancora oggi si possono rintracciare testimonianze nelle rappresentazioni pubbliche dei cantastorie eseguite in occasione della festa. Ne è un tipico esempio ‘La canzone di Zeza’, dedicata appunto a Zeza, personaggio della tradizione popolare tratto da un vezzeggiativo napoletano del nome Lucrezia.

La canzone di Zeza – ovvero “redeculuso contrasto de matrimonio tra Pollecenella, Zeza e lo studente Nicola Pacchesicco”. Canto carnevalesco ancora vivo nella provincia napoletana, che alcuni studiosi vogliono derivato per la particolare struttura teatrale, da antiche ‘atellane’:

“Pollecenella – Zeza vi ca j mo jesco,
statte attienta a ‘sta fegliola
tu ca si mamma dalle bona scola.
Nu la fa prattecare
cu tutte ‘ste ffegliole
ca chello ca non sape se po ‘imparare.
Zeza – Non ce pensare a chesto
marito bello mio
ca ‘sta fegliola l’aggio ‘mparatt’io!
Io sempre le sto a dire:
‘na femmena ‘nnorata
È cchiù de no tesoro assai stemmato.”
. . .

“ I protagonisti della rappresentazione – scrive R. De Simone – sono cinque vecchie glorie tra i 50 e i 60 anni di età che, chiamate a impersonificare altrettante figure del passato, tra cui Zeza, Pulcinella, la loro figlia Tolla, il Dottore e lo studente/marinaio, danno luogo a un ‘contrasto’ di genere faceto, nel corso del quale sorgono contrasti e litigi fino ad arrivare agli insulti e alle fucilate. Alla fine però la ragazza sposa il suo amato e la festa si conclude con una grande ‘quadriglia’ ballata dalle coppie, alle quali si aggiunge tutto il vicinato.” La riuscita di questa rappresentazione che solitamente si svolgeva nelle piazze infatti era legata alla partecipazione del pubblico che vi prendeva parte. L’ultima di cui si ha ricordo è avvenuta a Napoli in Galleria, organizzata e diretta da Roberto De Simone ed eseguita dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare che, in seguito, la trasformò in un evento di portata ‘storica’, la cui eco ha varcato i confini regionali per protrarsi a livelli nazionali e internazionali, grazie anche al successo strepitoso in quegli anni della NCCP che ne realizzò un Lp per l’etichetta Rare.

Nei giorni di Carnevale, siamo ancora a Napoli, si svolgevano spettacoli di un certo rigore coreografico detti ‘balli di sfessania’, una tipica danza cinquecentesca napoletana alla quale si fa risalire la forma più antica della ‘tarantella’ danzata in chiave coreutica. Secondo alcuni questa era rappresentata da personaggi portatori di maschere successivamente assimilate ed utilizzate dagli attori della Commedia dell’Arte come segmenti comici dei loro spettacoli. Attualmente denominata ‘Vecchia del Carnevale’ viene eseguita, in forma musicalmente assai corrotta da uomini travestiti da donna, sebbene siano associati e studiati come facenti parte del repertorio teatrale piuttosto che come forma coreutica. Questi rivestono una grande importanza dal punto di vista etnografico in quanto vanno collocati al centro di un lungo processo evolutivo che dal tarantismo, grazie alla contaminazione del fandango spagnolo, ha originato la tarantella come danza di corteggiamento basata sull’affermazione del binomio maschio-femmina.

Ballo di Sfessania.

“O Lucia ah Lucia,
Lucia, Lucia mia,
stiennete accostate ‘nzeccate cca, Lucià
vide ‘sto core ca ride e ca sguazza
ausa sto pede ca zompo canazza.
Cuccurucù
zompa mo su
veco ca sauto ca giro ca zompo
nnante che scompo
zompa Lucia ch’ addanzo
io da ccà
tuba catubba e nania nà.
O Lucia ah Lucia
Lucia, Lucia mia.
Cotogni, cotogni cotognà, Lucià
vide chest’arna
ca scola ca squaglia
tiente ca passo sautanno ‘na quaglia.
Cuccurucù
sauta mo su
veco ca sauto ca torno ca roto
vi ca me voto
sauta Lucia ca zompo io da ccà
uh che te squosse e persovallà.
O Lucia ah Lucia
Lucia ah Lucia
Lucia, Lucia mia
cocozza de vino me sa, Lucià.
Vide cannella ca tutto me scolo
tiente ca corro ca roto ca volo.
Cuccurucù
rota mo su
veco ca roto ca corro ca giro
vi ca sospiro
rota Lucia ca scampo mo ccà.
‘ngritta ccà ‘ngritta e cuccurusà
O Lucia ah Lucia
Lucia, Lucia mia.”

A gettare nuova luce su questa antica forma coreutica è il saggio “I Balli di Sfessania Fra Tarantismo e Tarantella” del ricercatore isernino Rino Capone, già autore di vari saggi e studi sulle danze antiche e moderne. Si tratta di uno studio che raccoglie le risultanze di un lungo e rigoroso percorso di ricerca, che ha visto l’autore prendere in esame una corposa mole di documenti storici, provenienti da diversi circuiti internazionali, che spaziano dalle opere di Del Tufo e Andreini fino a Salvator Rosa, senza dimenticare le ventiquattro incisioni (foto di copertina) realizzate dal manierista francese Jacques Callot (1592-1635), che descrivono e documentano in modo magistrale non solo le precipue modalità coreutiche ma anche le maschere della commedia dell’arte italiana ad essa collegate.

All’insegna delle primitive feste agrarie contadine e delle medievali ‘Feste dei Folli’, il Carnevale a Napoli tendeva a mescolare in un delirio illimitato ogni singolo aspetto dell’intrattenimento, dalla parodia a giuoco, dal mascheramento alla frenesia del ballo, dallo spettacolo alla baldoria da osteria. Vi erano per così dire riassunti tutti gli aspetti, tra i più eclatanti della tradizione meridionale riversati all’interno di quel ‘mondo magico’ più volte annunciato che affonda le sue radici nel fanatismo religioso e per questo assai vivace. La più grande attrattiva di questo connubio è pienamente riassunta nella figura di Pulecenella, l’antica maschera sannita, bitorzoluta e cupa, che al di là dei suoi lazzi e scherzi, rappresenta la parte più oscura dell’anima umana, ma anche quella amaramente sollazzevole dello ‘scherno’ che la natura lancia all’umanità tutta, sollecitandola alla ‘vita’ sopra ogni cosa e, dalla quale, imparare ha significato di eternità. E che per questo lancia i suoi strali e i suoi strazianti lamenti d’amore.

Serenata di Pulecenella.

“Ué, ué, ué s’affaccia
ca sta Pulecenella, Pulecenella…
le caccia la linguella
e dice i’ sto cca, i’ sto cca…
Ué, ué, co sta resella
co st’uocchie e co sti vinoccole
comme a spruoccole
me staje a strazià, a strazià…
Gioia de st’alma mia jesce a’mmalora
si craje tu truove ‘nfosa sta chiazza
so llacreme d’ammore e no sputazza.”

Stando allo studioso Harvey Cox, “La scomparsa della ‘Festa dei Folli’ ha segnato una svolta nella storia della nostra civiltà, un segno del profondo mutamento in cui sono andati perduti certi valori culturali come la fantasia, l’immaginazione, il gusto per la satira e la beffa con cui si cercava (e talvolta si riusciva) a mascherare la paura delle tenebre e della morte.” Dallo storico Roland August apprendiamo invece quanto segue: “La cosa più sorprendente è l’esistenza nell’uomo di un bisogno profondo di negare le credenze e le istituzioni più serie, riducendole a livello di buffonerie. Un atteggiamento, forse, tuttavia la festa è la negazione dell’ordine e, non potendo eliminare l’anarchia che è dentro di noi, la società la organizza, la incanala nella festa, conferendole così le caratteristiche di una istituzione. La derisione cessa così dall’avere conseguenze pratiche, in quanto isolata dalla verità quotidiana : il giorno successivo alla ‘festa dei folli’ i partecipanti tornavano ad essere buoni cristiani senza che in loro fossero rimasti strascichi, nel senso che non si sognavano neppure di mettere veramente in discussione l’ordine della società. La festa era insomma una parentesi di ‘follia’.”

Come accade in tutti i Carnevali di qualche rispetto che si celebrano in molte città e piccoli centri della nostra Italia, in ognuno è mantenuto un certo riguardo per le tradizioni più antiche all’interno di manifestazioni folcloristiche organizzate all’insegna di una socializzazione pià recentemente andata smarrita. Come ad esempio a Cento, in provincia di Ferrara, dove ogni anno si tiene l’ormai famosa rappresentazione del ‘Testamento di Tasi’, in cui si confeziona un mascherone di cartapesta avvolto in un mantello nero, appunto il Tasi che impersona il Carnevale. Dapprima si prepara un rogo di fascine al centro della pubblica piazza, dove, prima che venga messo sul rogo e finire bruciato, il Tasi leggerà il suo testamento riferito al lascito che intende fare ai cittadini e basato sugli avvenimenti locali ed anche nazionali o internazionali con aggiunta di una buona dose di satira. Scritto appositamente per l’occasione in forma di ‘zirudela’, una forma tipica della poesia dialettale centense, viene rinnovato da poeti e scrittori locali che partecipano alla sua stesura.

Una grande ‘fagiolata’, a base di salsicce e carne di maiale, ed ovviamente di fagioli, si svolge ogni anno a Biella durante il ‘lunedì grasso’ nel rione S. Pietro parato a festa per l’occasione in cui si ingaggia una vera e propria battaglia con lancio di coriandoli. Intanto, nel resto della città si svolgono balli e brevi manifestazioni di carattere popolare come ‘la cuccagna’, la ‘corsa dei sacchi’ e ‘la pentolaccia’, ma è comunque la ‘fagiolata’ che infine riscuote il maggior successo, per il suo contributo mangereccio. Questa ha luogo in un ampio cortile dove diversi cuochi vestiti nel costume che li distingue, preparano tra i cinque e i nove quintali di minestra di fagioli che poi viene distribuita a tutti i partecipanti. Non prima però che siano arrivati il ‘Gipin’ con sua moglie ‘Catlina’ e il loro figlio ‘Gipinot’ a dare il via all’abbuffata generale. La ‘festa’ continua fino al fatidico ‘martedì grasso’, ultimo giorno di Carnevale, con ‘Il processo al Babi’, un grande rospo appositamente allevato che viene portato in gabbia , processato per le sue ‘malefatte’ verbalmente oscene, rivolte in chiave satirica alle istituzioni e ai personaggi più in vista della città. Ma è quando il ‘Babi’ viene messo simbolicamente al rogo, a rappresentare la morte del Carnevale, ecco che la campana maggiore scocca la mezzanotte e tutto ha fine.

Famosi tuttavia restano i carnevali che si svolgevano nelle grandi città e nelle corti dove assumevano forma spettacolari di gare pubbliche di canto, di recitazione e di eleganza, così come di estro della parodia e della satira, assecondando le forme preesistenti di spettacolo e festeggiamento pubblico nelle sfilate e nelle processioni, nelle giostre e nei palii così come nelle ‘quintane’, alla cui base stava il divertimento ma, spesso, anche il rischio intrinseco del gioco d’azzardo che prende la mano e più spesso l’intraprendenza accecante della vita. In ogni spettacolo popolare comunque, e ancor più nel Carnevale, è ancor sempre la musica a svolgere la parte più accattivante e culturalmente più interessante della festa, con l’accompagnamento di canti e balli da parte delle allegre brigate che vi prendono parte. Fin dal XVIII° secolo i festeggiamenti per il Carnevale divennero talmente sofisticati da rientrare nei termini del costume così come nel linguaggio, cioè nei canoni dell’estetica e della ricercatezza delle grandi corti europee che facevano a gara per fastosità e splendore, facendo mostra di sé nelle rappresentazioni pubbliche di piazza e in teatro.

Un esempio eclatante nel suo genere era il Carnevale Romano che, a suo tempo, conobbe un grande momento di splendore, in cui si portavano in piazza le ‘corse dei cavalli’, numerosi ‘carri allegorici’, nonché ‘giostre barocche’ e lo spettacolo dei ‘funamboli’ che più di altri raccoglieva il plauso del pubblico che riempiva le piazze. Come riportato in un annale risalente al XVI° secolo, durante il Carnevale Romano era in uso tra il pubblico festante bombardarsi ‘per ischerzo’ con uova preventivamente svuotate e riempite in parte di sabbia e pepe, successivamente sostituite dal lancio di rape a causa degli alti costi da sostenere. Una costumanza che venne ripresa più tardi introducendo l’usanza del lancio di confetti dolci, poi sostituiti con palline di gesso più leggere e colorate, in seguito trasformate nelle palline di carta che si vuole siano le antenate dei comuni coriandoli.
Ma va qui ricordata la ‘Festa delle lanterne’ così detta per le candele accese che venivano regolarmente spente l’un l’altra, allorché s’inconrava la persona che stava al gioco sottile e penetrante dello scambio amoroso che si concludeva quasi sempre, a notte inoltrata, con lo scambio di baci e regali, e spesso di accoppiamenti amorosi sotto un cielo illuminato da uno scenografico spettacolo pirotecnico.

Tutte le notti in sogno.

“Tutte le notti in sogno me venite
diteme, bella mia perché lo fate?
E chi ce vié da voi quanno dormite?
Vola, vola l’aritornello
core mio bello nun me scordà.
Pe’ volé bene a voi ce n’ho passate
de pene e patimenti e lo sapete
e adesso bella mia così me fate.
Vola, vola l’aritornello
core mio bello nun me scordà.
Le stelle su ner cielo so’ millanta
ar marinaro disse: conta, conta
quella che cerchi tu sempre ce manca.
Vola, vola l’aritornello
core mio bello nun me scordà.”

Del Carnevale Romano si ricordano figure celebri quali: Ghetanaccio, Rugantino, Meo Patacca, Mastro Titta, Marco Pepe, Gigi er Bullo, tutti personaggi reali divenuti in seguito ‘maschere’ del teatro popolare. Ognuno dei quali ama la propria donna e ne è riamato, che sia la marchesa di turno o la duchessa di qualcosa, ma anche, e soprattutto, la popolana Nina, o Nuccia o Ninetta. A ognuna era dedicata almeno una ‘serenata’ che in particolare assumeva forme diverse: a dispetto, lasciva o d’invito che, per quanto si volesse, preservava comunque una prerogativa appassionata.

La treccia bionda.

“Bella regazza dalla treccia bionda
per nome vi chiamate Veneranda
li giovani per voi fanno la ronda.
Papà non vole
mamma nemmeno
come faremo a fare l’amor?
Ciavete du’ bellissime pupille
a ‘gni gueriero fate abbassà l’arme
la fija sete der guerrieo Achille.
Papà non vole
mamma nemmeno
come faremo a fare l’amor?
Ciavete l’occhi neri e ‘r petto bianco
de qua e de là du’ lampene d’argento
chi ve vò bene a voi diventa santo.
Papà non vole
mamma nemmeno
come faremo a fare l’amor?”

Per quanto alcuni elementi preminenti siano ormai comuni ad ogni carnevale indistintamente, molti sono tuttora quelli che si celebrano in gran pompa, nei luoghi in cui il tempo del Carnevale si colorava di luci, di lustrini e di costumi sfarzosi, fruscianti sui selciati delle piazze e dei teatri e la cui fama che perdura ancora oggi. Fama che ha solcato i confini della licenziosità da divenire, più semplicemente, un fatto di costume che si ricollega alla storia del territorio, e comunque contrassegnato da un termine, come si vuole nel rispetto calendariale delle ‘Ceneri’ che precedono la Quaresima, il cui significato va oltre la messa al rogo dell’inverno ce preannuncia la morte simbolica di Cristo.

Usanza viva ancora oggi in molte altre regioni della nostra penisola e che riassume il carattere primitivo del sacrificio rituale, e come questo coincide con la fine della stagione invernale. L’inverno infatti, è spesso rappresentato dallo spauracchio della sua ‘morte’, qui fatto oggetto di insulti, lì dato alle fiamme, in altro luogo annegato, altrove impalato e via dicendo. Il perché di tanta crudeltà – dicono i teorici – costituisce da sempre il ‘capro espiatorio’ di tutti i mali sul quale vengono scaricati i peccati della comunità, quegli eccessi ai quali l’umanità si è abbandonata durante le feste e, forse, durante tutto l’anno appena trascorso.
Oggi che il ritmo del lavoro si è andato modificando profondamente, lasciando all’individuo spazi sempre più ampi di tempo libero, la voglia del divertimento impresso dal vecchio ‘carnevale’ potrebbe anche non conoscere fine. Ma non è così, il tempo della ‘festa’ come lo si intendeva nelle comunità contadine o nelle corti medievali ha perso il suo significato e anche il suo fascino; il ‘divertimento’ è vissuto a un diverso livello, indubbiamente astratto, privo di partecipazione e attrattiva e, soprattutto, privo del fervore che l’animava.

Il Carnevale ha per così dire assunto nuove forme di svago, tuttavia manca della sua parte creativa data dall’immaginazione e dal ‘mascheramento’ di un tempo, in breve ‘..l’uomo moderno è prigioniero della logica, della serietà che lo condiziona’. (H. Cox)
Oggi più che mai c’è bisogno di ritornare alle feste collettive di piazza e di costume a cui tutti possano partecipare con spirito di solidarietà. Soprattutto in ragione di quella solitudine che è tornata a farsi sentire in modo così preminente, a causa della perdita del proprio intrinseco significato di compartecipazione alla solidarietà. Quella che era la creatività e la fantasia di un epoca, sembra oggi aver ceduto il posto alla logica, lo scherno e il lazzo sacrificati alla ragione, il fantasma del Carnevale aver assunto il volto del passare del tempo dietro una smorfia, un bernoccolo, un naso, nell’espressione crucciata di una ‘maschera’ che non sembra avere alcun domani.

Resta da vedere se la nostalgia del ‘carnevale che verrà’ potrà assumere quella forza tale da creare e preservare le nuove forme di svago che andranno a sostituire le antiche tradizioni che, se abbandonate o quanto meno dimenticate, resteranno mute dentro lo specchio della storia, che è poi la nostra storia. Ma che cos’è il Carnevale se non lo svolgimento di una defezione dello spirito che ritrova nel tempo della festa la sua dimensione arcana e la sua sconsiderata allegrezza?

Meditate gente, meditate … nel frattempo:

“Ciascun suoni, balli e canti //
Ciò c’ha esser, convien sia.
Chi vuol esser lieto sia.
Di doman non v’è certezza!” (Lorenzo de’ Medici)



(continua sul ‘Carnevale di Venezia’)

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