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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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I libri che non ho letto e che forse non leggerò..

Argomento: Letteratura

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 04/12/2012 09:03:48

I Libri che non ho ancora letto, e quelli che forse non leggerò mai (perché ancora non sono stati scritti).

Il nome degli autori dei libri che ancora non ho letto non ha qui alcuna importanza, anche perché non volendo offendere nessuno, mi astengo dal citarli. Qua e là posso riferire invece di alcuni che più mi hanno incuriosito, ma anche in questo caso non saprei dire cos’è che solitamente mi colpisce in un libro e che mi spinge al suo acquisto. Un tempo sono stato uno di quei topi di biblioteca che inforcavano gli occhiali e non avevano timore di impolverarsi le mani e che passava il tempo a sfogliare pagine su pagine in cerca di non so bene che cosa. Quasi che il libro dovesse raccontarsi da solo il perché l’avessi svegliato dal suo ozioso torpore. Fatto è che, colto da presunto interesse era possibile che lo chiedessi in prestito al bibliotecario e me lo portavo a casa, per poi posarlo  sul mio comodino da notte, lasciandolo in un attesa gravosa di pensiero. Sì, perché non era detto che lo leggessi subito, poteva passare anche molto tempo. Talvolta, rammento, che sollecitato dal bibliotecario dal quale mi ero recato per un’altro prestito, lo restituivo senza averlo letto. Anche in quel caso però, il fatto di per sé non corrisponde a verità assoluta, perché sono fermamente convinto che la compagnia di un libro, che vive con noi e condivide parecchio del nostro tempo, e che in qualche modo ci ha onorato della sua presenza, come dire, ci ha offerto la sua disponibilità alla lettura con pazienza di tomo e prodigalità di pagine, alla fin fine ci ha lasciato qualcosa di suo. La sua immagine, lo spazio occupato, il vuoto lasciato, per non dire della copertina che, se non era del tutto anonima, portava seco la compiacenza di uno sguardo, che fosse quello dell’autore o del personaggio della storia narrata, l'immagine a colori di un paesaggio che tutto sommato mi riconciliava con la natura, almeno con quella che si vedeva fuori della mia finestra, allorché, immerso nel buio della mia camera da letto, ero capace di passare dall’euforia della compagnia, alla tetraggine dell’insonnia.

Era in quei momenti che spesso agguantavo il primo libro che mi capitava in mano e lo sbrindellavo sui cuscini scomposti, tra un sopravvenuto sbadiglio e l’urgenza di andare al bagno a fare pipì. E dipendeva sempre dall’entusiasmo del momento, dalla paura inculcata da certe pagine orrifiche, dai passaggi deliziosi di un erotismo virtuale che vagheggiavo, se era il caso di alzarmi e lasciarlo lì fra le coperte in rivolta. O, se venivo preso dalla fregola di andare avanti, lo conducevo con me in bagno per continuarne la lettura sulla tazza del water (ma forse è meglio chiamarlo cesso). Tuttavia, il libro, non per questo si sentiva vilipeso, o in qualche modo offeso dalla possibile puzza, o dal venire sfogliato in modo irrispettoso perché malagevole, o stanco perché talvolta finivo per abbandonarlo sullo sgabello e l'obbligavo a sentire lo scroscio dell’acqua dello sciacquone. Chissà se avrà avuto paura di un possibile temporale? Non deve essere molto piacevole per un libro soggiacere all’acqua che lo fradicia, quella di uno sciacquone poi (?).

Chissà che un giorno non si arrivi a un libro per così dire ‘liquido’, allora basterà berlo per conoscere tutto il suo contenuto. Che sia utopia liquida la mia? In una realtà dove a dire dei molti tutto è liquido, la società, la modernità, l’amore, la paura, la democrazia, penso ci sia posto anche per il libro liquido, magari non necessariamente subordinato all’acqua che scende nel cesso. Ma torniamo per un momento alla storia, non quella del libro, ovviamente, ma la mia. Nel frattempo non frequento più le biblioteche, credo le abbiano chiuse, ‘perché non servivano più’ – hanno detto. Ho però costituito una mini biblioteca personale nello studio dove lavoro ed alla quale ho accesso quando voglio, adibita solo ai libri che ritengo siano degni di tale onore, dove i libri si sentono al centro dell’attenzione, vengono curati (non sempre letti), più nel senso di spolverati, e vi giacciono in ozio, come dire, a far bella mostra di sé.

Rammento che un giorno mio figlio, ormai in età della ragione, mi ha chiesto cosa ne facessi di tutti quei libri che secondo lui soffocavano le stanze. Non dirmi che li hai letti tutti? – mi ha chiesto. Beh, sai, qualche volta mi capita di sfogliarne qualcuno, in quanto a leggerli... È da folli pensare di poterli leggere tutti! Beh vedi - ho tentato di discolparmi - non è così che funziona, avendo del tempo a disposizione, magari un giorno, tu potresti... Non pensarci nemmeno! – ha aggiunto mentre trafficava col suo i-Pad.

Fatto è che con l’avanzare dell’età, ho preso la sana abitudine di portarmi un libro in tasca (o in mano a seconda della grandezza), e andare a leggerlo al parco. Qualche volta finisce che a causa di aver dimenticato gli occhiali lo tengo con me mentre passeggio e posso dire che se è uno di quelli che ho conservato perché mi era piaciuto molto, mi scalda il cuore sfogliarne alcune pagine e rammentare (non rileggere) quei passaggi che in qualche modo me lo hanno reso caro. No, non faccio il lettore di professione, anche se posso dire di aver letto molto, specialmente in passato, e qualche volta provo una sorta di rimpianto per certi giorni della mia vita in cui con un libro in mano anche frequentare un bar e sedersi a un tavolino per un caffè, poteva dare piacere. Allora si coglieva l’occasione di incontrare uno scrittore famoso, o un giovane poeta che rincorreva farfalle di fantasia, o che si crucciava dei ‘dolori’ dell’anima e dove, ogni momento speso non era mai, per così dire, speso a vuoto.

Ovviamente continuo a leggere anche il 'nuovo', i nuovi romanzi, i nuovi racconti, le nuove poesie che tolta qualche rara occasione pur tuttavia non mi dicono niente di 'nuovo'. Pochi sono i libri in verità, che hanno la capacità di affabulare il lettore e convincerlo di quello che dicono dalla prima pagina all'ultima, da lasciarlo addirittura senza fiato, per la loro sconvolgente autorevolezza. Spogliato qua e là di una marcata presa di posizione che non cambia l'indirizzo etico ed estetico del mio dire, trovo che il libro “La manomissione delle parole” di Gianrico Carofiglio sia un voler rincorrere concetti di cui abbiamo perduto il senso, che l’autore saggiamente recupera e ci omaggia con una lettura più vicina a noi, per dire, al nostro tempo, alla società attuale che, sempre più, si perde nelle concatenazioni superate e fittizie della politica.
Nell'economia del libro, infatti, la politica è nelle cose, negli atti, così come nei pensieri e addirittura nelle parole divenute "sconvenienti" perché - come egli scrive - manomesse in funzione di qualcos'altro che non è il terreno originario per cui sono state coniate. Inutile dire che qualcosa non funziona in questa società (che voglio qui ricordare abbiamo costruito noi), in questa democrazia che pur noi ci siamo dati. Qualcosa certo non deve aver funzionato a dovere se stiamo ancora qui a sbattere la testa contro il muro, dopo aver affrontato ogni argomentazione ed esserci fatti buoni propositi, aver fatto promesse (a noi stessi prima che agli altri), se poi siamo rimasti più o meno quelli che eravamo un secolo fa. Viene da domandarci a cosa sono servite tutte le guerre se ce ne sono ancora in corso? Tutti gli incontri al vertice (G8 - G10 - G20 e quelli sulla fame, sull'ecologia, sul nucleare, sul salviamo il mondo) tra le nazioni, se tutto rimane come è sempre stato, anzi peggiora di giorno in giorno?

Tutto questo, ovviamente se vogliamo pensare in grande riguardo alla società, alla comunità, all'intera umanità; ma che succede se per un istante ci inoltriamo nel "labirinto" di noi stessi, noi intesi singolarmente come entità pensante e giuridicamente responsabile? Come accade nel "Paradiso Perduto" di Milton "siamo fregati", o ci hanno fregati? No, la verità insita in questo saggio che non pretende di essere il verbo, bensì ricondurci alla realtà dei fatti, e oserei dire dentro una verità scontata: "ci siamo fregati da soli". Ovviamente l'autore non si esprime in questo modo pedestre, vola più alto, ma seguirlo non è affatto pesante, anzi restituisce alle parole un senso che dovremmo tornare a far nostro. E ciò che egli vuole dirci è che dovremmo re-incominciare a chiamare le cose con il loro nome, ripensare il linguaggio come un gesto in prospettiva che vada verso il futuro, "immaginare una nuova forma di vita".

Scrive Ezio Raimondi in "Le voci dei libri": “Il libro vero parla sempre al momento giusto. Lo inventa lui, il momento giusto; con il colore della parola, con la singolarità della battuta, con il piacere della scrittura”, ed è davvero così. Avviene tutto per sintesi, che addirittura potremmo dire per simbiosi, data dalla necessità interiore che ci fa stendere la mano verso un libro e non un altro. Perché è proprio quello di cui necessitiamo in quell’istante e che funge da richiamo. Così accade per il colore o la mancanza di colore di quella copertina, delle grafica che ci cattura lo sguardo, ci lusinga, ci abbindola.

Quante volte abbiamo aperto un libro e scorrendo le sue pagine ci è sembrato di aver trovato proprio quello che volevamo leggere, o magari, solo sentircelo dire. Ogni libro ha un suo odore, non è forse così? Poco dopo che lo maneggiamo, riconosciamo nella carta e nell’inchiostro un sottofondo odoroso che lo fa nostro, per cui sappiamo dire finanche dove siamo arrivati a leggere senza l’uso del segnalibro. Altre volte, rammento, di aver sfogliato un libro e averlo subito riposto, perché non lo sentivo adatto in quel momento; oppure di averlo ricevuto in regalo e messo subito via, nel limbo delle attese.

Come dire, in stand-by, aspettando il momento migliore per leggerlo e che talvolta è arrivato dopo anni, che quasi non rammentavo neppure di averlo. "Invece era lì...", che aspettava il momento giusto per imporsi alla mia attenzione, e accipicchia, quante volte l’ha spuntata lui, il Libro, e devo ammettere che ‘in qualche modo’ davvero mi ha cambiato la vita. È accaduto con “Pinocchio”, “Cuore”, “Tre uomini in barca”, e con “Bel-Ami” quando ormai avevo l’età giusta, e ancora con “La luna e i falò”, “I fratelli Karamazov”, “Il Maestro e Margherita”, e tantissimi altri.
Ma il grande libro che più mi ha conquistato, e che è quasi inutile citare, è stata “La Divina Commedia”, a seguire “I promessi sposi”, “L'Iliade” e “L’Odissea”, “Don Chisciotte” e poi “L’interpretazione dei sogni”, “L’idiota”, “La nausea”, “L’odore dell’India”, “Cent’anni di solitudine”, “Memorie di Adriano” e immancabilmente e irrimediabilmente “La Recherche” di Marcel Proust. Quanti altri? Tantissimi, che per uno come me, che legge anche il biglietto del tram, non può bastare questo articolo per elencarli tutti. Tuttavia, forse, avrei dovuto citare almeno i nomi degli scrittori, oltre a quelli dei poeti che dopo Dante si sono susseguiti instancabilmente nelle mie letture: Leopardi, Pascoli, D’Annunzio, Marinetti, Campana, Pasolini, Ungaretti, Neruda, Hölderlin, Kerouac, Carver, Celan ecc. ecc. O forse i grandi saggi ...

Chiedo scusa, smetto subito di tediarvi. Fatto è che mi è capitato più volte di aprire un libro e “trovare”, quasi come un trovarobe di teatro, qualcosa che in verità non stavo cercando ma che, guarda caso, era esattamente quello di cui avevo bisogno in quel momento. A dircelo è il curatore di quella intelligente e originale raccolta "I libri ti cambiano la vita" che è Romano Montroni, la cui idea di mettere assieme, per quanto diverse, le esperienze letterarie di cento scrittori, giornalisti, compositori, attori, più o meno conosciuti, più o meno lettori, più o meno impegnati. I quali, hanno dato fuoco ai loro ‘segreti’ librari, lasciandosi scoprire in attitudini letterarie inconsuete e, in qualche caso, inaspettate e, “con generosità hanno accettato di condividere emozioni, sensazioni e pensieri nati dalla lettura”.
Inutile dire che la geniale idea non poteva che venire a un esperto del settore librario quale è Montroni: “un uomo che dei libri ha fatto una delle ragioni della propria vita”; il quale, con questa raccolta, ci propone anche qualche ripensamento, ad esempio, affiancando pareri diversi di uno stesso libro; ri-proponendo alcuni libri “secondi” destinati al dimenticatoio e che, guarda caso, vale invece la pena di riscoprire. Inoltre ci sono libri di cui, personalmente parlando, non conoscevo l’esistenza, perché forse il loro odore, il loro colore, il loro ‘essere’ essenzialmente lontani dai miei interessi, a suo tempo, non mi avevano attratto.
Ecco qui un altro termine di raffronto, l’attrazione, il fascino, la seduzione e l’incanto, lo scherzo intelligente di esistere eppure di nascondersi a noi cercatori d’oppio letterario che, stanchi, lasciamo talvolta al caso di offrirci le sue leccornie passate. È il caso de “La gola”, “Il profumo”, “Follia”, di cui, forse, non troverete notizia neppure in questa raccolta ma che pure consiglio di leggere per la loro ricercatezza e nascosta seduzione. Un libro fatto di libri, quindi, che riapre una discussione sempre in corso e mai conclusa, sulla lettura e sui lettori, nel momento in cui i mezzi, gli scrittori, gli editori, i lettori, stanno cambiando con il cambiare della società e dei suoi interessi.
Fa colpo trovare lo “Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana”, proposto da Cesare Bartezzaghi, nel momento in cui la ‘lingua’ sta perdendo e acquisendo connotati talvolta controversi. O “L’arte della cucina moderna” proposto da Allan Bay, quando ormai sembra non si parli d’altro ma che forse torna utile per contrastare le ‘stupidità’ di certi programmi televisivi, improbabili quanto inutili. Interessante è dir poco l’enunciato di Ginevra Bompiani che in “Vari” spiega quanto segue: “Se i libri non ti cambiano la vita, certo la fanno. Direi piuttosto che i libri ti costruiscono la vita, la ondeggiano, la sprofondano e poi la sollevano, come un sentiero in cresta fra le colline. I primi libri, quelli letti da bambino, le danno la patina l’illusione specifica. I libri letti da ragazzi non hanno autore, sono sottomarini anonimi che colpiscono e affondano la corazzata bambina. Non c’è difesa da loro, non c’è protezione. L’emozione e la cattura sono totali. L’emozione non ha sempre a che fare con la qualità, piuttosto con la forza. Quando si invecchia, si scopre che l’emozione è una forma di malattia. Non sempre si guarisce, ma quando la malattia si spegne, si rimane svuotati, come in una mattina di ottobre, tersa, pungente, senza veli di nebbia, persi in un orizzonte che non ha segreti”.

Ed è questa malattia che spesso diventa ‘magia’ capace di stravolgere la vita con le parole. Una ‘magia’ che incanta e che lascia spazio ai sogni, alle illusioni, al canto lirico e alla poesia, quando ottimisticamente “credevamo altresì di trovarci all’alba di qualcosa di nuovo”, quel qualcosa che Enrico Brizzi nel parlarci de “Il giovane Holden” di Salinger, ci ha condotti per mano nella sensazione d’incredulità irreligiosità e diffidenza che ci attraversa tutti.

Molti altri in verità sono i libri che porterei con me in un ultimo viaggio, per rileggerne alcuni nel tempo dell’attraversamento, se non fosse per l’extra che mi verrebbe richiesto, dovuto al sovrappeso. E sarebbe un eccesso bagaglio che comunque pagherei volentieri. Pochi tuttavia sarebbero quelli che mi accompagnerebbero fino alla meta, cioè oltre la soglia della nuova casa che dovrebbe ospitarmi: la "Bibbia", la "Divina Commedia", le "Mille e una Notte", il "Milione", "Moby Dick" e sicuramente un libro piccolissimo “non meno grande degli altri” di Jean Starobinski “Ritratto dell’Artista da Saltimbanco”. Un breve saggio (che si legge come un romanzo) pari ad un ‘gioiello’ che mai arte orafa abbia elaborato, e c’è più di un perché che lo rende ‘prezioso’. Mai come questa volta sto parlando di un ‘libro’ per il piacere di descriverne il contenuto nella pur brevità del testo che l’accompagna: il discorso iconografico affine alla tematica dell’arte, l’accessibilità della scrittura elegante per quanto ricercata, la pregiata scelta poetica che include Baudelaire, Apollinaire, Rilke ed altri, la sobrietà del ritratto culturale di un mondo quasi scomparso che rivive in queste pagine al pari di una resurrezione.
L’autore attinge alla ‘storia dell’arte’ estrapolandone l’elemento ludico del Clown: Buffone di corte, Arlecchino, Pierrot, Augusto ecc. di shakespeariana e goldoniana memoria (solo per citarne alcuni), districandosi in un percorso immaginativo che sfugge finanche all’ottimo cultore; a quella ‘storia del teatro’ che i migliori storici non hanno saputo spiegare; alla raffinata critica letteraria per cui le parole acquistano senso; alla psicologia del profondo incredibilmente attuale, spiegata con la garbatezza di chi (l’autore), pur dovendo fronteggiare una ineluttabile ‘fine’, riesce a farci amare. Ma preferisco qui rifarmi alla colta introduzione di Corrado Bologna: “Ritratto del critico da domatore di fantasmi”, la cui peculiarità sta nel fornire al lettore la chiave di lettura della ‘cifra’ letteraria e psicologica di Jean Starobinski che, altrimenti, finirei per sminuire o malvolentieri scopiazzare.
“Il saggio si interroga sulla natura dell’interesse che da più di un secolo gli artisti hanno portato alla figura del saltimbanco, dell’acrobata, del clown, sino a identificarsi in quella. La scelta dell’immagine del clown non è solo d’ordine pittorico o poetico: sotto mentite spoglie equestri, gli artisti hanno spesso consegnato il proprio autoritratto, e insieme si sono interrogati sulla natura della propria condizione, per molti versi affine a quella del saltimbanco: da Flaubert a Jarry, da Joyce a Picasso, a Henry Miller. Frutto di una sensibilità originalissima in cui si mediano livelli diversi di lettura critica – da quella psicologica a quella più propriamente letteraria – la rivisitazione del mito del clown sembra qui assumere la stessa levità fantastica dell’oggetto che descrive: emerge così una storia di immagini e per immagini i cui significati reconditi vengono accennati, sfiorati, mai imbrigliati in una trama di spiegazioni totalizzanti”.
Totalizzante è invece la straordinaria ampiezza della tematica che si apre davanti ai nostri occhi nel rivivere con occhio critico i momenti salienti di un qualcosa che è parte integrante della nostra ‘storia’ personale, almeno di quanti di noi, ancora oggi, vedono nell’arte circense e in particolar modo nella figura del clown, quel ‘meraviglioso’ che ci ha accompagnati durante l’infanzia e ancora oggi ci sorprende e ci affascina, con quel tanto di malinconia che lo accompagna. La ‘Grande Fiera’ e il ‘Luna Park’ come sinonimi che si compenetrano e si completano a vicenda. Chi non ha vissuto questa esperienza, forse, non comprende ciò di cui sto parlando, tuttavia era, e tutt’oggi lo è, si pensi al “Cirque du Soleil” che ha estrapolato e continua a farlo, quel mondo fantastico dell’arte circense, che andava ‘oltre’ i limiti geografici della comprensione e della conoscenza: quella ‘Piazza Universale’ in cui noi ragazzi e non più giovani ‘clown senza arte ma pur sempre clown’, avremmo volentieri giocato all’infinito.

Tra gli ultimi letti, ma non ultimo, porterei con me un breve racconto prezioso: "La strada" del premio Pulitzer Cormac McCarthy, che apre al futuro e che contiene un messaggio universale di grande impatto emotivo: «Ce la caveremo, vero, papà?» «Sì. Ce la caveremo» «E non ci succederà niente di male» «Esatto» «Perché noi portiamo il fuoco» «Sì. Perché noi portiamo il fuoco». Un libro questo che, pur nella sua esiguità letteraria, risulta fin troppo crudo, a tratti violento, eppure straordinario. Il Libro, tornato ad affacciarsi alla ribalta grazie alla trasposizione cinematografica (mera traduzione filmata diretta dall’australiano John Hillcoat che lo ha presentato in concorso all'ultima Mostra di Venezia, e che se non altro, è valsa a testimoniare al più ampio pubblico, certamente più ampio dei lettori che avranno letto il libro), ci fa regalo di un altissimo messaggio d'amore tra padre-figlio, (di cui non si trova quasi traccia nella letteratura contemporanea). Una storia forse non nuova, ma di certo avvincente, “incentrata sui postumi di un Armageddon, in cui un padre e un figlio si trascinano attraverso scenari post-apocalittici, tra le rovine della civiltà, assediati da fame, disperazione e uomini regrediti che riscoprono gli istinti bestiali del cannibalismo”. Che è anche messaggio d’amore e di vita, per una consumata esistenza-sopravvivenza, che funge da trama portante in un mondo “di puro orrore” dove, il nuovo pericolo incombente della radioattività nucleare, ci presenta uno scenario che riprende le atmosfere metafisiche della fantascienza apocalittica, confermandole.
Un'opera (sia il libro che il film) che andrebbe portata a conoscenza di tutti, a incominciare dalla scuola, per il suo alto valore umanistico che infine ci riscatta dall’essere portatori di fame e distruzione, ma anche di nuova vita. Ciò a discapito delle critiche (più cinematografiche che letterarie) che comunque hanno rilevato una forte valenza escatologica del testo, in contrasto con il film che, “se da un lato appiattisce la poesia in una confezione tanto ineccepibile – paesaggi agonizzanti, fotografia sporca, musiche suggestive – quanto fredda; dall’altro, si pone il sospetto che si sia letto il romanzo solo per il suo contenuto, perdendone la scrittura. Lo conferma ciò che vediamo nella didascalica ripetizione per immagini, cui manca imperdonabilmente l’anima" (Gianluca Arnone). E tuttavia senza nulla togliere all’ottima prova di Viggo Mortensen e del piccolo Kodi Smit-Mcphee, (padre e figlio) smunti, sporchi e amabilmente tragici nel loro “essere portatori del fuoco (della vita)”, restano pur sempre due protagonisti senza nome di un romanzo/film in cui il grigio incombe come “un lugubre sudario su tutta la natura che ha perso i suoi colori vitali”.

Ma se la pagina accende l'immaginazione del lettore, “il film, cupissimo, rigoroso, molto fedele al romanzo, è quasi insostenibile per lo spoglio realismo. Una metafora universale in tempi di guerra come questi, che però evita con classe le trappole e i ricatti del genere" (Fabio Ferzetti). Qui “ogni spettacolarità è bandita, se non la naturale meraviglia del nulla. Per mesi la distribuzione del film è stata in bilico. Potrebbe impressionare, questa palpabile caduta di ogni orizzonte dell'uomo... Vero come un pensiero onesto e ossessivo, e che per questo fa paura" (Silvio Danese).
Non mi rimane che andarmi a rileggere questo incredibile 'piccolo' libro, per accertarmi di ciò che la sconvolgente “realtà” dell’autore (quasi una profezia di quanto sta davvero accadendo) ha portato alla ribalta in un momento come questo, in cui più serve la nostra partecipata riflessione. Adesso vogliate scusare la fretta che mi incombe di riprendere l’autobus per tornare a casa, leggo sul biglietto che il tempo di validità sta per scadere. Ah, dimenticavo, questi sono i libri che non ho ancora letto, mentre quelli che forse non leggerò mai, sono quelli che ancora non sono stati scritti. Ma forse sto solo delirando.

 


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