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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Invito alla lettura d’autunno … Libri poesie e altro

Argomento: Libri

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 03/10/2018 18:02:23

INVITO ALLA LETTURA D’AUTUNNO … LIBRI POESIA ED ALTRO

“Il libro vero parla sempre al momento giusto. Lo inventa lui, il momento giusto; con il colore della parola, con la singolarità della battuta, con il piacere della scrittura” - scrive Ezio Raimondi. Quante volte abbiamo aperto un libro e scorrendo le sue pagine ci è sembrato di aver trovato proprio quello che volevamo leggere, o magari, solo sentirci dire? Altre volte, rammento, di aver sfogliato un libro e averlo subito riposto, perché non lo sentivo adatto a me; oppure averlo ricevuto in regalo e messo via, nel limbo delle attese. Come dire, in stand-by, aspettando il momento migliore per leggerlo e che talvolta è arrivato dopo anni, che quasi non rammentavo neppure di averlo nello scaffale. Invece era lì, aspettava il momento giusto, per imporsi alla mia attenzione, e accipicchia, quante volte l’ha spuntata Lui, il Libro e devo ammettere che ‘in qualche modo’ mi ha cambiato la vita. È quanto accaduto con “Pinocchio”, “Cuore”, “Tre uomini in barca”, e con “Bel-Ami” quando ormai avevo l’età giusta, con “La luna e i falò”, “I fratelli Karamazov”, “Il Maestro e Margherita”, e tantissimi altri. Ma il grande libro che più mi ha conquistato, e che è quasi stupido citarlo, è stata “La Divina Commedia”, a seguire “I promessi sposi”, “Iliade” e “L’Odissea”, “Don Chisciotte” e poi “L’interpretazione dei sogni”, “L’idiota”, “La nausea”, “L’odore dell’India”, “Cent’anni di solitudine”, “Memorie di Adriano” e immancabilmente e irrimediabilmente “La Recherche” di Marcel Proust. Quanti altri? Tantissimi altri che, per uno come me, che legge anche il biglietto del tram, non basterebbe questa recensione per elencarli tutti. Ma forse avrei dovuto citare, oltre quelli degli scrittori, i nomi dei poeti che dopo Dante si sono susseguiti instancabilmente nelle mie letture: Leopardi, Pascoli, D’Annunzio, Marinetti, Pasolini, Ungaretti, Neruda, Celan, Hölderlin, Kerouac, Carver, e molti di quelli a me contemporanei …

POESIA
GIAN GIACOMO MENON … O LA POESIA DEL TEMPO LINEARE
Essai su “Geologia di silenzi” – Anterem Edizioni / Cierre Grafica 2018.

Apparsa di recente nella collana ‘Itinera’ da Anterem Edizioni 2018, la seguente raccolta poetica rende omaggio a un personaggio così poco conosciuto (direi misconosciuto), portandolo alla ribalta di quanti, ad esempio, si adoperano in ambito poetico, alla divulgazione e alla conoscenza di quella che potremmo definire ‘l’essenza stessa della vita’, o se preferite, in egual misura ‘il sale dell’esistenza’, ciò che rende alla ‘nuda parola’ il colore e la forza dei suoi più reconditi sentimenti: la poesia: “non più di un bisbiglio nella pena dell’essere”.
Gian Giacomo Menon (1910-2000), insegnante emerito di storia patria e filosofia, stimato e rispettato dai suoi allievi, diventa quasi un requisito indispensabile alla comprensione del nostro tempo. Se mai si è amato il proprio professore di lettere questa raccolta di suoi scritti costituisce il ‘dono più sentito e più grande’ da parte dei suoi ex allievi di diverse generazioni che hanno voluto rendere omaggio a colui che ha fatto dell’insegnamento e dello scrivere l’unica sua ragione di vita, e noi tutti non possiamo che essergliene grati. “Geologia di silenzi” riunisce in un unico volume – con il titolo che l’autore avrebbe desiderato – una minima parte del suo capitale poetico dal 1988 al 1998. Sono diverse, infatti, le date di composizione e cifra stilistica delle singole raccolte da cui il libro è desunto, e che pure presentano una comune caratteristica: di essere state personalmente selezionate dall’autore all’interno della sua sterminata produzione in vista di pubblicazione. Il contenuto di questa raccolta poetica, rappresenta solo un breve sapiente assaggio dell’autore di ‘migliaia di carte, foglietti, appunti contenuti nei 25 contenitori trovati nella casa del poeta e confluiti nel Fondo Menon della Biblioteca comunale Vincenzo Joppi di Udine.
Molto dobbiamo all’oculata e dotta biografia di Cesare Sartori che ci introduce alla conoscenza dell’autore: “che per un’ostinata, sofferta ‘decisione di assenza’ praticata con coerenza e determinazione, ha trascorso più della metà della sua vita praticamente tappato in casa […] accuratamente nascosto agli occhi dei più, sfuggendo ogni anche pur minimo côté sociale, ha diligentemente cancellato le proprie tracce dal mondo”; il quale, tuttavia, avverte il lettore che potrebbe “sembrare sciocca presunzione pretendere di racchiudere in poche paginette una vita come quella di Menon, ‘filosofo del nulla e poeta assoluto’ (Carlo Sgorlon), che sembra fatta di niente, ma che in realtà è una foresta lussureggiante” …

«..pomeriggi di infanzia sotto gli alberi
adunata di tende
ruote di spazio sulla città
palloncini rincorsi dai passeri
fucili di luce contro i cartoni
chi grida gli zuccheri
chi le scimmie maestre dell’uomo
l’angelo piombato dentro la carne
lungo tubi di ossa sentieri di midolla
a scuotere fiumi sepolti un ribollire di pietre
la pelle sconsacrata dall’affiorare di un dente
per ferire greggi di stelle navigazione di erbe
non sazia fame dell’essere
e noi nocchieri impazziti per nuove correnti
a reggere inconsulti timoni
nella rapina delle mani»

FRANCA MARIA CATRI … O L’ALTROVE INDICIBILE DELLA POESIA CONTEMPORANEA
“Ti chiedo al vento” – Anterem Edizioni / Cierre Grafica 2018.

Con un’espressione finemente poetica in apertura della sua silloge di recente publicazione “Ti chiedo al vento”, Franca Maria Catri ne offre al lettore un esempio tangibile: “..tra petali di libri / il tramestio di foglie / il giusto e l’ingiusto del fiore”. C’è un tempo di frattura minimale in cui si misura lo spazio restante da quello che precede l’attimo successivo, anche detto crack-up*, che si offre come spazio liminare all’impulso creativo da cui scaturisce la ‘luce’ primordiale e avveniristica dell’idea, dell’arte, della composizione musicale come della poesia. Impulso propulsivo che permette alla parola poetica di disgiungersi dalla materia letteraria e divenire pura essenza dispersa nell’aere della concettualità estetica e percettiva. Ciò che nulla toglie alla scrittura poetica allorché, nell’interscambio modale con il poeta, il lettore interpone la propria empatia a quella dell’autore/trice. In cui la chiave di lettura ‘psicologica’ è fissata nello stato d’animo del poeta in quello che è il suo momento creativo, nel coinvolgere emotivamente il lettore nel suo messaggio: lì dove l’amore per i libri, connaturale alla sostanza fibrosa della materia, si scioglie/sfoglia in petali di fiori che s’aprono alla nascente/morente stagione; in cui il frusciare delle pagine coincide con il tramestio delle foglie al vento/aere che l’accompagna attraverso l’arco/soglia posto tra l’inizio e la fine, al limitare de “il giusto e l’ingiusto del fiore”. Non la ricerca di una soluzione al crack-up iniziale, bensì il responso imperscrutabile di un ‘altrove indicibile’ che trova luogo nell’assenza, nel pieno/vuoto cosmico della sua proiezione filosofica nella poesia contemporanea; di un ultimo grado di investigazione cui sottoporre ogni intima certezza/incertezza della relatività umana. Una ‘immagine inadeguata del morire – scrive Flavio Ermini nella postfazione che accompagna la silloge poetica – in cui lo splendore essenziale, si fa strada attraverso l’inerzia della materia visibile e si riverbera proprio su quell’invisibile alfabeto che immaginiamo ..a un passo dal cuore’. Al dunque, “se la fine ha un principio” – rivela l’autrice Franca Maria Catri – la vita è ciò che sta nel mezzo, quanto ci concerne di apprezzare in quanto dono, nel bene e nel male di un ‘principio che contempla la fine’ quale mezzo di affrancamento al nostro pur meraviglioso esistere.

FABIO SQUEO … O LA DIFFICILE ‘IDENTITÀ’ DEL SUO ESSERE POETA
“I poeti fioriscono al buio” – raccolta poetica – Bibliotheka Edizioni 2017.

Cancellare i vincoli dell’identità per scivolare nell’infinito errare della poesia nel labirinto delle molteplici coincidenze virtuali della contemporaneità, non è cosa facile da intraprendere. Si rischia di condurre una vita impersonale, immergersi in un’attività di erranza nello spazio e nel tempo impropri delle cose del mondo; che è poi come vagheggiare e/o fantasticare, su qualcosa che va oltre la concomitanza delle situazioni, quasi un voler ‘fuggire da se stessi’, dal frastuono delle diverse identità che si è costretti ad assumere nella concretezza del reale. Una tangibilità che, estranea alla dissolvenza filosofica, moltiplica l’identità in numerosi altri sé dalla personalità conforme e/o difforme, solo apparentemente diversa quanto più affine a quella ‘desiderata’, ovvero ‘sospesa’ nel rimando della coscienza, come processo narrativo di sé. È allora che dalla relazione fra le due parti, diverse e uguali, narrativa e poetica, si erge il romanziere e il poeta, l’uno compenetrato nell’altro. Da cui le strutture dotte che spesso s’intersecano, si moltiplicano, si completano nel ‘diverso e uguale’ linguaggio letterario: “..nella bellezza di un sentire che vuol essere dedizione, comprensione, per un’esistenza che oltrepassa le barriere dell’umano.”
Fabio Squeo si inserisce in questa dualità, nei passaggi interstiziali delle forme che appartengono alla parola detta, ancor più che ai segni grafici della scrittura, interponendosi nelle ‘pieghe del tempo’ che ancor giovane ha fatto sue, andando qui alla ricerca del proprio essere poeta pur conservando ‘una mente prigioniera del passato’, che ‘lentamente si consuma’ nelle ‘incertezze degli istanti’ che lo ‘separano dalla vita’. Un ‘consumarsi sotto il sole dell’esistenza’ che sembra non concedere(gli) tregua, ma che altresì l’aiuta a trovarsi e/o ritrovarsi, al di qua e al di là della soglia di avanzamento della propria esperienza poetico – crepuscolare. Perché in fine questo è il ‘poeta’, colui che ha ricevuto in eredità il suono e il canto iniziali, afferente a ciò che noi tutti siamo, individui effettivi del nostro comune essere, spuri abitatori d’una costellazione imperfetta nel ricalcare l’orma pessoana di ‘Una sola moltitudine’, l’essenza stessa della nostra vita: “..nella solitudine del poeta / … / quando il fumo delle notti / agita le sue onde. /…/ la nascita non è più una nenia / oscura / da ricordare / ma una fulgida gemma / di acero fiorito”.
Fabio Squeo, laureato in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, è studioso del pensiero di Sartre e della filosofia esistenzialista del XX secolo. Autore di poesie svolge la sua attività di saggista e curatore di opere letterarie e collabora ai progetti editoriali della casa editrice Limina Mentis.

IRIA GORRAN … O ‘L’ARTE DELLA GUERRA’ NELLA POESIA D'AUTORE CONTEMPORANEA
“Corpo di guerra” - Cierre Grafica / Anterem Edizioni 2018.

L’accostamento con l’opera di Sun-Tzu è affatto casuale quanto cercato, per sottolineare la portata di un fare poesia che inscena l’essenza di una tentazione contemporanea: condurre una ‘guerra’ essenzialmente intimistica contro il proprio sé. Questa la cifra elettiva della silloge poetica ‘Corpo di guerra’ di Iria Gorran, in cui la passione competitiva è sempre in bilico tra appagamento e/o perdita mediante l’‘artificio della ‘guerra ’, conflitto questo che si fa scontro duro tra vincitore dominante e il perdente arrendevole, da affrontare con la calma e l’irruenza necessaria …
“Ho sempre sentito il corpo come uno scudo / un mezzo lo strumento di difesa / dal mondo – la macchina umana un filtro / con esigenze minime / […] / che la necessità / l’angoscia hanno spinto quasi oltre il limite / ma tutto quello che volevo era / che mi riconducesse – mi portasse a casa”.
Per quanto si voglia che anche una ‘guerra individuale e personalizzata’ la si faccia per vincerla, altresì essa risulta remissiva di affrancamento e/o riscatto che necessita di continuare a combattere dall’interno, sul campo nemico. Come del resto insegna il ‘fautore di tutte le guerre combattute fin qui', Sun-Tzu: “se non puoi vincere il nemico, allora fallo re”; così facendo “si può sempre vincere senza necessariamente vincere”, poiché “la vittoria si ottiene quando le due parti in lotta, quella superiore e quella inferiore sono animate dallo stesso spirito”… “Atomi dispersi estranei alla configurazione” / “Avevano qui / una vaga idea di questa guerra?” La sottolineatura nel titolo 'arte' è qui utilizzata per meglio evidenziare l’immagine impressa sul fondo di una tela (mettiamo di un corpo materiale) in attesa d’essere riempita di colore, ‘secondo i dettami della propria anima’ e/o secondo il presente-anteriore-infinito che ci siamo preposti fin dall’inizio, qualora riempire gli spazi vuoti divenga sinonimo di volontà: quasi che l’espansione dell’anima nel silenzio della solitudine, similitudine d’assenza e/o di presa coscienza, avalli statue di carne vive per un teatro della fine, in assenza di applausi e tuttavia senza compianto.
Ciò che accade quando il ‘corpo emozionale’ si tinge di un’inquietudine opaca, o avviene a una mutazione incessante per una guerra annunciata col proprio sé fin troppo differita; allorché l’unica condizione possibile per continuare a vivere è in un rapporto nuovo, diverso, con se stessi, con gli altri e con il mondo intero. Ma è tuttavia una ‘guerra costante’, eppure non definitiva, una levata di scudi per un combattimento ‘corpo a corpo’ contro un nemico invisibile, sempre diverso, che fa uso di spade e lance affilate, onde infierire sull’eventuale perdente senza resa.
“Si può sempre vincere senza necessariamente vincere”, rammenta Sun-Tzu l’eclettico filosofo della guerra, di quella stessa ‘guerra’ che Iria Gorran in queste pagine conduce in prima persona attraverso una “scrittura d’esistenza che è lingua di forte energia poetica, spezzata dall’esperienza di sé: dal corpo che la porta dentro e dal linguaggio che ne illumina la percezione. […] Il segno fondante è un’incisione dura, un graffio che designa i luoghi di un brusio dentro il silenzio ‘terribile’ che opprime il parlare e rende incerti i suoni (e le parole), mentre la voce spezza la rapidità del ronzio esistenziale continuo, scuro” – scrive Giorgio Bonacini nella sua intensa postfazione al volume. Incerto il prosieguo, se Iria Gorran vincerà o no la sua guerra lo scopriremo in futuro con l'avanzare della sua esperienza poetica o se magari ritiene di averla già vinta (e perché no) con la pubblicazione di questa sua ‘Opera Prima’ edita da Anterem Edizioni con le immagini grafiche di Bartolomé Ferrando che, come in nessun altro caso, coglie nella mescolanza di lettere dell’alfabeto il senso intrinseco della fugacità dell’autrice dalle parole; segno indubbio di una sensibilità artistica pregna d’inconsuete voci, come di geroglifici di una lingua estensibile all’infinito. L’autrice: Iria Gorran ha origini croate e formazione classica, un curriculum di tutto rispetto in ambito artistico e teatrale, autrice di testi poetico-filosofici e narrativi: ‘Il corvo e i racconti del mistero di Poe’, la ‘Commedia di Dante’. Risiede per lunghi periodi a Vienna e a Londra, attualmente vive a Torre d’Isola (PV). direzione@anteremedizioni.it

AMINA NARIMI … DA UN PUNTO DI PAURA ALLO SPLENDORE.
“Nel bosco senza radici” silloge poetica – Terra d’Ulivi Editore 2015.

“Eppure tutto è / ancora oscuro mentre segreto / ci plasma e ci àncora un volto nuovo / nuova la spinta ad amare / un attimo prima di nascere / un istante prima di dimenticare.”
C’è una poesia che scorre silenziosa lungo il crinale della sofferenza, talvolta solo interiore, perché insormontabile è il dolore che l’ha causata. È allora che questa si mostra a noi come una forza ctonia, allorché la ragione oscura della sopravvivenza richiede un atto di forte solidarietà che la contenga. Ben lo sa il poeta la cui emotività afferra gli spasimi dei sentimenti assopiti nel dolore, quello stesso che, in certo qual modo, esplode nell’anima prima di addivenire verso, parola lirica e canto, prima d'essere preghiera, ancor prima di farsi pianto, cui alcun fiume possa contenere le lacrime sparse … “..tra la crisalide e la rosa ricomposta / c’è un dono che si sporge dalle labbra / danzando per minuscole fiammelle / da un punto di paura allo splendore.”
Nessun altro colore che non sia sporcato di rossa terra, sarebbe accolto nella tavolozza d’amore che l’autrice, Amina Narimi, ancor prima d’essere poeta, usa nel tessere le sue tele che del suo arcano sembiante portano il segreto. Un lontano afflato confidenziale che la restituisce alla natura genitrice di quell’eredità ancestrale, mai venuta meno, che ha attraversato deserti, valicato montagne, navigato fiumi scorsi a cercare l’immensità di quel mare che un giorno, forse troverà, ma solo quando l’incoffessato e profondo amore per la vita, si tacerà dal ridestare i fantasmi del creato, nei suoi versi.

GIORGIO BONACINI … O L’ALGORITMO DELLA POESIA DESCRITTIVA CONTEMPORANEA
“Quattro Metafore Ingenue”, Piero Manni 2005. E in “Argini”, Anterem Edit, Rivista di ricerca letteraria n. 94.

Nello specifico metaforico del linguaggio musicale la ‘poesia’ abbraccia l’idealità del ‘suono puro’ che sta all’origine dell’armonia di fondo, di prevalenza variabile piuttosto che statica, nell’indugiare osservante di una partitura. Suono quindi, partecipe di quella mobilità simbolica che ogni ‘variazione sul tema’ apporta in forma creativa allo svolgimento narrativo di una sinfonia corale ... “Dalla concentrazione pura / le prime parole emergono con una velocità / senza fretta - come se si dovesse / contemplare l’estraneità dei fiori / nella ripetizione di un principio insoddisfatto …” Contestualmente a: “Si pensa allora a un’alternanza di rugiade / a un oscuro lavoro di meditazioni / nella similitudine terrestre …” Formula quella della ‘variazione’ che accomuna all’afflato poetico, per definizione ‘cantabile’, la verbalità per eccellenza ‘orale-narrativa’ della scrittura tensiva di Giorgio Bonacini, che trova nella ‘epitasis’ greca quello che ben possiamo definire l’algoritmo della poesia simbolico-descrittiva che lo contraddistinge, la cui tensione espressiva egli spinge in modo del tutto personale nell’imperfetto contemporaneo ... “Trilli / fonòfoni / e suoni / e quanda’anche / cervello / arzigogoli / chiari / il pasticcio / neurotico / e cerebro”. L’insolita chiave di lettura matematico-filosofica delle ‘performance poetiche’ che l’autore mette in atto, palesa un officiare ‘verità obliate’ che rispondono al richiamo degli elementi in natura che, una volta evocate, si dispongono secondo ‘combinazioni concatenate di locuzioni’ per una esibizione integrale di se stesse, dando senso all’indecidibile derridiano, ineffabile e indefinibile del “..perché si rannuvola il cielo / ad esempio” …
Conformemente a: “L’artificio è equiparabile / al mio sguardo / un astratto rinnovarsi / di andature / in carreggiate fisiche”. La reminiscenza di qualcosa ch’è stato e che invita alla meditazione di quella ‘conoscenza primaria’ che fa da cassa di risonanza al silenzio che tutto avvolge: ‘il silenzio del sacro’; il cui pieno coinvolgimento porta alla separazione dello spirito (soprasensibile) dall’intelletto (sensibile), emotivamente insostenibile in quanto antròpico dell’umano sentire. Ne scaturisce una sorta di ‘discantus’ che nel linguaggio musicale assume forma polifonica del canto, consistente nell'aggiunta di una ‘voce’ in moto contrario all'andamento uniforme e parallelo dell'organum primitivo che si colloca al di sopra del canto dato, per un dialogo diretto con un ‘ipotetico prescelto’, relativo all’ego creativo dei sogni, ma … “La saggezza dei sogni è diversa / trascorre / la sua nitidezza e dilegua/ Nel sonno / la perdita è tutto / la dissipazione stupenda / lo squilibrio abissale […] Immancabile scorre inesausta / la sapienza dei sogni.” La forma del ‘discantus’ si inserisce qui, fra gli interstizi lasciati dalle parole, come suono a se stante, pulito e inequivocabile, di un risentimento di avvenuto distacco che risponde a una intenzionalità superlativa d’elevazione dall’ordinario, di per sé ‘pedestre e spesso mediocre’, equivalente di una fuga dalla realtà ingenerata da una infelicità reiterata nel tempo, alla ricerca costante del proprio riscatto … “Cos’è che ci trattiene dal toccare? / Si isola una prima conoscenza / nella dimestichezza delle gocce naturali / e appare la durezza di una pietra…”.
O meglio, all’ancorché motivata composizione/scomposizione di quella ‘musica assoluta’ che dia equanime risonanza al proprio concerto interiore … “Cosa manca allora per incidere ripetere o svelare in sé la qualità fine di un’ombra? … Penso a ciò che si può amare alla coscienza che cerchiamo nelle cose – non è più quella dell’ombra né il ricordo o l’esclusione che si vuole. […] Forse l’invasione è solo questa – una città dai tempi morti e gli occhi grandi come guardi una figura nell’infanzia o l’illusione che verrà.” Ma se la ‘lingua’ è l’anima che tiene vivo un popolo, la libertà d’espressione equivale alla sua identità come il bene più prezioso da conservare, ciò che da senso all’atto di apprendere, e che l’io collettivo (che non esiste), pur definisce in senso di comunitario e glocalizzato della globalizzazione in atto, necessario a raccontare il mondo attuale, la tecno-sfida di quel linguaggio intraducibile che in qualche modo va riconquistato.
Fra le sue molte pubblicazioni figurano inoltre ‘poesie visive, sonore e artistiche’ nate dalla collaborazione con il gruppo Simposio Differante, in cui figurano testi di critica letteraria apparsi in riviste nazionali quali “Anterem” ad esempio, in cui il ‘linguaggio concreto’ delle performance si spinge alla ricerca dell’assoluto interiore, onde - egli scrive ... “..scavare, conoscere e riconoscere, così come pensare e interrogarse sono l’essenza stessa dell’odierno esistere". È in questo suo vagare tra la distanza e il limite raggiungibile del suo pensiero che la dimensione onirica della ricerca affronta l’algoritmo del ricongiungimento (impossibile) col sacro, in quel dualismo che sta alla base del soccombere umano prima di giungere in cima alla piramide inanimata del divino, ove già Icaro tentò il grande balzo, per poi rovinare in discesa …

C’è da restare sgomenti che nel ‘pensiero finale’ “..la perplessità resiste - / deve darci lo spasimo di un sentimento / inabile, patire i gesti impellenti / e farli vivere / schiudere l’ombra del riconoscimento / l’idea fondamentale di un conflitto / […] / essere il furto di una lingua / un dono amabile e sleale / […] Indicibili i suoni – al riparo del vento (ultimo che gelido spira) / (è allora che più) li senti così irrefrenabili e persi … / e così inafferrabili”. “Ha senso che parlandoci riapriamo / la ferita? L’illusione inospitale del richiamo / non si oppone – non ha nulla da portare / Ma ugualmente è un’esistenza / in altri segni, tra le rocce, nella pioggia / dov’è il nome del bagnato”… Come in questa ‘Chiusura’: “Un segno – un piccolo preciso, indelebile segno È da qui che dovremmo partire – e qui ritornare E se cadono i suoni? E li nomina l’acqua? Le parole ora scrivono là – nel fantasma del sole Un salto e un ricordo – un cespuglio di segni L’inizio oltrepassa così l’illusione e la fine. È qui che dovremmo tornare – e qui ripartire”. Ma non tutto ci è dato! “Non è nostro dunque il sole né il riverbero / dei suoni né la voce – libertà di un’atmosfera / firmamento di follie non destinato, recita / il suo corpo intimorito questa luce, si tortura / per un’ombra e l’universo che la accoglie / fascia il mondo con ardore, senza pace” / […] / «Così, per assenza di voce / un’aria difficile buca e risuona. / E la mente si ferma. Non parte. Rimane.»

TAIYE SELASI – “LA BELLEZZA DELLE COSE FRAGILI” – Libro Einaudi 2013

Una scrittura elegante e raffinata fin nelle virgole e le parentesi per una storia evocativa sopra le righe e al di fuori dei canoni della narrativa tradizionale che ripercorre le tappe eloquenti di una letteratura ancora poco conosciuta e ancor meno studiata quale è quella africana ganaense, nigeriana, senegalese, camerunense ecc. Forse anche relativamente minima e stereotipata, tuttavia generosa di corrispondenze e separazioni per una conoscenza ‘altra’, insolita e arcana. Più vicina alla cifra poetica che alla narrativa tout court cui siamo abituati. Certamente più inerente alla liricità tipica della nenia prossima al canto che accompagna il sonno e che permette al sogno quella ‘felicità’ edenica che il mondo sembra aver perduto, e in cui gli esseri umani si muovono come sospinti dal vento che spazza la savana, che increspa le acque dei grandi laghi e rende impetuoso lo scorrere dei fiumi.
La stessa che ancor più permette alla linfa vitale della ‘natura’ di rigenerarsi, il confluire in essa di legami di appartenenza e sentimenti mai dismessi che accomunano le persone e i popoli dentro un unica grande storia universale che tutti andiamo scrivendo, capace di ricongiungere le famiglie disperse, i cuori spezzati nel segno di quell'amore che - se vogliamo - ancora fa girare il mondo. S’è detto un canto, accompagnato da violini e tamburi “..poi danze e festeggiamenti, il pesce alla griglia (il nutrimento divino), la capra sgozzata (il sacrificio), scintille rosse (il fuoco purificatore) che saltano di gioia elevandosi verso il cielo, un cielo nero fitto di stelle (l’accoglienza generosa) mentre l’oceano ruggisce (l’ospitalità cultuale); la madre con le lacrime agli occhi (la gioia), lo sbigottimento dei fratelli (la meraviglia)” – per una riunione "..improvvisamente consapevole del silenzio" (l'inizio dal nulla), attesa quanto desiderata: “..un ponte; la gioia di sua madre: il primo mattone (della ricostruzione) il rumore della sua solitudine chiaro, assoluto".
Ecco, “La bellezza delle cose fragili” di Taiye Selasi, è ricolma di quel simbolismo africano che va reinterpretato oltre le parole e reinserito nell’ambito ‘vitale’ che continua a scorrere dal passato dentro la contemporaneità: dal linguaggio delle città urbanizzate, alla contaminazione musicale, alla globalizzazione poetica e narrativa, capaci di avvicinare i popoli, di assecondarne la comprensione e di renderla universalmente fruibile senza preclusioni di sorta (pregiudizi, tabu, falsi moralismi). La rivelazione narrativa è tutta qui, contenuta nell’originalità scrittoria dell’autrice che si affaccia sulla scena letteraria con questa sua ‘opera prima’, che a una lettura superficiale può risultare finanche minimalista, perché ‘minimalista’ è la bellezza (senza peso), ‘minimaliste’ sono le cose (fragili). Mentre è l’afflato ispiratore di questa storia ad essere massimalista in senso rivoluzionario, eclatante e sbalorditivo insieme “..come le lacrime non sufficientemente mature” che si sciolgono amare dentro lo sguardo del protagonista Kweku Sai:
“All’inizio erano semplici incrinature che per anni non ha mai curato”. Fin quando: “Il cuore di Kweku si spezzò in un punto. La prima rottura lui la sentì. E Olu guardò sgomento la farfalla poggiata sul dito del piede della nonna. Nera e azzurra appena posatasi, una tonalità quasi fluorescente di turchese, disegni neri, puntini bianchi. Svolazzò pigramente intorno al piede della madre di Kweku, poi volò via, sbattendo allegramente le ali, verso la cupola triangolare, e uscì dalla piccola finestra” (della capanna).
Il passo qui riportato è argomento antropologico lì dove mette in relazione le credenze ‘animiste’ mai abbandonate del tutto, con la religiosità cristiana che ne confuta il significato intrinseco ma che pure ne accoglie la simbologia, seppur relegandola all’uopo alla escatologia tipica delle popolazioni africane.
Confluita, successivamente, nella ritualità e nelle usanze tribali; nella narrativa orale in chiave di miti e leggende così come nella favolistica e nella poesia che, se vogliamo, ripercorrono le strade che sono state degli avi ancestrali, eredità di un ‘archetipo primordiale’ mai venuto meno. Allora ecco che la ‘farfalla’ (allegoria univoca di fragilità e leggerezza), recupera qui il simbolismo cui è appartenuta nel tempo: l’esalazione dell’anima che si allontana dal corpo del defunto; il colore turchese delle notti africane costellate dalle stelle amiche; il ‘fragile’ equilibrio tra il vento e le dune, la savana e la foresta, il bene e il male, l’amore e la morte nei grovigli di forze contrastanti mai dissipate. Così come la ‘leggerezza’ che si esprime nel battito delle sue ali, capace di mettere in moto una tempesta di sabbia capace di cancellare ogni cosa; come del suono sordo e cantilenante di un’immensa orchestra formata dalla polvere del Tempo.
“Un’ode all’oblio … senza clamore né premeditazione, come si spostarono (un tempo) le greggi … per istinto, senza bagagli, alle prime luci dell’alba”. Finché la farfalla, svolazzante nel giardino, si sofferma sopra il piede di Kweku e vi si adagia “..Un contrasto spettacolare, turchese e rosa. Una cosa che si apre e poi si chiude, ed è dunque la morte", allorquando il ‘Silenzio’ inonda la pagina lasciata appositamente in bianco e torna a invadere tutto nella calma ritrovata del creato.
Ma è anche un’elegia delicata e intima all’amore di una donna, un’amante, una madre – suggerisce Selase – nell’introdurre Folásadé Savage, detta anche Fola, e la sua ricerca della felicità. Una donna che come ‘madre’ dei propri figli ha fatto della sua famiglia una costruzione grande come una cattedrale; che come ‘amante’ ha dovuto affrontare la solitudine dei sentimenti; e come ‘donna’ l’umiliazione dell’abbandono, la frustrazione di dover farcela da sola e ricominciare. Mettendo in pratica quello spirito di sopravvivenza che solo la donna (in quanto femmina del branco) a un certo momento sente salire dal profondo del proprio inconscio, allorché è chiamata a difendere la progenie in quanto ‘sangue del suo sangue’, la discendenza della propria stirpe, il fondamento e il ricongiungimento.
Quasi ad avere qui il ribaltamento di un ruolo che si è sempre voluto individuare nel maschio (maschilismo storico), quando invece, e in questo romanzo è reso palese, l’uomo è all’opposto del carisma esistenziale della donna. Quasi che all’uomo, in quanto maschio del branco, non spetti l’osservanza della paternità dopo il concepimento ma solo di raccogliere la palma dell’impresa, così come nella lotta per il primato, nel combattimento o in battaglia, nell’offesa come nella vendetta, tale da apparire egli (solo) lo spirito del bene, il regolatore di conti sospesi. Altresì egli è il male, dispensatore di piacere e dolore, sofferenza e conforto, patimento e infelicità.
Non è così, non questo intende la scrittrice mettendo in evidenza le qualità di Sela, la protagonista presente/assente (perché abbandonata e quindi sospesa) di questa storia (di viaggio, perché di questo infine si tratta, di un viaggio all'interno dell'animo umano), dai tratti drammatici eppure miracolosi: “E questa scoperta è un’assoluta rivelazione!”, solo per il fatto che in essa si rincorrere la felicità da una città a un’altra, da un continente a un altro, da un passato remoto al presente contemporaneo che tutti ci accomuna. Ma quale felicità? In che modo? Quando? Non sono domande che Taiye Selasi pone ai suoi protagonisti, e i lettori farebbero bene a non attendersi risposte, per quanto queste risultino in forma di allegorie nelle immagini copiose che si rincorrono attraverso i flashback narrativi, traslate dalla realtà (nei colori, nei suoni e nelle forme che le compongono), per un quadro che fuoriesce dalla cornice e si espande sulla parete intima di una sensibilità poetica diffusa in ogni pagina, ora illuminata dall’aura di una verità ‘altra’ reinventata all’uopo che la rende universale; ora nella completezza infinitesimale della nostra ‘fragile’ esistenza.
Taiye Selasi è scrittrice e fotografa, nata a Londra e cresciuta in Massachusetts, da padre ghanese e madre nigeriana. Laureatasi a Yale ha conseguito un Master of Philosophy in Relazioni internazionali a Oxford. Attualmente vive a Roma. Il suo racconto d’esordio, 'The Sex Lives of African Girls' (Granta 2011), è contenuto in 'Best American Short Stories' 2012 ed inoltre è stata selezionata tra i migliori venti scrittori contemporanei.

ALESSANDRO D’AVENIA – UN LIBRO ‘RICOLMO DI STELLE’
“L’arte di essere fragili”– Mondadori 2016.

Cari amici poeti …
all’inizio pensavo di dover leggere un romanzo e invece stavo leggendo una fiaba che, per quanto menzognera, scorreva leggera come impastata di quell'amorevolezza verso l'incredulità che ognuno si porta dentro. In realtà era poesia vestita da fiaba quella che stavo leggendo e di quella più pura, quasi che, a un certo punto, mi sono convinto che qualcuno mi stesse dicendo che le stelle nascono sugli alberi e che, al contrario delle foglie, anziché cadere all’ingiù, salgono verso cielo per perdersi nell’universo infinto, e vi ho creduto. Più avanti ho però mutato opinione, quello che avevo tra le mani non era il frutto di una favola menzognera al pari di un oroscopo, come quello che si va a cercare aulle pagine del quotidiano, era davvero un libro di poesia ricolmo di stelle, delle stelle dei poeti, quelle che invitano a sognare, che elargiscono la speranza, che inebriano e si lasciano afferrare, ma solo se si è capaci di apprendere ‘..l’arte di essere fragili’.
Ecco detto il titolo del libro che non avrei voluto svelare perché preso dalla gelosia morbosa di tenerlo per me, a tenermi compagnia sul comodino o meglio, sotto il cuscino, per poter dare adito a quei sogni di ragazzo che verosimilmente sono stati dell’autore così come i miei e immagino anche di qualcuno di voi. Sì, ‘L’arte di essere fragili’ di Alessandro d’Avenia non è un romanzo, ma neppure un libro qualunque, ci si può innamorare nel leggerlo così come si è sempre innamorati della ‘bellezza’. Finanche nella sua sfuggevole accezione, quando cioè la bellezza trova il suo equivalente nella ‘fragilità’ di ciò che non si può afferrare, che solo è lasciata all’incanto dell’osservatore attento, che la esalta e la celebra su tutte le cose: come il pittore fa con la natura, l’uomo con la donna, quando il sentimento sublima l’amore.
Dopo ‘I libri ti cambiano la vita’ di Romano Montroni (vedi recensione su questo stesso sito) e ‘Le voci dei libri’ di Ezio Raimondi (citato nel testo), che hanno segnato momenti di piacevolezza dove tutto avviene per una sorta di simbiosi, data dalla necessità interiore di interloquire che ci fa stendere la mano verso il libro e le parole ‘scritte’ che in quel momento più necessitiamo, ècco arriva d’Avenia a farci dono di un ‘salvavita’ che molti non stenteranno a riconoscere come il più bel libro mai letto prima. Insieme a tanti altri ovviamente, ma in senso assoluto quello che più asseconda la necessità attuale di riconciliazione con gli altri, col mondo in cui viviamo, con la bellezza della natura che ci circonda e, non in ultimo, con noi stessi.
Quei ‘noi’ che forse non conosciamo fino in fondo o che volutamente disconosciamo per scelta, per ansietà o per disamore di quelle cose che pure abbiamo amate, alle quali senza ragione non prestiamo più alcuna attenzione.
Paul Celan afferma essere “..l’attenzione, la preghiera spontanea dell’anima”, che come in “Francesco (d’Assisi), trae il suo canto dal dolore.” E che d’Avenia giustamente attesta all’immenso Giacomo Leopardi, a quella sua breve vita costellata di stelle, fissate per un così breve scorcio di tempo dentro il cielo oscuro delle sue pene, eppure ‘luminosissimo’ che ha traslato nelle sue opere. Non c’è in questo trattato poetico nulla che sappia di vecchia morale, di nebbiosa credulità, di ingiusta etica, nulla che nel bene e nel male delle faccende umane sappia di stantio, tutto è qui riportato al giorno d’oggi. Così le storie che vi sono riportate, le impressioni che danno lustro alla nostra modernità obsoleta, le esperienze maturate sul campo dal giovane prof d’Avenia calatosi nel raffronto agevole con il poeta, sono tali da riuscire a formulare un epistolario impossibile eppure verosimilmente attestabile ai nostri giorni.
È il caso di questo passaggio dedicato all’insegnamento: «L’uomo superficiale; l’uomo che non sa mettere la sua mente nello stato in cui era quella dell’autore (..) intende materialmente quello che legge, ma non vede (..) il campo che l’autore scopriva, non conosce i rapporti e i legami delle cose ch’egli vedeva.» (Leopardi: Zibaldone 1820) Scrive d’Avenia: «Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra, e ciò che la rallegra è la scoperta dei legami che uniscono cose e persone, che rendono viva la vita. Cogliere quei legami, e ripararli è la felicità del cuore e della mente.» Ed è forse questo il breve lucido resoconto che scaturisce da un dialogo siffatto in cui il termine ‘raffronto’, produce tuttavia una sorta di seduzione che modella l’incanto della lettura, lo scherzo intelligente di esistere e di nascondersi a noi cercatori d’oppio letterario che stanchi, lasciamo talvolta al caso di offrirci le sue leccornie poetico-filosofiche.
Che sia il caso o l’attrazione di una così ‘idilliaca’ quanto delicata copertina, ma ancor più il titolo ‘l’arte di essere fragili’ a suggerirne la lettura? Forse l’una e l’altra delle cose, per quanto è l’aver scoperto che le ‘cose’ davvero «..tornano a reclamare i loro diritti, la loro tenerezza, la loro impurità, la loro ombra luminosa, la loro fragilità. Le cose e le persone, i loro volti, tornano a invocare la nostra misericordia: custoditeci e riparateci, nonostante tutto.(..) Così è la poesia, ci costringe ad abbassare la luce artificiale e tornare a vedere il mondo, mutilato e fragile, ridotto così dalla nostra indifferenza. (..) Se le stelle riuscissero ancora a colpire i nostri occhi, non solo una volta all’anno quando cadono, credo che avremmo più possibilità di costruire la nostra casa su fondamenta celesti, quelle della nostra unicità.» (d’Avenia).

Un libro quindi che consiglio di leggere per la sua ricercatezza e nascosta seduzione; che riapre una discussione sempre in corso e mai conclusa, sulla lettura e sui lettori, nel momento in cui i mezzi, gli scrittori, gli editori, stanno cambiando con il cambiare della società e dei suoi interessi; nel momento in cui la ‘lingua’ sta perdendo e acquisendo connotati talvolta controversi, o quando ormai sembra non si parli d’altro che delle solite cose obsolete, ma che forse torna utile per contrastare la ‘stupidità’ di certi programmi televisivi, improbabili quanto inutili. All'occorrenza trovo molto interessante l’enunciato di Ginevra Bompiani che in “Vari” ipotizza sui libri quanto segue: “Se i libri non ti cambiano la vita, certo la fanno. (..) Direi piuttosto che i libri ti costruiscono la vita, la ondeggiano, la sprofondano e poi la sollevano, come un sentiero in cresta fra le colline. (..) Non c’è difesa da loro, non c’è protezione. L’emozione e la cattura sono totali. (..) L’emozione non ha sempre a che fare con la qualità, piuttosto con la forza. Quando si invecchia, si scopre che l’emozione è una forma di malattia. Non sempre si guarisce, ma quando la malattia si spegne, si rimane svuotati, come in una mattina di ottobre, tersa, pungente, senza veli di nebbia, persi in un orizzonte che non ha segreti”.
Ed è questa malattia che spesso diventa ‘magia’ capace di stravolgere la vita con le parole. Una ‘magia’ che incanta e che lascia spazio ai sogni, alle illusioni, al canto lirico e alla poesia, quando ottimisticamente “credevamo altresì di trovarci all’alba di qualcosa di nuovo”, quel qualcosa che Enrico Brizzi nel parlarci de “Il giovane Holden” di Salinger, ci ha condotti per mano nella sensazione d’incredulità irreligiosità e diffidenza che ci attraversa tutti. E chi meglio di Giacomo Leopardi che non ha avuto il tempo di invecchiare, ha potuto investigare nei sentimenti umani la fragile essenza dell’essere? – si chiede l’autore d’Avenia – Chi ha dato a questa nostra epoca, la dimensione di come davvero "la poesia può salvarci la vita”? «Forse se il nostro lettore, Giacomo, stanotte spegnesse tutte le luci e guardasse il cielo in silenzio, saprebbe che la bellezza e la gratitudine ci salvano dallo smarrimento dovuto alla nostra carenza di destino e destinazione.
Forse se in quel buio luminoso avesse accanto o nel cuore qualcuno, ne scorgerebbe meglio la seducente fragilità, un infinito ferito che chiede cura e riparazione, e capirebbe di esser ‘poeta’, cioè chiamato a fare qualcosa di bello al mondo, costi quel che costi. Forse allora saprebbe che solo uno è il metodo della faticosa ed entusiasmante arte di dare compimento a se stessi e alle cose fragili, per salvarle dalla morte: l’amore. Questo è il segreto per rinascere … questa è l’arte di essere fragili.» Per poi aggiungere in poscritto quanto segue: «I libri, scelti bene, caro Giacomo, possono salvare la vita, soprattutto quella fragile, facendole cogliere il frutto del futuro che si porta dentro. (..) Viviamo in un’epoca in cui si è titolati a vivere solo se perfetti. Ogni insufficienza, ogni debolezza, ogni fragilità sembra bandita. Ma c’è un altro modo per mettersi in salvo, ed è costruire, come te, Giacomo, un’altra terra, fecondissima, la terra di coloro che sanno essere fragili.»

L'autore: Alessandro d’Avenia, dottore di ricerca in Lettere classiche, vanno ricordati ‘Bianca come il latte, rossa come il sangue’ (Mondadori 2010) dal quale è stato tratto nel 2013 l’omonimo film; ‘Cose che nessuno sa (2011); ‘Ciò che inferno non è’ (2014) con il quale ha vinto il premio speciale del presidente al premio Mondello 2015. Da questo libro l’autore ha tratto un racconto teatrale che porterà in giro per l’Italia.
Grazie Alessandro.

ALTRO

MASSIMO CERULO – “SOCIOLOGIA DELLE EMOZIONI” : Autori, teorie, concetti - il Mulino 2018

Questo innovativo manuale introduce alla sociologia delle emozioni attraverso una puntuale disamina degli autori, delle teorie e dei concetti che definiscono il campo della disciplina. Partendo dai testi dei pensatori classici per giungere ai contributi più recenti, gli stati emotivi si configurano come una preziosa lente di ingrandimento per analizzare le interazioni fra gli individui e le tipologie di agire che prendono forma nelle dinamiche sociali.

Indice:
Introduzione.
- Parte prima. la sociologia classica. - I. I padri fondatori. - II. Gli innovatori. - III Gli autori «di passaggio».
- Parte Seconda. La Sociologia Contemporanea. - IV. L’ufficializzazione della disciplina. - V. I concetti chiave I. - VI. I concetti chiave II. - VII. Il dibattito in corso. - Riferimenti bibliografici. - Indice analitico.
Massimo Cerulo insegna Sociologia e Sociologia delle emozioni nel Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Perugia. È chercheur associé presso il laboratorio CERLIS alla Sorbona - Paris V. Tra i suoi libri: «Il sentire controverso. Introduzione alla sociologia delle emozioni» (Carocci, 2010), «La società delle emozioni. Teorie e studi di caso tra politica e sfera pubblica» (Orthotes, 2014) e «Maschere quotidiane. La manifestazione delle emozioni dei giovani contemporanei» (Rubbettino, 2015).

GARETH KNIGHT – “VIAGGIO INIZIATICO NEI MONDI INTERIORI” - Un corso in magia cabalistica cristiana – Spazio Interiore Editore 2018

“Come si è scoperto recentemente, per risolvere un problema non serve tanto saper rispondere a una domanda difficile, ma riuscire a porre la domanda giusta”, avverte cauto Emanuele Mocarelli in chiusura della sua esaustiva prefazione a questo libro appena tradotto in italiano e che ci ha colti tutti di sorpresa, studiosi e intenditori, ricercatori e semplici appassionati di esoterismo, che a loro volta disquisiscono di accadimenti rimandanti all'inconscio, di apparizioni e di miracoli, di immagini oniriche e quant’altro, talvolta ponendosi domande, talaltre dandosi risposte che spesso scaturiscono in ulteriori interrogativi cui necessita dare risposte adeguate.
Ciò per quanto l’argomento esoterico, che pure ha una sua consistente letteratura volutamente tenuta sottobanco, a lungo andare è naufragato nello sconvolgimento dell’informazione primaria che, originariamente si poneva quale domanda di un problema di difficile soluzione, e che, tuttavia, riusciva sempre (o quasi) a trovare una spiegazione ‘altra’, più o meno inerente alla tipologia di vita che l’individuo e/o la comunità sviluppava all’interno del propria realtà domestica e/o della società di appartenenza che altresì, proprio nell’essergli familiare, trovava nella natura circostante in risposta a una domanda di realistica necessità.
Lasciato questo approccio per così dire ‘intuitivo-naturalistico’, il problema di porre la domanda ‘giusta’ rimane irrisolto in ragione del fatto che non governiamo più la nostra esistenza bensì, ci sottoponiamo a quelle che sono le esigenze di mercato e le intransigenze dell’attività speculativa che la società odierna richiede, finendo per soggiacere a stili di vita sempre più effimeri che non soddisfano nessuna delle nostre reali esigenze, o almeno quelle che dovrebbero essere considerate primarie, cioè relative alla scansione del tempo del lavoro, del riposo, della ricreazione spirituale, ecc. mettendo a repentaglio la stessa nostra sopravvivenza. Non c’è più il ‘tempo’ per apprendere dalla natura tutto ciò che ancora ha da insegnarci in fatto di conservazione e sussistenza, in quanto tutto avviene ormai al chiuso di laboratori scientifico-tecnologici in autonomia. Allo stesso modo che non troviamo il ‘tempo’ da dedicare alle cose dello spirito, divenuto terreno arido spazzato dal vento della contemporaneità, in cui tutto accade nel momento stesso del suo accadimento, che se da una parte ci sorprende, dall’altra ci spaventa non poco, perché a detta di Zigmunt Bauman, si trasforma in ‘Paura liquida’ tutto quanto ci sconcerta, da un verso e l’altro delle nostre buone o cattive intenzioni. Allora la domanda ‘dove trovare riparo?’, se non addirittura ‘come proteggerci?’ è in ogni modo sbagliata.
Non una quindi ma due preminenti domande cui è difficile rispondere, tuttavia riuscire a formulare la domanda giusta significa anche dare (non solo cercare) risposta a un’obiettiva esigenza che oggi diremmo ‘virtuale’, cioè coinvolgente entrambe le nostre capacità intellettive razionali e irrazionali, compenetrando il nostro ‘inconscio istintivo’ e il nostro ’inconscio somatico’, nei termini congruenti di un’esplicita equazione con quelli adoperati dal grande psichiatra svizzero C. G. Jung; il quale in ‘Psicologia e alchimia’ aggiunge: “..ogni vita non vissuta rappresenta un potere distruttore e irresistibile che opera in modo silenzioso e spietato”. Che sia questa l’irresistibile domanda cui non sappiamo dare una risposta plausibile? È dunque questo il ‘quid’ su cui ci si barcamena lungo la nostra esistenza spirituale? Conosciamo una eticità che possa aiutarci a discernere le ragioni del nostro ‘presente anteriore infinito’ dal nostro ‘presente finito’ che si prospetta senza futuro? Se capire i linguaggi interiori, imperfetti e capaci al tempo stesso di realizzare quella suprema incompiutezza che ci differenzia l’uno dall’altro, o meglio, che diversifica il nostro impatto irrazionale del passato con la nostra ‘spiritualità’ negando ogni possibile verbalizzazione razionale con la ‘materialità’ del nostro presente, questa a mio avviso rappresenta l’unica conclusione di ogni ricerca; allora inseguire l’idea di una possibile ‘perfezione’ che pure ha contrassegnato fin qui il cammino della nostra inspiegabile esistenza, è stata erronea, cioè frutto di un’utopia mai raggiunta e che mai raggiungeremo. Forse sì, forse no?
Ovviamente non è tutto qui, la magia cabalistica cristiana prospettata nel titolo è in sé rappresentativa di quella “branca della scienza fisica che studia le forze e le forme occulte immediatamente evidenti alla nostra percezione fisica, […] per quanto il fatto che non si riconosca l’esistenza di tali forze sia irrilevante, non significa che esse non esistano, […] solo che non sono così facilmente dimostrabili come quelle della scienza fisica. […] La confusione che insorge su questo punto è dovuta soprattutto alla mancata distinzione tra ‘mistica’ e ‘magia’, ovvero tra ciò che appartiene allo spirito elevato e ciò che appartiene alla dimensione interiore del creato.
Per indagare meglio questa ‘incoerenza’ si potrebbe prendere come riferimento la distinzione che ne fa lo stesso Jung: “Ciò che però continua a rimanere oscuro, proprio per questo miscuglio di fisico e psichico, è se le trasformazioni ultime di questo processo (alchimistico) vadano ricercate maggiormente in campo materiale o in campo spirituale? La domanda in effetti è mal posta: a quei tempi non si trattava di alternativa; esisteva piuttosto un regno intermedio tra materia e spirito: cioè un regno psichico di corpi sottili aventi la proprietà di manifestarsi in forma sia spirituale che materiale.” E in prosieguo: “Naturalmente questo regno intermedio di corpi sottili in sé e per sé, prescindendo da qualsiasi proiezione, rimane nell’ambito della non-esistenza finché noi crediamo di sapere qualcosa di definitivo sulla materia e sull’anima. Ma se viene il momento in cui la fisica sfiora ‘regioni inesplorate, inesplorabili’, e contemporaneamente la psicologia è costretta ad ammettere che esistono altre forme d’esistenza psichica al di fuori delle acquisizioni personali della coscienza, in cui cioè anche la psicologia cozza contro un’oscurità impenetrabile, allora quel regno intermedio ritorna in vita, e il fisico e lo psichico si fondono una volta di più in un’unità indivisibile”.
Ciò sebbene oggi sappiamo che l’indivisibile non esiste, che tutto è frammentabile dal momento che ogni cosa è formata da miliardi di infinitesime particelle che siamo riusciti a scorporare, a suddividere ed elencare, in breve a ‘quantificare’ e a rendere visibili nella loro essenza sia materiale che immateriale. Al dunque sorge una ulteriore domanda sulla materia e sull’anima: dove avviene l’innesto dello ‘spirito elevato’ con la dimensione ‘dello spirito interiore’? In quale campo della quantistica tutto ciò si consuma? Seppure qualcosa ancora sfugga della nostra conoscenza occulta, ‘inesplorabile’, quanto è possibile dire di definitivo su ‘misticismo’ e ‘occultismo’?
A tal proposito l’autore scrive: “La struttura psichica interna a ogni corpo celeste riflette il modello archetipico dell’universo. All’interno della sfera eterica del pianeta una coscienza individuale non consapevole della divinità dal proprio punto di vista soggettivo potrebbe benissimo identificare Dio con la totalità delle cose che percepisce, supponendo inoltre che al di là della realtà di cui è consapevole esista il caos informe o il mondo ‘immanifesto”. […] Per l’uomo Dio è totalmente inimmaginabile, proprio come per un pensiero è impossibile immaginare la persona nella cui mente esso si trova”.

Molte sono le risposte prospettate da Gareth Knight in questo suo ‘viaggio iniziatico’ che non s’arresta davanti ad alcuna ‘soglia’, ottemperando in pieno a quanto premesso introducendo il lettore nel labirinto contemporaneo nei ‘luoghi del silenzio imparziale’, muovendosi liberamente sulla superficie dello spazio, aggrovigliandosi talvolta entro le pulsioni dello spirito, contrastanti e continue, come solo un Maestro (dell’occulto) riesce a fare, schiudendo l’esistenza a mille esiti imprevedibili, fuori dalle direzioni previste e/o prevedibili, lungo sentieri non praticabili da certezze anticipate o da progetti rassicuranti. Ciò che gli è possibile servendosi del fattore ‘tempo’ per misurare il ‘non-tempo’ della sua narrazione forbita di citazioni e rimandi a numerosi testi (spesso introvabili) di riferimento; la cui distanza presiede ogni scambio interlocutorio tra l’autore e il lettore, senza la possibilità del riconoscimento della memoria, nella disseminazione di bivii e incroci intercambiabili, avvitandosi sul proprio perno senza sosta e senza commuoversi davanti alla catastrofi silenziose prodotte dal suo movimento delimitato dai termini della ‘vita’ e della ‘morte’ in cui l’esistenza è disseminata dentro l’interstizio che corre tra le due diverse circostanze temporali.
Come se la ‘vita’, per lo più fondata sul sentimento e/o sull’emotività individuale che sfiora la tragedia subliminale di una solitudine pervadente e assidua rigidamente fissata dal segno cabalistico dell’ ‘infinito’, che non conosce altra direzione se non quella prefissata dal ‘fato’ (destino?), o da un Dio ineluttabile che, prescindendo dalla creazione, ha posto la sua creatura lungo sentieri mistici e/o occulti che lo portano ad errare, non riuscendo egli a produrre risposte all’arrovellata investigazione sulla sua esistenza, in cui la verità e la conoscenza non hanno approdo se non nell’astrattezza di un percorso senza fine, per l’appunto ‘infinito’. […] Non credete che bisognerebbe aggiungere che la vita eterna non è semplicemente una vita che continua all’infinito, ma una vita che possiede la particolare qualità di essere al di fuori dello spazio e del tempo? Forse sì, forse no.
Ma, poichè viaggiare è anche un modo per conoscere se stessi, i progressi in questo campo sono altresì coadiuvati dalla proposta e/o invito di Gareth Knight, a dare seguito a un ‘corso di magia’ che egli ha incluso in ‘indice’ di questo libro afferente all’occultismo come scienza pratica da utilizzare per neofiti e principianti in chiusura dei singoli capitoli con ‘esercizi spirituali’ ed altri di chiaro riferimento ‘mistico-magico’ e un’ampia visualizzazione grafica dei simboli cabalistici onde proseguire il viaggio iniziatico prospettato : “L’immaginazione non è semplicemente uno strumento della fantasia, ma un organo con cui si percepiscono cose reali”. Interessante è l’apparato storico-cronologico delle citazioni che vanno dal ‘Corpus hermeticum’, al ‘Picatrix’, alla ‘Magia naturale e talismanica di Marsilio Ficino’, gli ‘Inni orfici e Thomas Taylor’; da ‘Dante Alighieri’ a ‘Pico della Mirandola e la magia cabalistica’, alle ‘Gerarchie angeliche e celesti’, da ‘Cornelius Agrippa alla Filosofia magica e religione di John Dee, Giordano Bruno e Tommaso Campanella, fino a ‘L’universo modello dei Rosacroce, Athanasius Kiecher e Robert Fldd, alla separazione tra scienza e magia. Infine, ma non ultimo è il percorso e il lavoro di consultazione occulta, coadiuvata da esperienze di magia teatrale, esercizi magici, sviluppo di alcuni rituali fino allo sviluppo della preghiera di invocazione.

“Qui non stiamo parlando di cavilli accademici, teologici o filosofici; infatti, credere una cosa o l’altra ha delle conseguenze molto profonde e rilevanti. Per costruire un edificio teologico o filosofico dobbiamo conoscere molto bene il terreno su cui verrà fondato.” Pertanto l’esigenza di un testo elaborato su questa materia così esposto rientra in quel ‘vuoto editoriale’ creatosi dopo che l’esercizio intellettuale, manualistico e informativo è, in un certo qual modo, scemato a livello di curiosità per addetti ai lavori, e/o speculativa per generazioni di ginnasti mentali per sviluppare l’intuito, a patto che non si prendano troppo sul serio i suoi contenuti. Di realtiva importanza letteraria (alfine di non dover sembrare tendenziosa) risulta quanto afferma Gareth Knight in chiusura del libro: “Ho scritto questo libro con lo scopo di presentare un sistema di insegnamenti e di pratiche dell’occulto che affondano le radici nel contesto della tradizione e della fede cristiana. È davvero un peccato, a mio modo di vedere, che la magia in quanto arte e scienza sia separata dal pensiero scientifico e dalla religione ufficiale. La magia è stata così privata di una certa impostazione razionale e disciplinata, la scienza è diventata senz’anima e la religione ha perso molta della propria vitalità. Spero che questo libro possa servire agli apprendisti di occultismo per recuperare le fila di una tradizione vitale che è parte integrante della nostra eredità spirituale e culturale”.

L’autore:
Gareth Knight è un esoterista britannico, annoverato fra i più profondi conoscitori della tradizione esoterica occidentale e della Kabbalah, e autore di decine di libri su svariati argomenti, tra cui ‘Tarocchi’, ‘Kabbalah magia e occultismo’ con i quali conduce gli appassionati di occultismo a riappropriarsi di una tradizione vitale che è parte integrante dell’eredità spirituale e culturale dell’uomo occidentale. Nel 1954 entrò a far partedella Fraternità della Luce Interiore, organizzazione esoterica fondata da Dion Fortune nel 1924, per poi fondare un suo gruppo di ricerca ora conosciuto come Avalon Group. Ha trascorso tutta la sua vita riscoprendo e insegnando i principi della magia come disciplina spirituale e metodo di autorealizzazione. Delle sue innumerevoli opere è stato tradotto in italiano anche un altro libro importante dal titolo ‘Tarocchi e Magia’ – Spazio Interiore 2017.


IN RICORDO DI STEFANO RODOTÀ.
Tutti gli articoli rintracciabili sulla rivista on-line larecherche.it

“IL MONDO NELLA RETE” - Quali i diritti, quali i vincoli.
Articolo di Giorgio Mancinelli - Argomento: Informatica
Editori Laterza 2012

“IL DIRITTO DI AVERE DIRITTI”
Articolo di Giorgio Mancinelli - Argomento: Economia – Editori Laterza 2012

“INTERVISTA SU PRIVACY E LIBERTÀ” – Stefano Rodotà e Paolo Conti – Recensione di Giorgio Mancinelli - Editori Laterza 2013
“ELOGIO DEL MORALISMO” – Editori Laterza 2012

“L’obbligo di verità da parte delle istituzioni diviene diritto d’informazione sul versante dei cittadini”.
“Non un sussulto moralistico ma l’affidabilità stessa del politico rende inammissibile la menzogna”...

...Scrive Stefano Rodotà in questo breve e concentrato ‘elogio’ della moralità rivolto ai fatti più recenti della politica italiana e il quadro che se ne evince non è certo dei più illuminati della nostra storia patria. Tuttavia, “nessun discorso nostalgico, ma la presa d’atto dell’accantonamento colpevole di un tema politico centrale (la mancanza di moralità), causa non ultima della crisi di cui siamo (noi tutti) vittime” e aggiungerei ‘carnefici’. Quasi fossimo tutti quanti superstiti di una carneficina autolesionista che ci siamo inflitti masochisticamente. Ed è così. “Rifiutata, appunto, come manifestazione di fastidioso moralismo, l’aborrita «questione morale» si è via via rivelata come la vera, ineludibile «questione politica»” da tutti noi accettata e sostenuta coi nostri voti. “Ma questa spiegazione (per così dire) antropologica non è convincente, anzi rischia di offrire una giustificazione e una legittimazione ulteriore a chi vuole sottrarsi agli imperativi della legalità e della moralità pubblica” cui siamo chiamati, tutti indistintamente, a incominciare dai politici che abbiamo visti derubricare l’imperativo della ‘moralità’ a sostegno di situazioni materiali indecenti (leggi disoneste), e prendere le difese di posizioni immorali indifendibili.
“Di che cosa sia il moralismo si può certo discutere – scrive Rodotà – ma la critica non può trasformarsi in pretesto per espellere dal discorso pubblico ogni barlume di etica civile. L’intransigenza morale può non piacere, ma la sua ripulsa non può divenire la via che conduce a girare la testa di fronte a fatti di corruzione pubblica, derubricandoli a ininfluenti vizi privati, annegandoli nel «così fan tutti» (e tutte, non tanto per tornare alla corretta citazione mozartiana, ma per alludere a recentissimi costumi). La caduta dell’etica pubblica, indiscutibile, è divenuta così un potente incentivo al diffondersi dell’illegalità, ad una sua legittimazione, sociale”. Far decadere o archiviare una sentenza (per colpa o innocenza che sia) della Magistratura significa delegittimare uno Stato di Diritto a favore della barbarie istituzionale, la ratifica dell’illegalità, a scapito dell’autorità giudiziaria e l’imparzialità della giustizia.
L’esigenza di razionalità come criterio per discernere la qualità metodologica di un comportamento morale, corrisponde a una presa di coscienza formativa che ha come oggetto la ‘responsabilità morale’ che, non andrebbe mai messa in discussione, come invece spesso avviene, in ambito politico. Poiché attinente alla dignità della persona, infatti, essa rientra in quella condizione, per cui ci si sente in dovere di rendere conto di atti, avvenimenti e situazioni in cui si ha una parte, un ruolo determinante: si dice, infatti: “assumersi le proprie responsabilità; fare qualcosa sotto la propria responsabilità; incarico, mansione di cui si è responsabili; così come assumere un impegno, o obblighi che derivano dalla posizione che si occupa, compiti, e incarichi che si sono assunti, ecc. per cui un soggetto giuridico è tenuto a rispondere della violazione amministrativa, civile, penale, da cui si forma spesso un giudizio”.

Addio Professore!


OMAGGIO A SEBASTIANO VASSALLI
Nuovo libro “I racconti del Mattino” edito da Interlinea 2017, curato e introdotto da Salvatore Violante.

Dello scrittore scomparso nel 2015 emergono dalle pagine del Mattino, il quotidiano di Napoli, una serie di racconti pubblicati dall’82 all’85 grazie alle amicizie partenopee dell’autore della Chimera nate al tempo della neoavanguardia e del Gruppo 63. Vassalli mette in scena storie in cui si sente il profumo del Sessantotto, con il 18 politico e il dibattito sul nozionismo di quella stagione, la violenza che accompagna la passione cieca del tifoso di calcio, la superstizione bonaria, lo stile della politica italiana. L’ironia pervade le brevi narrazioni che compongono un primo mosaico di quel carattere degli italiani che l’autore ha rappresentato nei suoi romanzi in cui «l’Italia non è soltanto un Paese vecchio e sostanzialmente immobile: è anche due Paesi in uno. C’è il Paese Legale, sotto gli occhi di tutti, e c’è il Paese Sommerso, che tutti più o meno fanno finta di non vedere». Questi testi lo raccontano.
L’investigazione letteraria delle radici e dei segni di un passato che illumini l’inquietudine del presente e ricostruisca il carattere nazionale degli italiani approda al Seicento con ‘La chimera’, un successo editoriale del 1990 (premio Strega), poi al Settecento di ‘Marco e Mattio’, uscito l’anno dopo, quindi all’Ottocento e agli inizi del Novecento con ‘Il Cigno’ nel 1993.
Dopo la parentesi quasi fantascientifica, inquietante e satirica, di 3012 e il viaggio al tempo di Virgilio e Augusto di ‘Un infinito numero’, ricrea in ‘Cuore di pietra’ un’epopea della storia democratica dell’unità d’Italia simbolizzata da un grande edificio di Novara, Casa Bossi dell’architetto Antonelli. Nei libri a cavallo del Duemila lo scrittore si avvicina al presente riscoprendo anche il genere del racconto, soprattutto con ‘La morte di Marx e altri racconti’ del 2006 e ‘L’italiano’ dell’anno successivo, prima del ritorno al romanzo fondato sulla storia: la prima guerra mondiale in ‘Le due chiese’, del 2010, e gli antichi Romani in ‘Terre selvagge’, che segna nel 2014 il passaggio dall’editore di quasi cinquant’anni di libri, Einaudi, a Rizzoli, dove appare nello stesso anno una nuova edizione di ‘Chimera’.

Con Interlinea Vassalli pubblica ‘Il mio Piemonte’, la raccolta illustrata’ Terra d’acque’ e, tra gli altri titoli (oltre a ‘Natale a Marradi’ e ‘Il robot di Natale’ nella collana Nativitas), l’autobiografia Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo (con Giovanni Tesio in forma di intervista con documenti e immagini) e ‘Maestri e no’. Dodici incontri tra vita e letteratura. Tra gli studi sullo scrittore novarese si segnala il recente numero di Microprovincia 49 (2011) La parola e le storie in Sebastiano Vassalli, oltre a 'La chimera'. Storia e fortuna del romanzo di Sebastiano Vassalli, a cura di Roberto Cicala e Giovanni Tesio (Interlinea, Novara 2003). Una curiosità: allo scrittore è dedicata la prima guida italiana di itinerari letterari cicloturistici: Nella pianura delle storie di Sebastiano Vassalli, in italiano e inglese (Interlinea-ATL, Novara 2013).
Vassalli pubblica interventi militanti su quotidiani: dopo la collaborazione a La Repubblica e La Stampa, è opinionista del Corriere della Sera (i suoi Improvvisi. 1998-2015 sono raccolti dalla Fondazione Corriere della Sera nel 2016). Muore nel luglio 2015 e nello stesso anno esce postumo da Rizzoli ‘ Io, Partenope’.

OMAGGIO A ERMANNO REA
“La parola del padre” - Manni Editore 2017

Napoli L'Inquisitore accusa Caravaggio: di non ubbidire a Santa romana Chiesa, di essere un ribelle, un seguace dell'eretico Giordano Bruno, di dipingere prostitute, ubriaconi e tavernieri nella convinzione che Dio va cercato proprio lì. È un monologo in cui le parole e le espressioni del pittore si raccontano attraverso gli occhi e la voce dell'Inquisitore. Il quale è un uomo a un passo dalla morte: più volte durante il suo discorso gli mancano le forze, ed è sfiorato dai dubbi di chi sta facendo i conti con la fine e non può certo mentire a se stesso, ed è quasi tentato di riconoscere le ragioni di Caravaggio, di cedere all'ammirazione che nutre per lui. Ma sono solo istanti, perché il suo dovere è richiamare all'obbedienza, all'obbedienza dell'Autorità, all'obbedienza del Padre: il padre che è Dio, il padre che è il Papa, il padre che è il Cesare, il padre che è il genitore.
È questo un viaggio attraverso i quadri di Caravaggio, uomo libero, è l'arringa di un potere ottuso, che si immagina nel Cinquecento ma in realtà ci parla del potere di oggi. Sinossi. Si racconta della vostra passione, di anno in anno sempre più incontenibile, per uomini e donne di basso rango; della vostra smania di riprodurre sulla tela bari, indovine, musici, ubriaconi, tavernieri; del vostro concepire la pittura quasi come cronaca o specchio di quella vita degradata che alligna ai margini di tutte le città – ma soprattutto oggi qui a Roma, diventata la capitale di ogni genere di malaffare – nella convinzione che è là che Dio va cercato.
Per voi insomma è la carne il luogo di residenza di ogni verità. E questa, prima ancora che una bestemmia, è un’eresia. L'Inquisitore accusa Caravaggio: di non ubbidire a Santa romana Chiesa, di essere un ribelle, un seguace dell'eretico Giordano Bruno, di dipingere prostitute, ubriaconi e tavernieri nella convinzione che Dio va cercato proprio lì. È un monologo in cui le parole e le espressioni del pittore si raccontano attraverso gli occhi e la voce dell'Inquisitore. Il quale è un uomo a un passo dalla morte: più volte durante il suo discorso gli mancano le forze, ed è sfiorato dai dubbi di chi sta facendo i conti con la fine e non può certo mentire a se stesso, ed è quasi tentato di riconoscere le ragioni di Caravaggio, di cedere all'ammirazione che nutre per lui.
Un documento carico di tensione civile, una riflessione sull'autorità, sulla ragione critica e la difficoltà di esercitarla, è un viaggio attraverso i quadri di Caravaggio, uomo libero, è l'arringa di un potere ottuso, che si immagina nel Cinquecento ma in realtà ci parla del potere di oggi. “Io stesso mi facevo personaggio dell'intreccio”, scriveva Ermanno Rea. E raramente è stato così vero: in 'La parola del padre' il comunista critico, il fotografo che è arrivato alla grande letteratura partendo dalla durezza del giornalismo d'inchiesta, si fa Caravaggio che passa dalla aspra e vile realtà, e si fa Inquisitore che vive di dubbi e riconosce la stoltezza delle certezze incrollabili.

ALBERTO ROLLO – “UN’EDUCAZIONE MILANESE: Il romanzo di una città e di una generazione” – Manni Editori 2016.

“Cerco ponti in cui lo spaesamento e il sentirmi a casa coincidano. E su quei ponti finiscono con l’apparire, teneri e meridiani, i fantasmi che mi riconducono là dove io sono cominciato e dove è cominciata, per me, questa città.”

Questa è una ricognizione autobiografica ed è il racconto della città che l’ha ispirata. Si entra nella storia dagli anni Cinquanta: l’infanzia nei nuovi quartieri periferici, con le paterne “lezioni di cultura operaia”, le materne divagazioni sulla magia del lavoro sartoriale, la famiglia comunista e quella cattolica, le ascendenze lombarde e quelle leccesi, le gite in tram, le gite in moto, la morte di John F. Kennedy e quella di papa Giovanni, Rocco e i suoi fratelli, l’oratorio, il cinema, i giochi, le amicizie adolescenziali e i primi amori fra scali merci e recinti incustoditi. E si procede con lo scatto della giovinezza, accanto l’amico maestro di vita e di visioni, sullo sfondo le grandi lotte operaie, la vitalità dei gruppi extraparlamentari, il sognante melting pot sociale di una generazione che voleva “occhi diversi”. A questa formazione si mescola la percezione dell’oggi, il prosciugamento della città industriale, i progetti urbanistici per una Grande Milano, le trasformazioni dello skyline, il trionfo della capitale della moda e degli archistar. Un romanzo autobiografico magistralmente scritto, lo sguardo teso della visione: la storia di una città, di una generazione.

L’autore:
Alberto Rollo è nato a Milano. Dal 2005 è Direttore letterario della casa editrice Feltrinelli, dove lavora da oltre vent'anni. Nei decenni Ottanta e Novanta ha firmato recensioni di libri, teatro e cinema per vari quotidiani nazionali, e saggi su riviste (“Belfagor”, “Quaderni Piacentini”, “Ombre Rosse”, “Il Maltese”, Tirature); è stato collaboratore di “Linea d’Ombra” e ha tradotto autori inglesi e americani contemporanei, da Jonathan Coe a William Faulkner. Ha scritto per il teatro e ha realizzato documentari per la tv.
Questa è la sua prima opera di narrativa. info@mannieditori.it

OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN. Saggi / recensioni di Giorgio Mancinelli.

"La nostra vita è un'opera d'arte, / che lo sappiamo o no, / che ci piaccia o no. . . . / Che lo vogliamo o no.”

"Zigmunt Bauman ... O la coscienza liquida" - saggio di Giorgio Mancinelli in larecherche.it argomento filosofia / sociologia.

Zigmunt Bauman ... "Paura Liquida" - Saggio / Recensione libro in larecherche.it argomento sociologia.

Zygmunt Bauman è uno dei più noti e influenti pensatori al mondo. A lui si deve la folgorante definizione della «modernità liquida», di cui è uno dei più acuti osservatori. Professore emerito di Sociologia nelle Università di Leeds e Varsavia, ha pubblicato numerose ricerche sull’argomento, fra le quali mi sento in dovere di sottolineare: “Voglia di comunità” (2008); “La società sotto assedio” (2008); “Vita liquida” (2009); “Modernità liquida” (2009); “Intervista sull’identità” a cura di B. Vecchi, (2009).


VIAGGI

FRANCO CARDINI
“LA VIA DELLA SETA” IL VOSTRO PROSSIMO VIAGGIO NELLA LEGGENDA – di Franco Cardini e Alessandro Vanoli - il Mulino 2017. RECENSIONE DI GIORGIO MANCINELLI IN LARECHERCHE.IT

“SAMARCANDA” - Franco Cardini - il Mulino 2016 . RECENSIONE DI GIORGIO MANCINELLI IN LARECHERCHE.IT

“ISTANBUL” - Franco Cardini - il Mulino 2015. RECENSIONE DI GIORGIO MANCINELLI IN LARECHERCHE.IT

Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul, un viaggio attraverso chiese cristiane, alti minareti e grandiose moschee, bazar e labirinti di piccole strade in cui una moltitudine variopinta di turisti spesso s’inoltrano senza neppure conoscere ciò che osservano con tanto clamore, mescolando al mito la narrazione della storia che i luoghi, e non solo quelli adibiti al culto, raccontano di conquiste e distruzioni, di regni caduti e risollevati, di splendori e meraviglie, ma anche di ricchezze e fasti così come di ombre e oscurità improvvise nonché di orrori e miserie umane che nel tempo ne hanno fatto una ‘seduttrice, conquistatrice, sovrana’. L’unica città al mondo che più d’ogni altra sfugge ostinatamente dalla sua cornice ‘metropolitana’ per innalzarsi al di sopra delle sue cupole nel mistero che la contempla, separata dal resto del mondo, come di soglia posta fra Oriente e Occidente a rimarcare un’ultima possibilità di congiungimento.
Quasi una ‘fibbia di civiltà’ che pure contiene le due diverse sponde del vecchio e del nuovo mondo (la Roma Imperiale e la Nuova Roma), non necessariamente in contrasto con la modernità dei tempi, né con il medioevo in cui ciò che rimane del passato debba considerarsi oscuro e polveroso. Il futuro della modernità passa da Istanbul, una città viva in cui ogni pietra, ogni accadimento, parla della storia che sarà, una storia ancora tutta da scrivere in cui il passato si congiunge con il futuro. Una storia che Franco Cardini pone come ‘in prospettiva’ e che un soprassalto di civiltà salverà dall’eterno conflitto con se stessa e con il mondo intero, la cui vera identità è forse da cercare nella conoscenza (mai obsoleta) di ciò che la distingue, all’interno del conflitto religioso che ne contende la supremazia. In quel suo essere stata Bisanzio e poi Costantinopoli e in epoca moderna essere Istanbul la cui ‘storia’ va riletta e reinterpretata secondo il punto di vista degli storici arabo-mussulmani, osservata dalla parte opposta del Bosforo, cioè dalla parte orientale-balcanica, per acquisire veridicità.

Dunque non una qualsiasi guida ma più di una semplice guida, la città di ‘Istanbul’ contenuta in questo libro ‘unico’ rivendica a suo favore un confronto con l’approssimarsi del tempo che la separa da noi occidentali per riprendere a correre nel tempo della realtà, in cui il dibattito delle idee (che ci siamo fatte) su di essa, trovano un loro riordino della costruzione smessa, intrapresa in illo tempore, della Nuova Roma, con quella in atto di Istanbul in quanto nuova città metropolitana condivisa e sostenibile. Innumerevoli quindi i punti di osservazione suggeriti, e quanti aspetti inusitati da quelli proposti al visitatore e dal turista che si voglia chiamare; tuttavia la differenza è quasi totale perché ciò che si propone il visitatore è qualcosa di diverso da ciò che riesce a malapena a cogliere il turista. C’è un mare di cultura di mezzo, la conoscenza in primis, cosicché documentarsi, consultare, aprirsi è quanto suggerisce di fare Franco Cardini con questo ‘libro’ documentatissimo di storia, di aneddoti ricercati, d’arte e di stili, di usi e costumi di popoli a confronto, che in ‘Istanbul’ egli propone come una lunga narrazione mai interrotta:
“Ed eccola Istanbul: caotica e rumorosa eppur fasciata dall’assordante silenzio delle sue pietre e dei suoi secoli; cupa sotto l’abbacinante sole meridiano che obbliga a chiudere gli occhi o a proteggerli dietro spesse lenti color verdi o bruno; iridescente nella coltre di bruma che così spesso la fascia nei crepuscoli; luminosa di millanta luci nelle notti con e senza luna, con e senza le stelle. Inutile illudersi di conquistarla. (..) Istanbul non si conquista, esiste solo un modo per impadronirsene. Lasciarsene impadronire. (..) si fa presto a dire Istanbul. La città è propriamente una e trina, divisa in tre parti: dalle acque del golfo mediterraneo detto Mar di Marmara a sud – Propontis, la «Propontide» (il mare anteriore) -, il vasto e profondo bacino lungo 280 chilometri e largo 80 che attraverso i Dardanelli comunica con il Mar Egeo e che verso nord si biforca insinuandosi a nordest in uno stretto che misura più o meno una trentina di chilometri (Bogaziçi), che separa la costa europea dall’asiatica fino al Mar Nero; dal Corno d’Oro (Haliç), l’ampio fiordo che dal Mar di Marmara e Corno d’Oro, è la vera e propria sede dell’antica Costantinopoli”.
Dacché si comprende come Franco Cardini procede nell’illustrarci un suo (fra i molti possibili) itinerario per visitare la città, spostandosi di conseguenza da una zona all’altra, da una storia all’altra, da una realtà all’altra e raccogliere così quello che si definisce lo ‘spirito del viaggio’ che tutto coinvolge e trasforma: in cui la storia si fa dapprima leggenda per poi entrare nel mito. È allora che la narrazione di Istanbul diventa ‘una città nel mare della storia’; i frangenti dei mari che la bagnano ‘i flutti del tempo contro il molo dell’eternità’; la falce di luna simbolo dell’Islam turco ‘il segreto del crescente lunare’ che rischiara le notti del harem e del Serraglio, con le sue storie ‘romantiche’ e ‘sanguinarie’, tuttavia eccitanti quanto sconvenienti (per la nostra cultura). E inoltre le musiche, le danzatrici di ‘belly dance’, i sultani coi loro ‘padiglioni’ ricoperti di tappeti e cuscini, il tè alla menta, il caffè turco, l’hammam (sauna), le armi dalle impugnature incrostate d’oro e di pietre preziose, i vapori odorosi di essenze pregiate ecc. ecc.
Accompagnati dalla guida esperta di Franco Cardini sostiamo per un istante davanti al Gran Palazzo, in turco il Sarayi (da cui l’italiano Serraglio), cioè il palazzo imperiale d’epoca ottomana: “Si trattava in realtà di un insieme di giardini e padiglioni (..) separato dal resto della città da una cinta muraria esterna, all’interno della quale si situavano – come il visitatore moderno può ancor oggi constatare – spazi ordinati in cortili e giardini disseminati di padiglioni adibiti a vari uffici e servizi. Entriamo quindi nell’immenso complesso che ancora oggi prende il nome dal suo portale fortificato aperto verso la piazza Sultan Ahmet, il ‘Topkapi’, ovvero la «Porta del Cannone», praticabile da parte di sudditi e di stranieri fino ai quartieri riservati ai militari di guardia, ai funzionari di governo, alle donne”. Ben altre sono le porte che si richiamano alle diverse ‘corti’, a cominciare dalla «Grande Porta» (Bab-|Alì), denominata anche «Soglia della Felicità» o «Sublime Porta» destinata a divenire proverbiale:
Mi fermo qui, anche se ho trovato utile (quanto accattivante) da parte dell’autore l’avvisaglia di retro-copertina dedicata al lettore: “Viaggiatori avveduti e turisti intelligenti che mettete in conto di affidarvi, prima di partire, a voluminose guide: nelle mie intenzioni – e nelle mie speranze – l’ideale sarebbe che lasciaste da parte libri, guide e mappe e vi affidaste fiduciosamente a queste pagine. Certo, questa è la «mia» Istanbul. Non pretendo che diventi anche la «vostra»: mi basterebbe che quanto qui leggete vi aiutasse a trovarla”. Ha scritto Iosif Brodskij (citato nel libro): “Ci sono luoghi in cui la storia è inevitabile come un incidente automobilistico – luoghi in cui la geografia provoca la storia”.
Ed è così, qui ogni pagina racconta più d’una storia, una dentro l’altra che s’intersecano a formare un grande quadro d’insieme, finanche poetico che permette al lettore di spostarsi dal reale all’immaginario con la disinvoltura che solo Franco Cardini, per questo unico e quindi raro, ha nel districarsi in certe faccende di per sé complicate, che cedono, arrendendosi, alla sagace penna del narratore per eccellenza che occupa un suo preciso spazio nella nostra letteratura, in quanto storico e saggista, che ha sfruttato al meglio la sua potenza istruttoria negli studi sul Medioevo di cui è indubbiamente il più apprezzato conoscitore di scritti cristiani e arabo-islamici. Inutile qui ripercorrere la sua enciclopedica attività professionale la conoscenza della quale è oggi accessibile su tutti i media, così come citare la sua sterminata bibliografia. Pertanto mi limito a segnalare quelle che sono le sue più recenti pubblicazioni:
“Testimone del tempo. Ritorno a Coblenza”, Rimini, Il Cerchio, 2009 “7 dicembre 374. Ambrogio vescovo di Milano, in I giorni di Milano”, Roma-Bari, Editori Laterza, 2010 “Cristiani perseguitati e persecutori, Roma, Salerno Editrice, 2011 “Il turco a Vienna”, Roma, Laterza, I Robinson. Letture, 2011 “Gerusalemme”, Bologna, Il Mulino, Intersezioni, 2012 “Istanbul”, Bologna, Il Mulino, Intersezioni, 2014 comprende inoltre un’ampia appendice ricca di note, cronologia, carte, glossario, bibliografia e delle bellissime riproduzioni d’arte.

Per il lungo ponte del 1° novembre, due proposte molto differenti tra loro, ma entrambe di grande spessore, realizzate in collaborazione con Viaggi di Cultura de il Mulino.
‘SULLA VIA DELLA SETA . IRAN’ - 27 ottobre - 4 novembre
“Da Ciro il Grande a Khomeini, storia di un grande impero e della sua presenza nel vicino Oriente.

Assistenti culturali: Giovanni Curatola, esperto d'arte e dell'Islam persiano e Vittorio Emanuele Parsi, esperto di Relazioni internazionali”.

Per informazioni: diffusione@mulino.it
Società editrice il Mulino - Strada Maggiore 37 - 40125 Bologna
tel. 051 256011 - fax 051 256041
Giunti al dunque, non mi resta che augurarvi: Buon Viaggio!

LE PAROLE E I LIBRI (recensioni)

GIANRICO CAROFIGLIO – “LA MANOMISSIONE DELLE PAROLE” - Rizzoli 2011, recensione di Giorgio Mancinelli in larecherche.it

Pochi libri hanno la capacità di affabulare il lettore e convincerlo di quello che dicono dalla prima pagina all'ultima, da lasciarlo addirittura senza fiato, per la sua sconvolgente autorevolezza. Spogliato qua e là di qualche marcata presa di posizione che non cambia l'indirizzo etico ed estetico del saggio, il resto è tutto un rincorrere concetti, di cui abbiamo perduto il senso, che Gianrico Carofiglio recupera e ci omaggia di una chiave di lettura più vicina a noi, al nostro tempo, alla società attuale che, sempre più, si perde nelle concatenazioni superate e fittizie della politica. Nell'economia del libro, infatti, la politica è nelle cose, negli atti, così come nei pensieri e addirittura nelle parole divenute "sconvenienti" perché - come scrive l'autore - manomesse in funzione di qualcos'altro che non è il terreno originario per cui sono state coniate. Inutile dire che qualcosa non funziona in questa società (che ricordo abbiamo costruito noi), in questa democrazia che, pure, ci siamo dati noi.
Qualcosa certo non deve aver funzionato a dovere se stiamo ancora qui a sbattere la testa contro il muro, dopo aver affrontato ogni argomentazione per milioni di volte, esserci fatti propositi, aver fatto promesse (a noi stessi prima che agli altri), se poi siamo rimasti più o meno quelli che eravamo un secolo fa. Viene da domandarci a cosa sono servite tutte le guerre se ce ne sono ancora in corso? Tutti gli incontri al vertice (G8 - G10 - G20 e quelli sulla fame, sull'ecologia, sul nucleare, sul salviamo il mondo) tra le nazioni, se tutto rimane come è sempre stato, anzi peggiora di giorno in giorno? Tutto questo per pensare in grande per quanto riguarda la comunità, l'intera umanità, ma che succede se per un istante ci inoltriamo nel "labirinto" di noi stessi, noi intesi singolarmente come entità pensante e giuridicamente responsabile?

Nota d'autore: "Mi è difficile definire la natura di questo libro che verrà classificato come un saggio (e in un certo senso lo è), ma tengo a dire che, per me, è soprattutto l'esito di un gioco di sconfinamenti. Un'antologia anarchica. Una ricerca di senso, anche, soprattutto attraverso le parole e le pagine di altri, da Hannah Arendt a don Milani, da Aristotile a Bob Dylan, da Goethe a Gramsci, fino alle pagine esemplari della nostra Costituzione". E ciò che egli vuole dirci è che dovremmo re-incominciare a chiamare le cose con il loro nome, ripensare il linguaggio come un gesto in prospettiva che vada verso il futuro, "immaginare una nuova forma di vita".

L’autore:
Gianrico Caeofiglio è uno scrittore, politico ed ex magistrato italiano. Autore di numerosi romanzi ha pubblicato recentemente Il 25 ottobre 2016 esce L'estate fredda con un nuovo caso per maresciallo dei carabinieri Pietro Fenoglio, piemontese in servizio nel Sud delle mafie, già conosciuto come protagonista di Una mutevole verità.
A Ottobre 2017 esce Le tre del mattino, storia del serrato confronto fra un padre ed un figlio, confronto da cui ambedue riemergeranno profondamente diversi.
Nel febbraio 2018 esce Con i piedi nel fango, Conversazioni su politica e verità, un saggio socio-politico all'insegna del dialogo sotto forma di intervista, con Jacopo Rosatelli.
In totale i suoi libri hanno venduto cinque milioni di copie e sono stati tradotti in ventotto lingue.


CARLO POMPILI – “La Prova” – Augh! Edizioni 2017 - recensione di Giorgio Mancinelli in larecherche.it.

La reiterata descrizione di un ambiente naturale all’interno di un romanzo d’azione solitamente determina una stasi nell’evoluzione dinamica dell’azione stessa, l’equivalente del flash-back in una pellicola cinematografica che rallenta lo scorrimento della trama, non consentendo il raggiungimento ultimo di quella vertigine, di puro stile giornalistico, che di per sé costituisce il ‘fatto di cronaca’ in un qualsiasi thriller …
“Qualche istante ancora, ed ecco mille piccole gocce di pioggia, ritmare il loro suono cadendo copiose sulle tavole dell’impiantito, allegre, leggere, inascoltato presagio del temporale che, di lì a poco, si sarebbe scatenato vittorioso. Neppure qualche cupo brontolio, dapprima indistinto, quindi, sempre più rabbioso, era riuscito a rimuovere Valeri da quella postura. Fu solamente alcuni istanti più tardi che l’uomo decise di allontanarsi dal pontile, quando il cielo, compatto nel suo colore cinereo, ebbe raggiunto l’apice della sua drammaticità, squassato dal bagliore delle scariche. Il lago (Bolsena) appariva come un gigante intrappolato nel suo bacino vulcanico, percosso dai giochi concentrici che si susseguivano sempre più intensi sulla superficie dello specchio d’acqua.”
Sorprendentemente, ‘il caso’ afferente a questo romanzo poliziesco, porta in scena gli insoliti anfratti della tranquilla provincia viterbese: la verde Tuscia, infatti, è una nicchia ecologica la cui condizione sociale e quella umana, storicamente integrate sul territorio, interagiscono nel comportamento psicologico dei personaggi, fornendo loro un ‘alibi moralistico’ necessario al riscatto ultimo delle loro azioni, bonarie o malevoli che siano, per quanto condizionate nell’intento scrittorio dell’autore, la cui penna sagace penetra efficacemente nella psicologia addomesticata dei personaggi creati …

L’autore:
Scrittore fine ed oculato, appassionato di storia e cultura dell’Alto Lazio, coltiva interessi grafici e letterari, dando seguito a sue collaborazioni in campo commerciale e pubblicitario. Dopo ‘Il potere’ (Alter Ego 2014) con questo suo nuovo romanzo “riporta i suoi lettori in quell’atmosfera da lui creata dove thriller e storia si intersecano strettamente con richiami ancestrali e misteriosi, in un sequel nel quale ogni colpo di scena conduce magistralmente fino a un epilogo inaspettato”.

Buona lettura!

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