C’è chi mi chiama Rocambole, senza che io incarni eroismo alcuno,
se non l’eroismo deleterio, tutto milanese,
di alzarmi, giorno dopo giorno, alle 07.00 del mattino,
affrontando ogni sorta di avventura rocambolesca:
tipo dribblare le auto di dementi assonnati e contenti di realizzarsi in azienda,
tipo fingere di dar retta a un capufficio pedante,
assorbito dalla forma di una lettera commerciale (in endecasillabi rolliani),
tipo organizzare incontri di soccer tra morti viventi e vivi morenti,
tipo ricordare di spegnere il gas prima di andare a dormire.
Magari un Rocambole delle officine dei morti di fame,
un Rocambole dei supermercati della Lombardia,
o, forse, un Rocambole dell’area di rigore?
Rocambole nell’arte e nella cultura, distruttore che diventa costruttore
in tempi di ricorrenti fallimenti delle imprese edili,
sabotatore che si rinnova in sabotier,
grazie alla durezza complice del legno,
Pinocchio che si risveglia Harry Potter,
declamando i miei versi con bocca colma d’aglio,
- forse, tutto qui, ho l’acidità satirica di una rocambola-
e non digerendo chi canta nel coro, facendomi di Malox,
non so se augurarmi di smettere di deridervi,
di un riso «che non si cuoce», Nobis docet,
o di deridermi d’avere smesso di rocambolare.
[Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
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