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Leggere / Ascoltare Idee e Suggerimenti per tenersi occupati

Argomento: Libri

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 04/01/2021 07:44:27




Leggere / Ascoltare
Idee e Suggerimenti per tenersi occupatidurante il loockdown.

PSALM - di Paul Celan
“Salmo” nella traduzione di ……
Nessuno ci impasta di nuovo da terra e fango,
nessuno rianima la nostra polvere.
Nessuno.
Che tu sia lodato, Nessuno.
Per amore tuo vogliamo
fiorire.
Incontro a
te.
Un Nulla
fummo, siamo, reste-
remo, noi, in fiore:
la rosa di Nulla, di
Nessuno.
Con
il pistillo chiaro-anima,
lo stame deserto-cielo,
la corolla rossa
per la parola porpora, che cantammo
al di sopra, oh al di sopra
della spina.

È detto: “Con salmi e inni e cantici spirituali” (San Paolo ‘Lettera ai Colossesi’).
Dapprima inclusi nel rito liturgico, alfine di trasfigurare e di elevare l’umanità al di sopra delle vicende terrene, il canto dei “Salmi” (*) ha illuminato da sempre il successivo cammino della preghiera verso nuovi e più alti ideali, offrendo alla religione un linguaggio altamente spirituale, le cui ampiezza espressiva ha ancora tutt’oggi un effetto trainante sulle masse che nei secoli ha rappresentato la sublimazione del rito liturgico cristiano.
Dall’iniziale canto Gregoriano, all'Exsultandi et Lautandi del canto-fratto, alle odierne “Prayers" (*) del compositore georgiano Giya Kancheli, sono passati qualcosa di più di 1000 anni, acciò il senso caratterizzante la ‘preghiera’ non è mai venuto meno. Dell’uso di fare musica e di elevare canti durante le cerimonie liturgiche, rituali della diffusione del culto cristiano, del quale è fatta menzione nell’Antico Testamento con riferimento alle lodi solenni composte sulle parole sacre inizialmente recitate, che dovevano essere intonate ‘con gaudio ed esultanza’, non si è persa oggi memoria.
O almeno così sembra, seppure in parte, stando alle testimonianze raccolte nell’area slava, successivamente unificata nel canto rituale della Chiesa russo-ortodossa, il cui rigore imposto alla forma ne delimita immancabilmente la portata strumentale d’ogni pretesa d’arte, per farsi linguaggio collettivo, sia di recitazione che strumentale che fosse eseguibile e recipita dalle masse raccolte in preghiera. In ciò Giya Kancheli sembra aver raccolta ogni forma preesistente, antica e antichissima, nella sua odierna creazione musicale, ricreando a sua volta un nuovo stile, unico e inconfondibile.
Il cui andamento ‘piano e grave’ ondeggia come di un mare solo apparentemente calmo, che all’improvviso scaturisce dal profondo, come per una tempesta rigeneratrice di spume, ad esprimere l’imtima natura del proprio sentimento religioso. Così in “Caris Mere” (*), quasi l’estensione di una preghiera che implode con notevoli assonanze col Gregoriano, sia di forma che di stile, sia nell’uso dell’organo che degli strumenti esibiti, quali: voce soprano, clarinetto, viola, e l’inserimento del sax soprano e orchestra d’archi. Un mix che si rivela testimonianza di una medesima derivazione liturgica, per quanto sarebbe improprio asserire un origine diversa dall’una dall’altra forma, ma più verosimilmente ritenere entrambe confluite da un comune patrimonio, tramandato dalle culture più antiche alla cultura cristiana.
Concepita in forma di ‘preghiera’ l’opera di Giya Kancheli prende spunto dal ‘Salmo 23’ cui è detto “Il Signore è il mio pastore…”, incluso nel CD “Exil” (*), per poi includere ogni altro significato voluto, spaziando da testi di Paul Celan, ad Hans Sahl. Mentre in “Abii ne Viderem” (*) l’utilizzo della Stuttgarter Kammerorchester diretta da Dennis Russel Davies; con le voci e il flauto del The Hilliard Ensemble, e Kim Kashkashian impegnato alla viola. L’opera completa “Prayers” si sviluppa in quattro parti formando essa stessa ‘un ciclo e così suddivisa: “Morning Prayers”, “Midday Prayers”, “Evening Prayers”, “Night Prayers”. Volendo essere ‘up-to-date’ l’ensemble Kronos Quartet (*) ha elaborato quest’ultima in un Cd dedicato all’autore georgiano, cui va riconosciuto, insieme all’estone Arvo Pӓrt, l’eccellenza musicale della grande tradizione liturgica.
Che la ‘liturgia musicale’ si sia occupata in particolare all’antica innodica cristiana, noi sappiamo che in letteratura, invece, in via alternativa ci si è occupati, attraverso linguaggi e immagini, al simbolismo fenomenologico delle diverse forma dell’immaginazione. Pertanto, inseguire un schema speculativo nel campo della filologia linguistica che fin dai primi enunciamenti potrebbe risultare infruttuoso, è per me cosa ardua da affrontare, in questo contesto. Soprattutto se a proporlo è uno stimato filosofo francese di tendenza teologico-cristiana qual è Stanislas Breton, che ha dedicato un eccellente saggio “Simbolo, schema, immaginazione” (*) alla ‘riflessione sul simbolo’ della poetessa e scrittrice Rubina Giorgi.

Scrive Breton: «Simbolo è ciò che, senza concetto, al di là o al di qua del concetto, fa dunque comunicare gli uomini tra loro e le cose tra loro. […] Molti indizi, oggi ci persuadono della necessità di tralasciare sia l’ontologia tradizionale sia la semiotica generale che l’ha rimpiazzata. Tra le opere che testimoniano questa insoddisfazione e che delineano, in modo fermo, lo schema di questo superamento, ce n’è una che abbiamo scelto perché ci sembra essere il punto d’incontro di diverse tendenze e di molteplici discipline: […] cioè la scienza filosofica dell’essere, afferente alla “metafisica platonico-aristotelica”.» […] Da cui l’affermazione: «La fine della metafisica, potrebbe essere l’inizio della simbologia.»
Ne consegue l’individuazione, nell’ambito della ‘speculazione filosofica’, di uno ‘schema’ necessario nello studio della ricognizione scientifica, antecedente alla formulazione dell’ ‘ontologia formale’. Un metodo di apprendimento rivolto alla comprensione del ‘sistema significante’ che, come è anche detto nell’introduzione del saggio, rivolge la sua utilità allo studioso/lettore, nell’addentrarsi, seppure con non poca difficoltà, nella ‘materia significante’ ed accettarne i concetti e/o a condividerne le tesi.

Una proposta di lettura questa che, stando almeno nelle intenzioni dell’autore, guarda all’insieme del pensiero in ambito linguistico a lui contemporaneo. Breton, infatti, rivolge una speciale considerazione alla simbologia di Rubina Giorgi, che ha svolto un’importante excursus, quanto più addentro all’ ‘ontologia formale’, attraverso l’aspetto delle forme e ai significati intellegibili, rivolto, soprattutto, alla funzione che il ‘simbolo’ riveste nel nostro mondo odierno.
Nella specifica del ‘simbolo’ che Breton rende in modo quantomeno suggestivo oltre che rigoroso, si hanno in breve: due poli entrambi ricettivi, divisi da un intervallo vuoto e/o nullo (nihil) reso fruibile nell’immaginale (vedi Cobin, Hillman e altri). In primis va qui chiarito che il sussistere dell’ “approccio immaginale” nei confronti del ‘simbolo’, non esula da ciò che è fondativo nel “pensiero immaginale” riferito al ‘simbolico’. In breve, lì dove Breton cita Rubina Giorgi: «..il simbolico, come funzione di negazione e di distanza, non è vuoto perché è auto-riflettente, ma è auto-riflettente perché è vuoto.
Il movimento dell’autoriflessione conferma questo vuoto.»
[…] «Per ristabilire l’equilibrio tra il causale ed il semantico, è necessario che lo schema elevi alla dignità di nuovi significati delle accezioni preliminari e convenzionali, che non sono del resto da concepire mai come cause propriamente dette, e le inserisca in una totalità originale dove esse prendano una valenza nuova.»

Soprattutto quando questa è applicata all’intenzionalità dell’arte cui l’impersonalità dell’artista diventa abnegazione del soggetto nei confronti dell’oggetto. Un’esigenza speculativa messa al servizio della creatività, per cui – come scrive Carlo Di Legge: «l’abnegazione del me provoca (spesso) le rappresentazioni più raffinate dei molteplici recessi della soggettività.» Ma il passo poetico non si ferma qui, infatti Breton aggiunge che «..l’oggetto e il soggetto non sono fissati una volta per tutte. Bisogna assimilarli non a degli elementi invariabili ma a delle polarità reversibili. […] Nel suo movimento, il simbolo è soggettività in modo che specularmente (moto proprio del riflessivo), rimanda di continuo il soggetto all’oggetto e viceversa.» In ciò non v’è nulla di misterioso quanto invece c’è di speculare, in ogni singola istanza c’è sempre all’origine un’intenzionalità ricettivo-creativa propria dell’essere pensante (animale, vegetale, umano), afferente a una sorta di ‘energia’:

Difatti il ‘simbolo’ re-interpretato secondo Breton sulla scia delle avances di Rubina Giorgi equivale a un principio d’identificazione, l’affermazione stessa dell’individualità dell’essere antropico: «Ed anche questa energia è sospesa ad un irraggiamento originario che, aldilà dell’essere e della forma, si presenta come pura indeterminazione “per eccesso” di cui le figure sensibili e le forme intellegibili, come pure lo stesso movimento formativo, spiegano, in una lingua cosmica, l’inesauribile generosità.»

Veniamo quindi messi di fronte a un problema logistico che si vorrebbe risolvere, ma di certo – scrive Carlo Di Legge nella sua eccellente introduzione: «Non (con) la logica formale classica dunque, ma (con) una logica che, tuttavia, consente di districarci, orientandoci nella selva delle somiglianze, e che paradossalmente presiede alla comunicazione e all’interpretazione, se interpretazione è sempre legata alla comunicazione: quello simbolico è, per quanto non possieda chiarezza né evidenza, il luogo che offre certezze, pur nella variabile molteplicità delle forme»:
«Il suo carattere polimorfo non gli impedisce (al simbolo) di assicurare la comunicazione tra gli uomini. Non più del resto di quanto la sua ambiguità non lo condanni all’incomprensibile. Ad ogni modo questa comprensibilità si accontenta benissimo dell’equivoco e della pluralità dei sensi.»

Pertanto giungiamo a un’altra affermazione: «L’essere è la forma, attiva o passiva, che sfida ogni nostro gioco linguistico.» (Breton) Come è anche detto nell’introduzione, che «lo si riconosca o meno, questa è propriamente la nostra vita. […] Ci parla del nostro universo, dicendo che in esso ogni ente è in simpatia con ogni altro; ma non è questa, la dimensione della logica scientifica: non stupisce chegli scienziati non la ammettano, se non i più illuminati.» (Carlo Di Legge)
Volendo a questo punto rientrare nello schema formulato inizialmente, dei: “due poli entrambi ricettivi, divisi da un intervallo vuoto e/o nullo (nihil) reso fruibile nell’immaginale”, approdiamo con più facilità a individuare i rapporti che intercorrono tra ‘simbolo, schema, immaginazione’ definiti nel titolo del libro:
«Oggi si sarebbe tentati di riservare lo studio a questo insieme di discipline abbastanza privo di rigore che si chiama “semiotica”, perché si occupa di segni, di qualsiasi natura essi siano, sia pure privilegiando lingua e linguaggio e con il primato e la guida della linguistica, che induce talvolta a subordinare l’antico ‘semeion’, nella plasticità delle sue accezioni, alla chiarezza e alla distinzione della parola scritta o parlata.»

Tuttavia ciò non basta a seguire uno ‘schema’ di per sé farraginoso che induce alla antinomia delle trattazioni, allorché si avvale della speculazione filosofica per affermare alcuni principi solo apparentemente indissolubili afferenti ad altre discipline e altri autori come Heidegger, Levinas, Lacan, Frigo ed altri che, non in ultimo, trovano in Jacques Derrida, “l’epistemologo del pensiero postmetafisico”, la resilienza di una specificità indelebile con testi importanti anche per questa trattazione:
«Ma è chiaro che il dilatarsi e l’esplicitarsi, messo in opera dallo schema e dall’immagine (rappresentati nel testo), suggeriscono una linea di sviluppo all’infinito che non copre tuttavia la perfetta omogeneità del tempo postulato. Il tempo dell’immaginario, come quello della storia che lo nutre, è al tempo stesso racconto che spiega e memoria che raccoglie. Tempo ciclico e tempo lineare si fissano quindi in un tempo più profondo, […] che la densità dell’essere, la pienezza che si insinua, in certi momenti che miracolosamente sospendono l’uniformità della successione che affiora nell’Opera, quando essa è veramente Opera […] che restituisce all’uomo , contro la minaccia di dispersione e l’inerzia della natura, la poesia di un’espressione autentica.»

Va citato inoltre un libro di Jacques Derrida: “Pensare al non vedere - Scritti sulle arti del visibile” (*), in cui si tratta delle arti come problematicità: “che si rifrange ogni volta in una molteplicità lontanissima dall'essere omogenea. Per quanto ciò che concerne il visibile, infatti, si tratta sempre, anche se in modalità differenti nelle arti e rispetto alla scrittura, della traccia, del tratto, di spettri, e dunque di un “vedere senza vedere niente … punto di condensazione di una realtà possibile”.»

“Vedere senza vedere”, si è detto, e anche “pensare al non vedere”, ciò che più si abbina alla tematica di “Vocali”(*), introdotta da Arthur Rimbaud in cui il ‘poeta maledetto’ avverte precise sinestesie tra colori e vocali, tra elementi naturali e grafici …
Vocali

“A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
io dirò un giorno i vostri ascosi nascimenti:
A, nero vello al corpo delle mosche lucenti
che ronzano al di sopra dei crudeli fetori,
golfi d’ombra; E, candori di vapori e di tende,
lance di ghiaccio, bianchi re, brividi di umbelle;
I, porpore, rigurgito di sangue, labbra belle
Che ridono di collera, di ebbrezze penitenti;
U, cicli, vibrazioni sacre dei mari verdi,
quiete di bestie ai campi, e quiete di ampie rughe
che l’alchimia imprime alle fronti studiose.
O, la suprema Tromba piena di stridi strani,
silenzi attraversati dagli Angeli e dai Mondi:
– O, l’Omega, ed il raggio violetto dei Suoi Occhi!”

C’è però anche chi invece avverte un’istintiva identificazione con essi, ad esempio nei colori della natura nelle diverse stagioni, e perché no nei colori dei sogni che sfolgorano all’interno del “… punto di condensazione di una realtà possibile”. E chi abbina i colori all’effimero contemplativo della musica, e allora è il mare, il cielo, la terra o i prati a dettare la sua tavolozza; e perché non pensare ai sentimenti cui siamo invero profondamente legati, che ci ispirano il colore dei giorni, o anche il profondo buio delle notti. Quei colori che ci invitano al canto che, come nei ricordi dell’infanzia ci avvertono che non tutto è perduto, che il germinare della terra riporterà l’antica origine edenica del mondo, che inseme agli antichi dèi torneranno le speranze messianiche di una redenzione possibile.
Quegli stessi colori che il canto di una voce o il suono di uno strumento può darci la dimensione di quel che siamo, l’identità di esseri umani, intelligenti, capaci di creatività, di sostegno, di concepire un disegno di vita unitario, di poter affrontare le sfide e affidarci all’avventura di un viaggio. Come ad esempio in musica, di misurarci in un ‘ensamble’, di comunicare con gli altri elementi di un’orchesta, operare affinché le note si colorino di accordi, di assonanze armoniche, di linee melodiche sempre nuove, che ci restituiscano, infine, quella ‘gioia di vivere’ che oggi sembra perduta nelle strette maglie della sofferenza che ci attanaglia.
Nasce così “The colour identity” (*) un CD interamente strumentale con alcuni straordinari inserimenti vocali di Marta Loddo e Rosie Wiederkehr, presentato dal Mauro Sigura Quartet, formato da Mauro Sigura, cui si deve la ‘coloratura’ virtuosistica della melodia e le ‘variazioni’ all’interno dei brani, come di componente costitutiva essenziale. A determinarla è l’assoluto cui egli approda con l’Oud, uno strumento solista per eccellenza, che in questo caso fornisce al Quartet l’alchimia d’insieme necessaria a coniugare memorie di un passato lontano con il moderno presente, la cui ‘chiave’ definisce la ‘linea sonora’ costituente la New-Jazz World Music.

Se si volesse accostare un colore al suono dell’Oud, potremmo definirlo ‘contenuto nell’emozione che suscita’, corrispondente in pittura all’arancio tendente al rosso, o forse al viola tenue, i colori propri del melos antico, ovvero dell’odierna melancolia che suscita l’autunno nei dipinti ‘crepuscolari’; il colore stesso di un sentimento come l’amore, per pienezza sonora ed espressiva, paragonabile a un certo tipo di poesia e, in certo qual modo, ‘chiave sonora’ dei brani nell’album pressoché acustico. Brani in cui s’intercalano voci diverse, offrono all’ascoltatore attento l’opportunità di sentire/vedere i ‘colori’ che verosimilmente li hanno ispirati: il ‘bruno’ dell’accorato richiamo che fuoriesce dal profondo della terra in “Il canto di Maddalena” e “Madri di Damasco”; il ‘verde-blu’ di “Terramare” e “Instabile”; la lontananza ‘azzurro-cielo’ di “A ovest di me” e “Seven chitzaz”; la desolata contrada bruciata dal ‘giallo-oro’ del sole di “Allagamenti” e il successivo “Bruja”; fino all’ ‘argenteo’ “Mbour” che sa di pioggia che scende leggera sui campi, portatrice d’ebbrezza e di sperato piacere. Bravissimi tutti i componenti The Quartet, autori e coautori dei brani e degli arrangiamenti: Mauro Sigura, Gianfranco Fedele, Alessandro Cau, Tancredi Emmi, ai quali va il plauso per aver mantenuta, senza mai strafare, l’eccezionale ‘misura del tempo’ spesso ricercata dei componimenti; e il mio personale omaggio per leleganza raffinata del suono dei loro strumenti.

L’eco della ‘poesia’ di cui fin qui si è spesso parlato trova riscontro in “Edeniche” - Configurazioni del principio (*), una raccolta poetica di Flavio Ermini - Moretti & Vitali Edit. 2019, che propongo all’attenzione di quanti mi leggono.

"Prolegomeni alla ricerca del ‘mito’ perduto".
Nella concezione poetica di Flavio Ermini, autore di ‘Edeniche’, difficilmente si arriverebbe a una ‘dismissione del mito’ così come è giunto a noi contemporanei, per quanto gli effetti della sua ‘caduta’ si dimostrino oggi irreversibili, privata com’è della tesi che l’ha sostenuta fin dall’origine. Tesi che, dapprima Kant poi Jung e Kerényi hanno posto in evidenza, in quanto rappresentazione dell’inconscio collettivo primordiale, come “creazione mitica del pensiero umano”, d’appartenenza specifica alla sfera della psiche. Una ‘dismissione’ dubbia che pure c’è stata, e di cui oggi si tende a sminuire l’importanza, malgrado volenti e/o nolenti, non riusciamo ancora a fare a meno della ‘prestanza creatrice del mito’ che, come già Hegel a sua volta ha dimostrato, si palesa come essenza di “pura disciplina fenomenologica dello spirito”:
«Non ha fondamento né gravità l’antro dei cieli / discosto com’è dal fuoco al pari del mondo abitato / che dalle acque creaturali viene circoscritto / per quanto non si tratti che di assecondare la caduta / consentendo così alle residue forze relittuali / di protendersi una volta ancora verso il principio / […] desituandoci dalle nostre abitudini cognitive / per esporci all’assoluto contrasto che si afferma / nel secondo principio di ascensione al cielo / […] nel varcare con reticenza il limite che ci separa / dalla superficie celeste dell’ultima terra / con la segreta illusione di rivelarne la natura».
Non mi è dato conoscere quanto consapevolmente ogni singolo autore citato, e lo stesso Flavio Ermini, “nel fondare il mondo sulla ragione”, abbiano visto negli effetti della ‘caduta edenica’, la perdita delle forme archetipe della psiche, attraverso le quali lo spirito umano pure s’innalza verso il sapere assoluto. Di fatto, con la compiuta ‘dismissione’ della pregressa mitologia senza uno scopo definito, seppure sostituita per ciò che riguarda l’attualità da nuovi ‘déi ed eroi’ di recente conio e piuttosto avulsi da virtù etiche ed estetiche “quale testimonianza dell’oscurità che si cela / nell’impreciso vuoto del presente”, si è creato un ‘nulla prepositivo’ nella conoscenza collettiva di non facile riempimento psicologico, che sta portando a uno sconvolgimento profondo di tipo esperienziale, pari quasi al trauma ‘immemore’ del Diluvio che in illo tempore sconvolse la terra:
«..a causa dell’ostinato levarsi delle tenebre / se non proprio dell’annientamento cui porta l’apparire / sempre di nuovo si ripete l’ascensione al cielo / in omaggio al divenire che in terra si distende / sullo sfondo originario cui l’umano si sottrae / mettendo a soqquadro anche il sacro recinto / […] dove opera ogni notte un rivolgimento natale / l’incerta creatura da poco tempo generata / per la cui sacralità viene un mortale a garantire / in virtù della pietra e di un impossibile assentire».

Grandiosa l’immagine del ‘sacro recinto’ edenico, e della causa che ha portato alla dismissione dell’umana creatura da esso, in cui: «‘la terrena sostanza del giardino’ porta all’incompiutezza il graduale sottrarsi alle stagioni / che improntano senza posa il nostro incerto cammino / attraverso i gradini del tempo fino all’atemporalità / che diventa ostile alla terrena sostanza del giardino / rendendo inadeguato il consacrarsi al cielo della luce / così come il situarsi ai lati di una penosa dissoluzione / che (di fatto) mortifica l’essere umano per la vita che gli resta».
Nondimeno, nelle diverse sezioni autonome che distinguono questa silloge poetica al pari di un ‘unico lungo poema’, ritroviamo più o meno definiti tutti quei valori che il poetare si concede di trasformare in verso descrittivo, in cui si ravvisa una trama che non stento a definire ‘tragica’, se non ipotizzando una sorta di riabilitazione ‘al momento non formulabile’, che arresti il tempo della ‘caduta edenica’, in una sospensione a noi necessaria per ovviare quella ‘dismissione mitologica’ che pure fin qui ci ha accompagnati, «..se non ipotizzando l’aiuto delle ali», di nuove ali che ci permettano di tornare a volare:
«..non l’interezza è all’origine del nostro apparire / ma un grido che ai viventi l’indiviso sottrae / quando è su loro impresso il marchio dell’obbedienza / anche se altro non fanno che sfuggire all’esilio / votati come sono all’illusoria condivisione della verità […] in collisione con l’orizzonte che lontano si configura / e con dolore fa pensare a molti uomini in catene […] nella relazione che i differenti mantiene separati / per un tempo che potrebbe anche essere indefinito / … il cui ‘paradiso perduto’ / rappresenta l’ultima luce per i mortali / spinti come sono verso la prima essenzialità / che nell’antiterra riconosce … / l’insopprimibile incedere di forze discordanti».
Per quanto il sottotitolo avverta trattarsi di ‘configurazioni del principio’, «nel carattere albale di vaghe sembianze», si ravvisa, almeno nelle intenzioni, un plausibile riferimento alla perdita delle ali da parte degli angeli caduti che ritroviamo sparpagliate un po’ dovunque. In ogni luogo dove, in contrasto con gli spostamenti tumultuosi che la ‘caduta’ dei corpi, al pari di meteore impazzite, di per sé conduce, si è ceduto a quella ‘pietas’ umana e divina insieme, atta a conservarne le spoglie e la memoria. È in questo senso che in “Edeniche” ogni locuzione va letta e ponderata a fronte di una forma poetizzante della trasformazione ‘divina’ dell’umano sentire:

‘la forma perfetta dei cieli’
nel carattere albale di vaghe sembianze
proprie dello spirito che bagna la terra
dove soffre ogni pena l’umano che appare
è nota da tempo la compostezza dei morti
pur se occultata sulla linea di faglia
del moto affannoso di chi ancora vive
ignaro della forma perfetta dei cieli

Ma noi non possiamo dismettere l’idea di una possibile intesa tra gli umani, propensi come siamo all’affrancamento della pena giustamente/ingiustamente inflitta, semplicemente perché non ci è concesso dalla violenza delle necessità cui siamo sottoposti, onde per cui ‘il cantiere dell’uomo’ “nell’atto di sottrarsi all’apparenza”, rimane attivo “per bandire il vuoto dal giardino”:

‘il cantiere dell’uomo’
ha voci ovunque il cantiere dell’uomo
nel richiamare alla mente la casa natale
che spinge l’esule a uno stato di sconforto
in quanto elemento destinato alla fine
mentre più inerte si va facendo il preumano
per l’estendersi del male tra le forze discordanti
la cui violenza impedisce al giusto di tornare
privo di ali com’è alla volta del regno.

In fine ècco due libri di recentissima produzione letteraria: 'La scatola di latta' (*) il fantasmatico volumetto scritto e illustrato da Paolo Donini che ha messo a punto una sorta di gioco prezioso, utilizzando 'l’alchimia di una fiaba moderna' capace di affabulare il lettore. È così che rapito nella lettura mi sono ritrovato …

'Nello sperduto paesino di Ics, fra morbide colline ondulate come le pagine di un libro...' Così come ha fatto l’autore di questo ‘delizioso’ piccolo libro (nel formato), ma grande per contenuto che è “La scatola di latta”, enome, immensa quanto l'universo. Tuttavia più che raccontarvi la ‘fiaba’ adatta a grandi e piccini, ho scelto di parlare delle ‘tavole sinottiche’ (i disegni) che Paolo Donini ha incluso nel suo libro a incominciare dalla copertina … la storia narrata verrà poi da se e/o potrete sempre leggerla direttamente, ma non senza esporvi a un qualche ripensamento sull’evoluzione della vostra crescita, sulla maturità acquisita, sul rapporto con gli altri e col mondo che ci sta attorno.'Siete pronti? Allora andiamo a incominciare!':

Tutto ha inizio con un punto, anzi da 'il punto' (((.]]] Certo così incorniciato può sembrare di stare a parlare di un’opera d’arte. Ma è così, forse non avete considerato che ‘lui’ è all’inizio di tutte le cose, il ‘punto’ focale di ogni dimensione: in algebra, in geometria, in architettura, nell’arte più in generale, ma anche nel linguaggio scritto e/o in qualche modo sottinteso, allo stesso modo del linguaggio parlato, di cui 'il punto' sta al centro dell’Universo. Si pensi per un istante a come Michelangelo Buonarroti ha suddiviso in riquadri, vele e rombi la Cappella Sistina, se non fosse partito da un punto 'iniziale' del suo capolavoro (?), c’è da rimanere sbalorditi.
Il pregio di Donini sta nell’aver individuato una ‘formula grafica’ che coglie l’occhio e ci dice che siamo approdati in territorio alieno: analogico, semiotico, ermeneutico, sembolico, filosofico, immaginale. Non c'è niente di più significativo dell’anima cosmica cui il ‘punto’ appartiene, nel suo insieme ordinato che si esplica nel significante, pur restando nei limiti dell’interpretazione linguistica e della scrittura grafica. Un 'significare' le cui coordinate si dipartono '..frementi di virtualità, suscettibili di prendere forma' (*) nell’ordine del linguaggio che compongono, dando luogo a una sequenza e a una dipendenza ritmica: mettere/levare – pieno/vuoto – presenza/assenza: quale oggetto e/o soggetto di un sostantivo che apre a nuove prospettive simboliche, e che rimandano '..come suggeriva la definizione classica, ad una facoltà del conoscere'. (*) Dacché ‘il punto’ prima ancora d’essere un segno grafico ha un potere figurativo da cui nascono le figurazioni costruttive della nostra creatività.
'Quella sera il piccolo poeta cenò prima del solito, si infilò a letto e si addormentò ...'

È qui che l’immaginale creativo riflette della genesi polimorfa dei segni/simboli che appaiono oggi sulla nostra tastiera visiva, fuoriusciti dall’ 'ermeneutica formale' con cui abbiamo riempito il ‘vuoto’ (solo apparente) della nostra 'scatola di latta'. Ma torniamo per un momento al ‘gioco’ iniziale: cioè all’interpretazione del ‘punto’ nell’immanenza del senso, e concepirlo come qualcosa che va oltre il significare di ogni contenuto concreto. Proviamo dunque a leggere la ‘tavola sinottica’ di copertina, incrociandone e traducendone i simboli contenuti, pertanto:
'Quando @ incrocia sulla sua strada asterisco * gli sovviene qualche dubbio …. che fin da subito si trasforma in domanda? V vuoi vedere che dalle parentesi ( ) sono fuggite le doppie virgolette' 'cui fa seguito, in percentuale %, che @ si preoccupa non poco di dove siano andate. V vuoi vedere che certi loro compagni & un poco birichini, veduta la bella giornata di sole hanno boicottato la Scuola per andare a giocare sui prati delle colline di Ics? Ò, che qui sta per ‘ops’, e si vuole che sia proprio così. E mentre di notte c'è un Poeta che s'ispira all'amata luna, di giorno c'è un grillo che canta senza posa. Così, fra una nuvoletta bianca che vaga nel cielo, c'è un certo Vento che arriva a scombinar le fila delle Parole, e volendo, compare un aquilone Д (intravisto di profilo) che zigzagando innalza i loro cuori e rende festosa l’allegra & compagnia'. ©

Potete anche non crederci ma 'Ics' (non X), la bella ‘favola di latta’ di Paolo Donini esiste davvero, ma non cercatela in nessuna cartina geografica, perché non la troverete. Cercatela nella soffitta dei ricordi, allorché sfogliando le pagine, forse solo un poco impolverate, v’accorgerete di non aver mai smesso di scrivere di voi, dei vostri sogni, delle illusioni, delle sconfitte e delle risalite, e che infine converrete con me, che il confronto con le brutte favole di oggi, vale una rilettura critica, per quanto benevola su ‘chi siamo?’ e ‘dove stiamo andando?’ in questo nostro mondo altero.
(*) I corsivi nel testo sono di Paolo Donini.
Paolo Donini, scritore, saggista e critico d'arte e letteraria si occupa di curatela di mostre e di spazi espositivi, è inoltre autore dei disegni presenti nel volume che bene si incastrano con la grafica, il formato, nonché la cura editoriale di questa pubblicaszione. Sue sono tre raccolte di poesia 'Incipitaria' (Genesi Edit. 2005); 'L’ablazione' (La vita felice 2010); 'Mise en abîme' (Anterem Edizioni 2016). È vincitore inoltre del del Premio Lorenzo Montano ‘Opera Edita’ 2011.

'Enne'… le mille + una volte del quotidiano essere.
Un libro di Valentina Durante – Voland 2020

Mio Caro Enne …
ovvero costruzione e decostruzione di un personaggio apparente, necessario nello scrivere in italiano a coprire la carenza grammaticale del tempo neutro in cui si apre la scena di questo libro solleticante (quanto appetibile) le velleità del lettore curioso.
Eh sì, perché Enne è qui utilizzato come fattore scrittorio che potrebbe non esistere nella realtà e che, anzi, non esiste in nessun’altra concretezza attoriale dall’autrice, che lo adopera per dire ‘enne persona’, ‘enne volte’, presente in una ‘enne-sima’ situazione in cui si rende necessario il suo impiego.
Mi avvalgo qui dell'accezione che l'autrice fa nel definire ‘impiego’ l’attività svolta dal personaggio che si va man mano delineando all’interno di una sciarada di situazioni fittizie (a non voler dire superficiali quanto metodiche del quotidiano), che pure prendono corpo nel corso della costruzione oggettiva del libro, frutto di una scrittura creativa verosimilmente istantanea, a voler rimarcare la maniacale intermittenza fotografica (in 'Enne-due'), lì dove l’operato del fotografante e del fotografato si vuole coincidano … 'per avere una restituzione reale di noi stessi'.
È qui (in questo passaggio minimale), che l'autrice coglie in pieno l’annosa e mai risolta prolissità della filosofia odierna, intenta com'è a decifrare i gesti del quotidiano e trasformarli in concetti che esulano dalla sua missione originaria. Ed è ancora qui che ha inizio la costruzione del personagio ‘Enne’ e, al tempo stesso, la sua de-costruzione, in ciò che molto probabilmente serve da supporto al 'narratore'. Ma siamo ancora al congetturale, ben presto si scoprirà che ‘Enne’ è ciò che non vuole essere e/o ciò che l’autrice presume di voler essere (che lei è in segreto), ovvero una 'Oblomov' (*) al femminile.
Chissà che tutto questo non corrisponda poi a quanto affermato dalla stessa Valentina Durante… 'Eppure, per il modo in cui ho scelto di vivere, non avrei potuto desiderare di meglio'. Il che coincide con quanto intercorre tra ‘nominalismo’ e ‘realismo’ nei 'Tipi psicologici' (*) di Jung; e tra ‘finzione’ e ‘realtà’ nella costruzione cosciente de “Il sé viene alla mente' (*) di Damasio, integrati da nuove e più complesse sequenze …
«..quella sull’incidenza delle emozioni e dei sentimenti come ponti connettivi tra il proto-sé e il Sé; quella sul discrimine tra percezione e rappresentazione degli eventi interni ed esterni al nostro corpo come base biologica, unitamente alla memoria, nella costruzione dell’identità individuale.» (Damasio)
Per quanto, il dualismo ‘apollineo-dionisiaco’ non sia mai venuto meno, la scelta di ‘Enne’ riflette, suo malgrado, dell’individualità specifica del quotidiano a cui tutti facciamo ricorso, cioè una fuga dall’essere e da quella 'società liquida' (Bauman) che ci costringe a vivere dipendenti dall’ambiente e dai '..limiti delle nostre strutture cognitive'. Dacché, avverte ancora l’autrice: 'Non sono i nostri comportamenti ad adattarsi alla realtà, non siamo noi a concepire idee compatibili con l’ambiente che ci circonda; è piuttosto la realtà che, per limitatezza del possibile, elimina tutto ciò che non è vitale'.
Un 'Fuggire da sé' (*) impresso «..nella tentazione contemporanea di imprimere un'affermazione permanente per una continua reinvenzione della vita.» Siamo certi che sia così?
Il dubbio si pone nella formulazione di una domanda condivisa, si tratta di '..una sopravvivenza migliore o peggiore' di un qualcosa che affligge il quotidiano, quella dettata dalla '..selezione ‘Enne’ che non agisce mai in senso positivo preservando le idee e i comportamenti più idonei, bensì in negativo' (?); i cui ..comportamenti e le idee che non resistono alla prova di vita, che poi è una prova di verità attraverso l’efficacia, periscono', oppure (?)...
L'altro relativo dubbio viene dal seguente brano (in Enne-tre): 'Ma non c’è sempre qualcosa di torbido, di malevolo, in tutti i nostri comportamenti? […] Ebbene, sono di fronte a una delle scelte più difficili che esistano: quella fra due azioni che rappresentano un rimedio, e per lo stesso motivo un danno'. Per quanto a questa domanda non vi sia risposta che tenga, il dubbio rimane sincretizzato nel Sé apparente del personaggio, nel dualismo reale/irreale della sua essenza: se figlio spurio di una creazione letteraria (a tavolino); oppure rivelazione oggettiva (meditata) di un Sé antropomorfo.
E ancora: se nel ‘tempo storico’ della sua affermazione 'Enne' dia forma al contenuto di un diario tout court, (sebbene l’impostazione voglia farlo sembrare); oppure di un vademecum rivestito di filosofia (?), pur tralasciando ‘la percezione visiva come attività conoscitiva’ (Arnheim), che dal quotidiano vivere si spinge alla ricerca delle ragioni intrinseche del ‘profondo’ derridiano dei 'Luoghi dell’indecidibile' (*), così come dello spazio storico e simbolico della verità ...
«..La verità (intesa) come luogo in cui il soggetto si chiama ad una sovranità e ad una responsabilità irrevocabili e incolmabili; l’indecidibile come ciò che è all’opera nel senso, che fa del dire, della lingua, della scrittura, qualcosa di più ampio di quello che la presenza, l’intenzione o la semplice percezione potrebbero esprimere.» (Derrida)
È quanto affermato con tenacia in questo libro da Valentina Durante che, pur entrando di straforo nel meccanismo contorto della riflessione filosofica, affida all’intuizione del lettore più attento, con un linguaggio scorrevolissimo dall’impatto cordiale, come per uno scambio epistolare, in cui con 'Mio caro Enne…' pure apre a un colloquiare ‘intimistico’ ricco di sottigliezze espressive, di aggettivazioni simboliche, di gesti abitudiniali e consuetudini maniacali che finiscono per procurare la vertigine nel lettore.
Quelle stesse che nella semplice espressione prosaica (non di meno poetica), raggiungono nella narrazione quella piacevolezza in cui il silenzio si sostituisce alla parola '..il modo migliore per capire chi siamo, la maniera per avere una restituzione reale di noi stessi'.
Non per questo 'Enne' può dirsi un libro consolatorio malgrado le sue ‘mille+una’ sfaccettature, quanto poetico-illusorio, allorché il/la protagonista (in ‘Enne-tre’) rivolgendo lo sguardo dal finestrino del treno immerso nel buio: '..avvolgerà i campi, le case, le fabbriche, le chiome degli alberi, le automobili e le persone, nascoderà tutto, interrotto solo da punti luminosi: arancioni e bianchi, verdi e rossi, le finestre delle case, l’illuminazione delle aree industriali, qualche semaforo'.
Un buio lucido che nell’essere rivelazione lessicale del gesto (il guardare avvolgente), s’apre in pensosa assenza nel secretum della coscienza individuale, illuminando quei comportamenti di natura morale che, diversamente, porterebbero alla verità dell‘indecidibile’ derridiano, di quella «..verità come luogo in cui il soggetto si chiama ad una sovranità e ad una responsabilità irrevocabili e incolmabili; l'indecidibile come ciò che è all'opera nel senso, che fa del dire, della lingua, della scrittura qualcosa di più ampio di quello che la presenza, l'intenzione o la semplice percezione potrebbero esprimere.»

È così che 'Enne' pur essendo tendenzialmente un/una ‘oblomovista’ si riscatta da un atteggiamento ozioso e sterile, vivendo per così dire, o se vogliamo, sopravvivendo, affetto da patologia filosofico-letteraria propria dell’inguaribile idealista, senza paure e senza aspettative, nella pienezza della libertà acquisita, o forse solo ritrovata (?), pur nella consapevolezza che non esiste un mondo migliore. Ma il gioco verbale continua, riprende da dove è iniziata la sua costruzione, avvenendo subito dopo (in Enne-quattro) alla sua de-costruzione.
Cambia la scena, il buio rimane, il lucido iniziale si screzia di pioggia, la visibilità nell’abitacolo dell’auto scema: 'Noi crediamo di vedere, […] noi soprattutto sentiamo'. Per quanto sentire è la forma primaria dell’immaginale individuale e collettivo, concepimento del fantasticare dei sentimenti, del desiderio talvolta recluso che si porta in superficie malgrado una qualche volontà contraria lo sospinga sul fondo; e che, più spesso, porta allo sdoppiamento della personalità, in cui il Sé ricompone il proprio dualismo originario 'l‘io e l’altro', le due faccie della stessa medaglia, e finisce per incorporare in sé 'Il dottor Jekyll e Mr. Hyde' (*), nel suo sostenere che l’essere umano è diviso a metà tra il bene e il male.
'Enne', in quanto personaggio, non sta nei panni dell’uno né dell’altro '..l’unica conoscenza possibile è quella simbolica, che procede per somiglianze e immagini'. – Questo l’autrice lo sa bene, che - 'Non esistono realmente cause o effetti, come non esistono cose che possiedano proprietà intrinseche. Possiamo però considerare i fenomeni (che le regolano) ‘come se’ producessero effetti, e le cose ‘come se’ avessero proprietà, in modo identico, cioè, alla loro rappresentazione'.
Ma quella che forse è solo l'istanza dettata da una inderogabile necessità, fa di 'Enne' l’equivalente di un sognatore/trice ad occhi aperti: '..la confortevole illusione di un mondo provvisto di senso' che nella realtà non esiste: 'Lo so benissimo – scrive Valentina Durante e possiamo dedurre che sia vero – che quel viaggio in treno (e qualunque viaggio sia di seguito narrato) per come l’ho immaginato, non è avvenuto e non avverrà mai. Eppure la mia supposizione – il 'come se' – resta formalmente valida. Considerala, se più ti piace (Caro Enne lettore), un punto di vista soggettivo dal quale leggere i comportamenti umani'.
Dacché, come commentatore, trovo il mio punto d’arresto, tutto quanto potrei aggiungere in seguito sarebbe comunque basato sul susseguirsi di una supposizione dietro l’altra, di eventi intrappolati nel 'tempo ipotetico' della narrazione. Nel prosieguo l’autrice mi ha preso per mano conducendomi 'ab aeterno ad infinitum' dove ha voluto, formulando domande su domande sulle quali tante volte anch'io mi ero soffermato, tuttavia senza trovare risposte adeguate. Ma non potevo trovarle, perché ero cieco, non vedevo più in là della mia immagine. Infatti scrive ancora l'autrice...
'Solo ora mi accorgo che sono gli occhi. Sì la differenza rispetto a tutti gli altri autoscatti archiviati nel mio computer, nessuno eccettuato, sta certamente negli occhi, (chiusi nel silenzio della sua scatola), e quando ...
Mi avvicino allo schermo.
La sua luce azzurrata mi sfarfalla in faccia.
Mi avvicino ancora.
Poi ancora.
E finalmente lo vedo nei miei occhi, stasera, c’era uno sguardo bellissimo'.
È il mio. ‘Enne’?

Quindi dove sono le risposte? Si chiederà perso il lettore attento. Sono contenute nelle pagine del libro che Valentina Durante ha scritto per il piacere di tutti. Sì, per quei molti lettori che increduli, forse, in fine, usciranno convinti che le risposte erano già verosimilmente in noi.

L’autrice Valentina Durante, è copywriter e consulente di comunicazione freelance, ha lavorato come ricercatrice di tendenze coordinando per la Camera di Commercio di Treviso un gruppo di stilisti, designer, artisti, progettisti e fotografi. Il suo primo romanzo “La proibizione” è uscito nel 2019 per l’editore Laurana. Suoi racconti sono stati pubblicati su varie riviste letterarie e non, tra cui 'Leggendaria', 'Altri Animali' e nella raccolta 'Polittico'. Dal 2019 collabora con la Bottega di narrazione di Giulio Mozzi. 'Enne' è pubblicato da Voland 2020.

Buona lettura e buon ascolto a tutti voi con l’augurio di un più sereno 2021.

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