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’LUIGI TENCO - Il poeta con la luna in tasca’

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 12/01/2014 18:53:17

LUIGI TENCO: Il poeta con la luna in tasca.

 

Riascoltare oggi Luigi Tenco assume significato di riappropriazione di ciò che appartiene al presente più che al passato. Seppure gli anni ’60, sembrano lontani, che quasi il loro ricordo scolora, non è così. Alcuni artisti di quegli anni così tumultuosi, la cui eco la si sente ancora risuonare nell’aria, avevano prevaricato il loro tempo, quasi che il tempo concessogli fosse stato da loro in qualche modo ‘rubato’ o forse, per una qualche futile ragione, estorto o meglio, sottratto, strappato con la forza e con l’inganno, dalla malasorte. È questo il caso di Luigi Tenco cantautore di Alessandria (poi naturalizzato ‘genovese’), che proprio nel 1960 esternava la sua alienazione verso un sistema, quello dello show business discografico, contro la pochezza, la superficialità e le insulsaggini di certa cultura televisiva e radiofonica. Un disagio il suo, vissuto interiormente, direi quasi fisicamente, che gli arrivava da quella sorta di ‘rivoluzione mancata’, come venne definita l’animosità giovanile di quegli anni, che egli espresse nei testi delle sue canzoni, tutte impregnate di una malinconia struggente, anche quando la ‘leggerezza’ (si fa per dire) del sentimento provato non lo richiedeva. Ed è proprio in questo che sta la differenza, tra un sentimento vissuto da ognuno in maniera diversa e Luigi Tenco, che orse non conosceva altro modo di affrontarlo se non quello di interiorizzarlo e restituirlo poi, in un secondo drammatico momento, in forma poetica servendosi della sottile musicalità insita nella sua voce virile e penetrante, capace di scuotere o, forse, di ‘annichilire’ la sensibilità d'animo provata degli innamorati infelici. Quasi volesse metterli al cospetto della responsabilità dei propri sentimenti, delle proprie azioni quotidiane, con la stessa semplicità di una passeggiata lungo ‘..la solita strada’ o lo '..sfogliare le riviste femminili’, onde per cui tutto doveva avere un senso pieno, di vita vissuta. E forse aveva ragione lui, dico io che scrivo con il senno di poi, perché è questa vita che ci riveste e che talvolta soltanto ci sfiora, che in qualche modo spetta a noi di autenticare come 'nostra', pur nella legittimazione con gli 'altri'. Ecco, Luigi Tenco era in questo già oltre il suo tempo, anche se non so dire in che misura egli rientri in quello attuale. Fatto è che le sue canzoni ‘nichiliste’ sembrano scritte ‘in tempo reale’ e rispecchiano un certo ‘esistenzialismo’ decadente tornato improvvisamente di moda. Come se un muro (prendiamo a simbolo quello di Berlino), sia improvvisamente caduto disgiungendo l’esistenza di tutte le realtà sociali, dei valori come dei sentimenti, ed anche dei rapporti interpersonali, al punto di non riconoscere più la ragione di certe azioni, lo scopo ultimo di una contestazione in atto contro il nulla, contro ciò che, per dirla con Bauman, possiamo considerare la ‘società liquida’ avulsa dalla catarsi rigenerativa che la forma. Non ho mai incontrato Luigi Tenco (pensate che firmava i suoi pezzi con lo pseudonimo di Gigi Mai, quel 'mai' che non sarebbe stato), ma se mi fosse capitato l’avrei chiamato per nome: “amico” gli avrei detto per un consenso di colpa verso chi non stavamo a sentire, “fermati qui a parlare un poco con me, raccontami una storia che non sia vera”; solo perché la realtà uccide la poesia che invece ha bisogno dei sogni come delle illusioni per essere sempre all’altezza dell’amore. Di quell’amore che il cantautore, in qualche modo, ha trattenuto nelle sue parole, restituendone solo il dolore che esso produce e non la gioia che procura la sua emozione. E ciò non per eccesso di protagonismo intellettuale quanto per la lacerante contraddizione di quel fermento creativo, che ha contraddistinto gli anni ’60. Siamo all’apologia esaltata o esaltante di tutta una ricerca ‘sul campo’ svolta da intellettuali d’ogni risma che andavano scandagliando il territorio alla ricerca di ‘realtà’ semi-dimenticate (non obsolete) nel tentativo di restituire alla cultura italiana la sua ragione d’essere, che in verità ‘era’ stata. E che, per l'appunto ‘era stata’, cioè entrata a far parte della ‘contestazione’ in atto, perché in parte la si voleva dimenticare, perché aveva creato paure, dubbi esistenziali, come la guerra aveva portato fame e distruzione, e si aveva paura dei fantasmi della morte. È senz’altro facile oggi dubitare di queste cose, ma in quegli anni tutto ciò che ho elencato era ancora nell’aria e lo si respirava ancora nel respiro affannoso della gente comune che doveva affrontare un ‘miracolo economico’ improvviso quanto incredibile. Luigi Tenco nelle sue canzoni rappresentava tutto questo, l’umore umbratile della gente, il lato malinconico dei sentimenti … Ma “Quello che conta”, per citare una delle più belle canzoni da lui interpretate, in questo caso è fare luce non tanto su una biografia lacunosa e scostante su cui troppo spesso s’è ricamato e versato, col senno del poi, copiose lacrime di coccodrillo, quanto sui meriti (e i limiti) pubblici, concettuali e, soprattutto, musicali di un personaggio in netto anticipo e dunque in aperto conflitto coi suoi tempi. (..) Tenco incarna a fior di pelle, spesso suo malgrado e fino alle estreme conseguenze, le contraddizioni più profonde e laceranti, ma anche i fermenti più vivi e fecondi, che racchiude in un canzoniere di appena cento brani e tre soli album, non sempre all’altezza, complessivamente, delle punte più alte del suo idiosincratico talento lirico e compositivo. (..) Tenco ha attraversato e impietosamente ritratto la società italiana di quegli anni, il mondo asfittico della nostra canzone popolare, come un icastico incrocio di Jacopo Ortis e del personaggio interpretato da Jean-Louis Trintignant ne “Il Sorpasso” di Dino Risi. Oscillando stilisticamente fra l’esistenzialismo “decadente” e il pop-jazz da camera degli esordi e il folk impegnato (e purtroppo incompiuto) della cosiddetta “linea gialla”, fra una malinconica, sconsolata rassegnazione e una sferzante, quasi nevrastenica ansia di sovversione e rinnovamento. La sua prosa aspra e disadorna - prevalentemente in versi sciolti e così poco convenzionale rispetto all’estetismo puritano dell’epoca - che mescolava il soliloquio allucinato all’intimismo asciutto ed essenziale, la poesia crepuscolare delle piccole cose all’invettiva bruciante ed esasperata, al pari del suo personaggio scontroso e antisociale, ne fa un antesignano degli eroi tormentati e “maledetti” del rock alternativo (che più volte gli renderanno omaggio) ancor prima che dei cantautori militanti degli anni 70. Ecco allora che gli ‘altri’ non erano semplicemente gli ‘altri’, e i poeti/cantautori attivi nel decennio reclamavano un ‘altra’ realtà, un’uguaglianza e una libertà che elargisse anche ai sentimenti, alle emozioni come ai sogni, uno spicchio di luna, unica rimasta a sostegno degli innamorati. E si chiamavano Lauzi, Paoli, De André, Reverberi, Patruno, Gaber, Celentano, Minerbi, Jannacci, Bindi, Piero Litaliano (Ciampi), Dalla, ma anche Pasolini, Salce, Boneschi, Morricone e tantissimi altri dei quali oggi ci si dimentica, troppo spesso e troppo presto. Di Luigi Tenco (dopo che non c’è più) si è detto e si può dire di tutto: “una vita buttata via”, “una vita inutile”, “una vita sprecata”, ecc. ecc. Ma ancora una volta dico che non è così. Tenco ha dato un senso alla propria vita, per breve che sia stata; ha dato un senso alla sua morte, procurata e discutibile quanto si vuole, indubbiamente coerente con quella che era la sua indole di "..cantore dei lati più oscuri de decennio, e ne ha incarnato le contraddizioni più laceranti ma anche i fermenti più creativi. Fino al gesto estremo che gli conferì la sua statura tragica, proiettando un'ombra su tutta la canzone d'autore e la musica ‘alternativa’ italiana degli anni ’60 e oltre". Noi, i giovani di ieri, che ne siamo i testimoni, non possiamo non riconoscere a Luigi Tenco (non il solo) di aver portato in Italia quello che era lo ‘spirito’ del tempo, sia della “Nouvelle Vague” francese (Brassens, Brel, Ferré, Grecò, Camus, Sagan, Prevért, De Beauvoir); sia del ‘noir’ tipico dell’inquietudine, che dalla Francia aveva invasa l'Europa portando sugli schermi il ‘neorealismo’ francese ma anche  italiano e inglese, subito ripreso oltreoceano dalla nascente cinematografia hollywoodiana che più d’ogni altra individuò nel ‘noir’ una fonte inesauribile di creatività e di denaro. Ma non c’è in me che scrivo nostalgia per quegli anni, per certi aspetti migliori ma anche peggiori per altri, quanto forse il persistere di una certa malinconia rivolta agli affetti, di quando un poeta poteva andarsene in giro con la luna in tasca e scrivere le sue canzoni d’amore. Che piacessero o no Luigi Tenco le 'sue' le avrebbe scritte comunque, come del resto fece con molte delle sue meno conosciute e che spaziano dal folk-rock allo swing-jazz e che hanno il sapore degli anni giovanili del poeta/cantautore, non poi così diversi da quelli dei giovani d’oggi, pregne delle contaminazioni della musica cosiddetta ‘cool’ proveniente d’oltreoceano che tanto infervorava ieri e ancora oggi infervora l’immaginario giovanile, da Chet Baker, Gerry Mulligan, Paul Desmond, Miles Davies, ed altri. "L’anno che segna la svolta cruciale ma anche decisiva nella sua carriera d’artista è indubbiamente il 1962, foriero di eventi che sembrano schiudergli le porte di quella fama a cui s’è sempre accostato con un misto di riluttanza e curiosità. Anche se in realtà il tentativo di vendersi sul mercato discografico come la voce più originale e fuori dal coro della prima generazione di cantautori non andrà mai oltre un seguito limitato e una generica notorietà". Qualche anno dopo, Tenco difenderà questo suo atteggiamento, apparentemente ambiguo e inconsapevole, affermando: “..oggi gli strumenti per comunicare con la gente sono quelli e anche a costo di passare da qualche forca caudina, a quegli strumenti bisogna arrivare, perché sono strumenti formidabili … Il menestrello che oggi va a cantare sotto le finestre non dice niente, non serve a niente." Pur trattandosi di brani difficili, la sua interpretazione è sempre così intensa e personale da renderli di fatto inscindibili dal suo canzoniere più autentico: sontuosa, struggente e crepuscolare, che scintilla teneri barlumi fra le ceneri della mondanità e dell’ipocrisia: “..desso che il fumo cancella l’estate/ e il grigio ritorna scendendo su noi/ la lunga vacanza si chiude per sempre/ pure qualcosa di noi resterà”. Come unico antidoto all’alienazione, canta: “..ormai siamo soli nel centro del mondo/ qualcosa divide la gente da noi/ ma quello che conta è non essere soli/ quello che conta è che tu sei con me”. Nonostante un certo scollamento stilistico e tematico dovuto alla ridotta progettualità che ne consegue, Tenco è il prodotto della “scuola genovese” e un interessante precursore del cantautorato italiano che volse nella canzone una sorta di panacea dei conflitti sociali e personali, a cominciare da “Cara Maestra” , uno dei suoi migliori brani di sempre, dove, col picking sferzante e l’ironia irriverente d’un Brassens, Tenco mette alla berlina, attraverso tre vignette di grande efficacia, la società classista dell’epoca: “Cara Maestra un giorno mi insegnavi/ che a questo mondo siamo tutti uguali/ ma quando entrava in classe il direttore/ tu ci facevi alzare tutti in piedi/ e quando entrava in classe il bidello/ ci permettevi di restar seduti”. Altrettanto ardita, per l’epoca, è l’epica cabarettistica e boulevardien di “Angela” (misto di Brel e Weill), tutt’ora magnifico il torpido esistenzialismo alla Sagan di “Mi Sono Innamorato di Te” (cantata pianistica con accompagnamento d’archi), decisamente più ozioso e datato appare, invece, il surrealismo (quasi “buzzatiano”) a tempo di valzer di “Come Mi Vedono Gli Altri”: “La mia paura è che a vedere me come sono/ Io potrei rimanere deluso”. Eccezion fatta per il discreto successo di “Mi Sono Innamorato Di Te”, nell’anno in cui trionfano “Fatti Mandare Dalla Mamma” e “I Watussi” e “La Partita di Pallone”, il debutto di Tenco cade presto nel dimenticatoio, tarpato anche dalla censura della commissione Rai che boccia senza appello “Cara Maestra”, “Una Brava Ragazza” e “Io Sì”, inibendo per quasi due anni il cantautore tanto dai passaggi radiofonici che da quelli televisivi. Il periodo di esilio coatto acuisce ancora di più il suo rapporto contraddittorio con la celebrità: da una parte rivendica orgogliosamente la propria integrità artistica e morale: “Il personaggio, come l'antipersonaggio, sono qualcosa di costruito, uno stereotipo fatto in serie. E io invece voglio essere una figura vera, con le sue idee, sbagliate o giuste che possono apparire. E con quale metro giudicarle, con quello del conto in banca? Bene, lascio volentieri ad altri questo sistema metrico. A me non importa nulla di essere 'integrato' nel sistema organizzativo”. Successivamente Luigi Tenco segna un deciso passo avanti: più coeso, elegante ed elaborato, costruito su fastosi arrangiamenti da camera in cui confluiscono melodie popolari, armonie classiche e ritmiche jazzistiche, atmosfere languide, confidenziali, decadenti, e liriche che, in linea di massima, tralasciano gli spunti (anti)sociali per concentrarsi su un’ossessiva ed erratica introspezione. Musicalmente, senza dubbio il punto più alto nella breve carriera del cantante piemontese. Stilisticamente, un compendio delle influenze più significative assimilate fino a quel momento. L’insieme delle composizioni, pur nella ricercata ripresa dei motivi di fondo, è vario e ricco di sfumature: la propensione verso una forma nostalgica e retrò di pop-jazz è testimoniata da passaggi come “Tu Non Hai Capito Niente” (scandita da uno xylofono alla Hampton) e “Non Sono Io” (con armonie vocali da “quartetto di barberia”), ma laddove l’incalzante shuffle “Ah… l’amore, l’amore” sbandiera un riuscito connubio soul, “Ho Capito Che Ti Amo” e “Quasi Sera” (a tratti quasi lounge) indulgono in un suggestivo parallelo fra Bacharach e la chanson francese, su cui l’accorata “Com’è Difficile”: “Com’è difficile veder sfuggire / tutti i miei sogni in un bicchier d’acqua / senza neanche aver visto il mare”. “Vedrai Vedrai” (poi ripresa da Ornella Vanoni e Mia Martini) è una cupa e vibrante torch song pianistica, una toccante confessione dagli echi quasi pasoliniani (e freudiani): “Tu non guardarmi con quella tenerezza come fossi un bambino che ritorna deluso”, in cui affiorano, spogliate d’ogni estetismo retorico, le antinomie più intestine dell’artista (e dell’uomo): orgoglio e fragilità, fibra morale e senso di colpa: “..mi fa disperare il pensiero di te e di me che non so darti di più”, pessimismo e speranza: “vedrai, vedrai, non son finito sai/ non so dirti dove e quando ma vedrai che cambierà”. La sincopata marcia bandistica “Ragazzo Mio” (portata poi al successo da Loredana Bertè) è una sorta di profetica epistola a un immaginario erede: “Ragazzo mio, un giorno ti diranno che tuo padre/ aveva grandi idee per la testa/ ma in fondo poi non ha concluso niente”. ritenuto il suo testamento spirituale e manifesto del proprio idealismo, qua e là incrinato dalla disillusione: “Ma tu non credere, no/ che appena s’alza il mare gli uomini senza idee/ per primi vanno a fondo”. Infine, lo spleen madrigalesco di “Se Potessi Amore Mio” (a lungo nel repertorio live di Vinicio Capossela) che, col suo stile semplice e colloquiale, fruga nei sentimenti e nelle emozioni frustrate dal peso della quotidianità. Alla fine 1965 la musica italiana (e l’immaginario giovanile nel suo complesso) è aggredita da un fervido quanto epidermico subbuglio: si parla di Carnaby Street e del Vietnam come se fossero dietro l’angolo, si va a ballare al Piper (punto di riferimento della nuova scena e unica vetrina per ammirare astri nascenti come Who, Pink Floyd, Jimi Hendrix, i Genesis o i Soft Machine), alla radio “Bandiera Gialla” filtra le note della “British invasion”, si assiste alla prima volta dei Beatles in televisione e alla consacrazione internazionale del nuovo Dylan “elettrico” (e i Byrds che entrano anche qui da noi in Hit Parade con “Mr. Tambourine Man”), una variopinta e scombiccherata orda di gruppi italiani: Equipe 84, Rokes, Ribelli, I Corvi, I Nomadi, denominati comunemente beat, incidono inedite, pittoresche e abborracciate cover di successi stranieri. Tenco che era stato uno dei primi a “scoprire” il genio di Duluth, tanto da prodursi in una goffa cover di “Blowin’ The Wind”, “La Risposta è Caduta Nel Vento”, del 1964, suonata a ritmo ferroviario e con un testo adattato, un po’ alla meglio, insieme a Mogol, si accosta a questo ribollente carrozzone - un indigesto miscuglio di vecchio e nuovo, voci flautate e urli alla maniera dei neri, melodico e beat, mimetismo libertario e conservatorismo imprenditoriale, con l’ambizione di condurlo a una piena autonomia espressiva, alla consapevolezza delle proprie potenzialità comunicative, di dare una decisa sterzata sia in senso musicale che politico, saldando, sull’esempio di Dylan, musica da ballo e canzone di protesta, beat e folk. È questo un concetto che Luigi Tenco rivendicò fino all’ultimo, come in questa intervista a “Big” del gennaio 1967: “Secondo me la soluzione non è quella di guardare all'estero per imitare il genere degli altri. L'unica cosa da fare è sfruttare il patrimonio musicale nazionale. (..) Bisognerebbe prendere melodie tipiche italiane e inserirle nel sound moderno, come fanno i negri con il rhythm and blues, che proviene dal jazz, o come hanno fatto i Beatles, che hanno dato un suono di oggi alle marcette scozzesi invece di suonare con le zampogne. (..) Il patrimonio folcloristico di una nazione, lo ripeto, è tanto vasto che ogni cantante e compositore potrebbe attingervi mantenendo la sua personalità: se uno vuol fare la protesta, può protestare, se un altro vuol far ballare la gente, può farla ballare, ce ne sarebbe per tutti”. Le due anime di Tenco, quella decadente e quella engagé spartiscono in due filoni distinti la sua ultima produzione discografica: pezzi come “Lontano, Lontano”, serve per disincantate scene da un matrimonio: “Un giorno io ti sposerò, stai tranquilla/ così avrai diritto a tutte quelle cose/ che io oggi ti do solo per amore”. Ma è “Un Giorno Dopo L’altro”, già sigla del “Maigret” televisivo di Gino Cervi, uno dei suoi capolavori fatalisti di sempre: “La nave ha già lasciato il porto e dalla riva sembra un punto lontano/ qualcuno anche stasera torna a casa deluso piano piano/ Un giorno dopo l’altro la vita se ne va/ e la speranza ormai è un’abitudine”. All’altro filone sono riconducibili “Io Sono Uno”, autoritratto pennellato nello stile aspro e berciante d’un Barry Mc Guire, la dylaniana “E Se Ci Diranno”, declamatorio inno alla disobbedienza civile e capostipite assoluto della scena folk-rock (o folk-beat secondo la nomenclatura di allora) italiana, il garage-beat all’acqua di rose di “Ognuno è Libero”, e la stralunata “Ma Dove Vai”, stornello intonato su un’arietta merseybeat. E siamo così giunti all’epilogo. Se questa fosse una favola, ora assisteremmo a un lieto fine. Se fosse un giallo, qualcuno ci rivelerebbe l’identità del colpevole. Ma la vita di Tenco assomiglia piuttosto a un noir, uno di quelli realistici degli anni 30, scritto da Jacques Prevert e Marcel Carné, pieno di nebbie e di personaggi ambigui che celano la loro vera identità dietro un cappotto lungo e un cappello calato ad arte sugli occhi, ed è quindi logico, quali che ne siano le ragioni, che il protagonista vada incontro all’inevitabile scacco del destino, a una sconfitta solo apparente che gli conferirà una statura tragica degna della sua arte, un riconoscimento postumo alla sua diversità e al suo valore. Con l’ultima di quelle imprevedibili oscillazioni tipiche del suo carattere, Tenco, all’alba della protesta giovanile, spiazza tutti accettando la proposta di partecipare al diciassettesimo Festival di Sanremo, in coppia con la cantante francese Dalida. Ma forse è solo l’estremo tentativo da parte del cantautore di inseguire quel successo popolare che lo ha ossessionato come un malocchio nell’ultima parte della sua carriera, questo non lo sapremo mai. Quello che è sicuro è che la sua ultima canzone, “Ciao amore, ciao”, svilisce uno dei testi più lucidi e poetici mai scritti sullo spopolamento delle campagne e lo sradicamento culturale degli emigranti: “In un mondo di luci sentirsi nessuno/ (..) non saper far niente in un mondo che sa tutto/ e non avere un soldo neanche per tornare”. Dopo la sua tragica scomparsa le tre case discografiche con cui aveva inciso continueranno a sfruttare la sensazione dell’avvenimento e l’alone di mistero che tuttora aleggia sul personaggio pubblicando con successo un sfilza di antologie divise per periodo (cinque la Ricordi, due la Rca e una la Jolly/Joker). Nel nome di Tenco si affermerà, altresì, una battaglia per una musica pop di qualità, “alternativa” ai circuiti mediatici della grande distribuzione, libera dall’assillo del successo popolare e del consenso di massa, la testimonianza prima e la sopravvivenza poi di mondi 'altri e possibili' all’interno di questo angusto e vilipeso universo culturale. Nel 1972 Amilcare Rambaldi costituisce il Club Tenco, che due anni più tardi diventa anche un premio-omaggio ai valori tramandati dal cantautore piemontese e prestigioso riconoscimento all’eccellenza nell’ambito della canzone d’autore - assegnato, nel corso di più di trenta edizioni, ad alcuni fra i maggiori esponenti della musica italiana (De André, Conte, Guccini, Vecchioni, Gaber, Jannacci, Baustelle) e internazionale (Ferrè, Brassens, Brel, Cohen, Newman, Mitchell, Donovan, Waits, Cave, Cale). Numerosi sono, inoltre, gli omaggi musicali e i riferimenti a Tenco nella storia della canzone popolare. Oltre a una infinità di cover e tributi che coinvolgeranno esponenti vecchi e nuovi, provenienti sia dalla musica tradizionale sia da quella alternativa (dai Nomadi ad Alice, da Guccini a Capossela, dai La Crus a Parente, dagli Afterhours a Gatto Ciliegia Contro Il Grande Freddo, da John De Leo a Mike Patton). Particolarmente significativi, per la loro valenza simbolica, sono alcuni versi a lui dedicati nel corso degli anni, da: “Preghiera in Gennaio” di Fabrizio De André, scritta di getto il giorno dopo la morte dell’amico, che onora nel suo lungo addio: “Quando attraverserà l'ultimo vecchio ponte/ ai suicidi dirà baciandoli alla fronte/ andate in paradiso, laddove vado anch'io/ perché non c'è l'inferno nel mondo del buon Dio” . “Festival” di Francesco De Gregori che in “Bufalo Bill” 1976, difende lo spessore umano di Tenco e la sua tormentata fragilità dalle speculazioni più morbose: "Qualcuno ricordò che aveva dei debiti, mormorò sottobanco che quello era il motivo/ Era pieno di tranquillanti, ma non era un ragazzo cattivo" e mette in risalto l’opportunismo con cui, dopo la tragedia, molti colleghi e discografici fecero a gara pur di brillare di macabra luce riflessa: "..si ritrovarono dietro il palco, con gli occhi sudati e le mani in tasca/ tutti dicevano: Io sono stato suo padre!', purché lo spettacolo non finisca". Più recentemente, nuovi omaggi sono venuti dai Baustelle, che in “Baudelaire” dice “Luigi Tenco è morto per te”; scorgono nel suo gesto un’aura quasi messianica, accostandone la figura a quella del grande poeta francese. Non in ultimo si deve a Fabri Fibra, che, al termine di una grottesca invettiva contro i king maker del pop italiano, vi si identifica nel pezzo “Andiamo a Sanremo”: “..lo trovano per terra sdraiato sul tappeto/ con una pistola in mano e un buco in testa/ non sono certo il primo che protesta/ che protesta a Sanremo!”.

 

Si ringraziano:

Per l’informativa musicale utilizzata in questo articolo, Simone Coacci di Ondarock.

 

Il sito Luigi Tenco 60's - La Verde Isola http://www.luigitenco60s.it/ per la passione profusa nel tramandare la memoria del cantautore di Cassine.

 

La rivista musicale “BIG” anno 1967 e successivi per la quale ho redatto innumerevoli articoli e interviste.

 

Il Club Tenco per la ha creazione nel 1974 del Premio dedicato. I riconoscimenti vengono assegnati ogni anno nel corso della "Rassegna della canzone d'autore", presso il Teatro Ariston di Sanremo, alla quale vengono invitati i nomi più interessanti della canzone d'autore. I premi si suddividono in due categorie: il Premio Tenco (assegnato direttamente dal Club Tenco alla carriera di cantautori e operatori culturali, solitamente internazionali); le Targhe Tenco (assegnate da una giuria di 170 membri ai migliori dischi dell'annata).

I premi del Club Tenco hanno guadagnato sempre più fama e valore nel panorama della critica musicale nel mondo. Club Tenco - Rassegna della canzone d'autore www.clubtenco.it/‎

Club Tenco. via Matteotti, 226. casella postale 1. 18038 Sanremo. T. 0184 505011. F 0184 577289. E info@clubtenco.it. Credits. E info@clubtenco.it Credits.

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