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sapere è/e sapore

Argomento: Alimentazione

di Silvana Sonno
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Pubblicato il 19/01/2016 15:38:13

introduzione diSilvana Sonno,in SOPRAVVIVERE AL CIBO:UNA NUOVA DIET-ETICA, AUTORE: RAFFAELE RUOCCO, ED. AGUAPLANO

"La definizione dell' Unesco considera la cultura come “una serie di caratteristiche specifiche di una società o di un gruppo sociale in termini spirituali, materiali, intellettuali o emozionali”. E a partire da questa definizione risulta innegabile che il cibo è da considerare fattore culturale a tutti gli effetti, se inteso, fin dai primordi dell'evoluzione della nostra specie, come risposta al bisogno primario della fame e della sopravvivenza, ma attraverso percorsi che sono il risultato di complesse attività umane, che vanno dalla conoscenza e raccolta dei prodotti naturali spontanei, alla loro coltivazione e selezione e produzione, attraverso l'agricoltura, la caccia,l'allevamento, alla loro conservazione e elaborazione attraverso semplici o sofisticate pratiche culinarie, oltre all'invenzione e costruzione di strumenti e utensili necessari a garantirne la piena riuscita.
Gli esseri umani, come si sa, sono onnivori, quindi caratterizzati da una grande flessibilità, data dall’assenza di specializzazione alimentare, che ha consentito alla nostra specie di colonizzare tutti gli habitat della terra, adattandosi quindi alle differenti tipologie di cibo offerte. Questa disposizione ha avuto notevoli conseguenze e ha ridisegnato nei secoli e nei millenni il paesaggio naturale del pianeta, soggetto a una forte antropizzazione e - nel dipanarsi del divenire storico - a vere e proprie
razzìe a scapito delle sue risorse alimentari, favorendo la crescita a dismisura della ricchezza, dei commerci, dei consumi in alcune società, nello stesso tempo in cui venivano (vengono) condannate alla fame e alla sete milioni di persone, che a quelle risorse – specularmente – non potevano (possono) avere accesso.
Gli animali si nutrono e l'essere umano mangia. In questa semplice affermazione si racchiude la divaricazione tra natura e cultura che ha attraversato e attraversa anche l'alimentazione umana, dove la dimensione simbolica del cibo si è fatta subito evidente, tant'è vero che possiamo studiarne le tracce nel paesaggio storico della specie, delle sue fortune e delle sue tragedie, in pace e in guerra,
in abbondanza e miseria. Penso alla presenza del cibo nell'arte, nella filosofia, nella religione (in principio fu una mela), nella politica; penso alla via delle spezie e ai ricettari della latinità e poi a quelli prestigiosi dell'Umanesimo, ai banchetti rappresentati nel vasellame ellenico e negli affreschi tombali dell'antichità, alla letteratura, alla scienza, alla tecnologia e al mito. Un elenco imperfetto e volutamente mantenuto fuori da una qualsivoglia cronologia e/o geografia, a indicare la potenza semantica degli alimenti e dell'alimentarsi, che si esprime in immagini e simboli sempre
attuali. Non dobbiamo dimenticare quanto nella nostra cultura il cibo sia intrecciato a metafore che riguardano ambiti apparentemente distanti, e che la lingua conserva e rivela quando, ad esempio,diciamo che abbiamo “fame” di conoscenza, “sete” di sapere, “appetiti” intellettuali, quando confessiamo di non “digerire” certi argomenti (o persone), quando “ruminiamo” su certi progetti, quando non siamo mai “sazi” di certe esperienze, quando “divoriamo” un libro o abbiamo “nausea”di uno spettacolo, quando diciamo parole “dolci” o “acide”, oppure raccontiamo aneddoti “piccanti”.Quando intimiamo a qualcuna/o: - Parla come mangi!Oppure ci accorgiamo di “divorare con gli occhi” una torta, un quadro, una persona. Il bisogno di nutrirci (sia in senso materiale che simbolico), da una parte ci stringe a un rapporto intimamente individuale con ciò che mangiamo,che è intrecciato anche dei complessi percorsi affettivi che legano i sapori che amiamo alle esperienze più profonde e antiche della nostra vita, senza i quali – come ci ricorda Proust nell'episodio delle madeleines - molti saperi sarebbero morti al ricordo e, attraverso il ricordo, al contatto con noi stessi e la nostra storia; dall'altra ci lega ai riti e alle tradizioni del territorio in cui siamo nate/i e viviamo, che conservano il sapere e l’esperienza cumulata da generazioni prima di noi, in una complessa serie di rituali, ricette, regole, tabù, veri e propri codici identitari e relazionali. E in questo intreccio di saperi e sapori si conserva la memoria atavica dell'umanità: il suo lungo pellegrinaggio su strade che si intersecano e si dividono, in cammini che portano verso il cibo della fame e/o il cibo dell'abbondanza. Ricordo a questo punto un'intervista al grande José Saramago in cui raccontava di essere stato interpellato sull'opportunità di fare leggi per liberalizzare le sostanze stupefacenti. - Mi hanno chiesto: – ricordava lo scrittore - lei è in favore della liberalizzazione delle droghe? Ho risposto: prima cominciamo con la liberalizzazione del pane. E' soggetto a proibizionismo feroce in metà del mondo.- E sì, perchè se si parla di cibo non possiamo dimenticare che, se questo è la croce e la delizia dei nostri tempi, in questa parte del mondo in cui l'obesità è di gran lunga più vicina alle porte di casa che non la denutrizione; la malnutrizione, e i disturbi dell'alimentazione di gran lunga le esperienze più condivise e più tematizzate nella comunicazione sociale - che pure le induce attraverso la pubblicità e modelli di consumo alimentare, sempre più lontani dai bisogni organici della nutrizione- , esso è solo croce per una parte consistente dell'umanità, “inchiodata” al legno di una tavola sempre tragicamente vuota o quantomeno insufficiente a soddisfare le necessità alimentari di popolazioni spinte, fin dalla nascita, verso la malattia e la morte per denutrizione.
Paradossalmente anche questa situazione è un aspetto della scena sociale dove si rappresentano i banchetti della storia; anche la fame dunque è un fattore culturale, in quanto frutto di deprivazione per giochi di potere, dove le potenze mondiali e i loro mazzieri allestiscono partite truccate a spese dei poveri e degli ultimi. E ben dice Luigi Pulci nel suo Morgante, quando mette in bocca al gigante Margutte una professione di fede, in odore di blasfemia, ma giocosamente irriverente delle contrapposizioni religiose che vedono i paladini di Francia e i saraceni “miscredenti”scannarsi nei
campi di battaglia dell'ennesima crociata:

...ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli crede;
e credo nella torta e nel tortello:
l'uno è la madre, e l'altro è il figliuolo;
il vero paternostro è il fegatello...

Morgante, il “gigante nano” (cosiddetto per la sua statura di "soli" 4 metri, a differenza dei tradizionali 8 degli altri giganti del poema), esprime la propria risposta ai tempi incerti e imprevedibili in cui vive,facendo del ventre e del cibo le sue divinità tutelari, ma non è forse vero che tanti soggetti sociali – anche nei paesi cosiddetti “ricchi”della contemporaneità – vivono stesse insicurezze materiali e simboliche? Senza più limiti di natura etica o culturale la nostra civiltà ci chiama a razziare le risorse della terra - fuori dai riti e dalle tradizioni che da sempre le contengono, dentro un orizzonte di bisogni consapevolmente agiti - avvelenando i nostri corpi e le nostre menti, paradossalmente spingendoci a enfatizzare e drammatizzare il nostro rapporto col cibo, nel periodo forse di maggiore abbondanza e disponibilità degli alimenti.E a questo proposito, possiamo utilmente meditare su uno dei principi cosmologici comuni a molte antiche mitologie - a cui anche la scienza sembra dare, in qualche modo, credito - che ci raccontano del Caos primordiale, da cui sarebbero nate tutte le entità preposte allo sviluppo dell'universo e delle sue forme di vita. Nel mito greco, esso viene rappresentato come una voragine profonda, una cavità oscura, una bocca vorace - la parola Caos deriva dal verbo greco chasko, che significa “aprire la bocca” - da cui usciranno tutti gli elementi che daranno poi origine a Cosmo,l'universo ordinato in cui trova posto la storia dell'umanità.Il lungo processo da Caos a Cosmo, che
il mito ci racconta - fatto di unioni e nascite inconsuete e atti di grande efferatezza - assomiglia molto a una digestione difficile, che richiede la complessa elaborazione e la conseguente differenziazione degli elementi che sono necessari per l'esistenza stessa degli esseri, e il cui processo inverso non può che avere come approdo finale di nuovo il caos, l'annientamento dell'ordine e dell'equilibrio. E in questa chiave molti dei disturbi nati da un “perverso” rapporto col cibo possono essere letti – al di là delle tragedie personali, a cui nulla si vuole né si può togliere – come metafore dell'inquietante percorso intrapreso dalla nostra società verso l'annichilimento dei
suoi fondamenti, nel momento in cui il banchetto “globalizzato” a cui siamo tutte/i chiamate/i, e che sostituisce il sushi al cappone nel pranzo di natale, solo apparentemente allarga il ventaglio delle scelte alimentari, mentre omologa, omogeneizza, “assimila”, quanto prima si mostrava coi caratteri delle specifiche differenze etniche, e i suoi componenti con la garanzia della biodiversità.Quando ci sediamo davanti alle nostre tavole imbandite di “prelibatezze” ricercate, che hanno via via perso il gusto della novità e la concretezza della concezione, capita sovente di sentire il disagio di un rapporto alienato coi sapori, rispetto ai quali non possiamo spendere né sapere né saper fare autonomamente esperiti, e siamo così lasciati in balia del modo più primitivo ed istintuale di entrare in relazione col cibo: il rifiuto o la voracità incontrollata.

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