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Joker: i supereroi non esistono

Argomento: Cinema

di Michele Nigro
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Pubblicato il 01/02/2020 12:55:36

I supereroi non esistono: non per le cose fantastiche che fanno e per i superpoteri improbabili che posseggono. Non possono esistere perché sono il frutto irreale di ciò che vorremmo essere, la condensazione in un’unica persona creata a tavolino del meglio dell’umanità, l’epicizzazione e la razionalizzazione dell’immagine di noi che vorremmo dare al mondo, l’idealizzazione di quella parte nobile della nostra anima che ancora riusciamo a considerare salva. Salva dal punto di vista della visione comune di quello che è il bene e il male: un limite che le sovrastrutture imposte dall’educazione e dalle regole di una parte della società che cerca di isolarsi dal marcio imperante, cercano di mantenere vivo. Il bene comincia, guarda caso, dove iniziano gli interessi dei pochi: il potere difende, grazie alle leggi e alle forze dell’ordine create per eseguirle, la propria stabilità, ma taglia i fondi che servono a proteggere e curare i più deboli. Il “reddito di cittadinanza della salute mentale” è poca cosa se confrontato con i mirabolanti progetti dei tanti imprenditori pronti a scendere in campo e ad impegnarsi in politica in prima persona.

C’hanno sempre fatto credere che i “cattivi” fossero i necessari alter ego dei protagonisti buoni, la “spalla” anti-idealistica per giustificare il bisogno cieco di servire il Bene, quello supremo, alto, così alto nei cieli da dimenticare, più in basso, lì dove viviamo noi, le cause del Male, sempre le stesse, apparentemente irrisolvibili; ce l’hanno fatto credere (è successo anche con certe pagine di storia scritte dai vincitori e assunte senza fiatare come farmaci alle scuole primarie) e invece è esattamente il contrario: ma ci accorgiamo di questa differenziazione forzata solo quando l’arte, il cinema come nel caso del film di Todd Phillips intitolato “Joker”, pellicola dedicata alla lenta evoluzione (per i meno audaci ‘involuzione’) psichiatrica del famigerato anti-eroe creato dalla DC Comics e magistralmente interpretato dal notevole Joaquin Phoenix, riesce a trovare il coraggio di essere politically incorrect e soprattutto a distaccarsi dalle regole non scritte dei cinecomics riguardanti il rispetto dei ruoli, della caratterizzazione dei personaggi e da altre catene narrative e cronologiche.

Nonostante la nostra speranzosa (a volte ingenua) reazione uguale e contraria, come c’insegna la fisica, nonostante “la risposta” che tentiamo di dare alla vita, alla fine non siamo nient’altro che il maledetto risultato dell’azione di forze esterne esercitate in maniera costante sul nostro corpo e sulla nostra mente (con buona pace del corredo genetico vincente di cui pochi fortunati sarebbero provvisti): il diverso, non per forza dal punto di vista mentale o sessuale - si può essere diversi in tantissimi altri, più o meno impercettibili, modi (lavoro assente o tipologia dello stesso quando c’è, disponibilità economica, fede religiosa, cultura etnica, lingua, gusti sportivi o assenza di gusti, fortuna con le donne o con gli uomini, modo di vestire, se vivi ancora con i tuoi, disabilità, capacità comunicative,… devo continuare?) - subisce questa pressione in maniera incidentalmente più dannosa. La sua congenita debolezza, i casi fortuiti e bizzarri della vita, la mancanza di quella che certi ricchi e fortunati radical chic travestiti da democratici chiamano - abusando del termine a fini propagandistici per mettere in mostra un paese vincente che in realtà non esiste - resilienza, rendono il diverso più esposto alle “intemperie” del vivere sociale, ai suoi repentini e poco gentili cambi di rotta: all’inizio della sventura a prevalere è ancora la gentilezza, il lathe biosas (“vivi nascosto”) di epicureana memoria che entra in conflitto con l’esigenza di far sapere al mondo che esisti (il from zero to hero dei terroristi radicalizzati, p.e.), il rifiuto delle armi quale mezzo non solo per difendersi ma anche per imporsi e pareggiare i conti, la caparbietà moraleggiante a non risolvere i problemi della vita adoperando la violenza, perché così c’hanno insegnato, seguendo la linea gialla tracciata sul pavimento che porta verso la tomba.

Il diario, che una psicologa stanca ha consigliato di tenere per seguire eventuali progressi, raccogliere ricordi o cogliere sprazzi di guarigione, diventa vomitorio scritto, confessionale spiegazzato, disordinato ricettacolo di pensieri incondivisibili, a volte comici, molto spesso dolorosi e antichi. L’insostenibilità dell’esistenza non si manifesta attraverso un unico, grande atto di ingiustizia ma per mezzo di microspilli conficcati quotidianamente, per anni, nella pelle del nostro riprovarci con fede, di etichette marchiate a fuoco, di piccole dosi di sfiducia da parte del prossimo e disistima coltivata in proprio: al termine della giornata non sappiamo se siamo puntaspilli di carne o porcospini umani. Poi succede qualcosa, anzi una serie infausta di qualcosa: la pressione a cui si accennava aumenta ogni giorno sempre di più, cerchi di rialzarti e di sorridere, di far sorridere gli altri rispettando il dettame genitoriale, ma ricadi, non sempre per tua incapacità a camminare, e ti ricacciano con la faccia nel fango da cui cerchi di ripulirti dignitosamente; far ridere, raccontare barzellette, addirittura raccontarsi per provocare ilarità (anche le tue aspirazioni per molti sono fonte di spasso!), essere comici per il mondo ma prima ancora per se stessi, per avvertire un po’ meno la crudeltà dell’esistenza. Ma non funziona, o meglio non può funzionare per sempre: certi eventi ti costringono a reagire, a non soccombere, a non dover spiegare tutto con serenità ed equilibrio. Cerchi di dire educatamente alle persone che quella tua risata improvvisa non è irriverenza nei loro confronti ma è causata dal tuo bipolarismo, dai tuoi problemi mentali che affondano le radici nell’infanzia e nella tua storia sfortunata, e che anche tua madre, per quello stesso motivo, fin da bambino ti chiama “Happy” (perché sei L’uomo che ride di V. Hugo). E quando accade, quando reagisci tra una risata e l’altra, quando ti permetti di reagire nonostante la tua posizione sfavorevole nella scala sociale e nell’universo, ti accorgi che ti piace, che ti si addice addirittura, che hai perso tempo standotene buono, che eri un artista della violenza e non lo sapevi, che non sapevi dell’esistenza di questa meravigliosa via d’uscita così sanguinaria e inebriante più dell’alcol. Dove e soprattutto come hai vissuto fino a ieri? Ti chiedi. Da bravo ragazzo hai messo a tacere la rabbia, hai accudito amorevolmente chi è stato artefice di una parte grottesca del tuo destino. E per un attimo l’ironica fisicità del villain, i suoi movimenti divertenti, la bizzarra danza a cui s’abbandona un secondo prima di commettere un atto efferato, fanno dimenticare la gravità del personaggio, il dolore perpetrato che lo ha (tras)formato lentamente negli anni; persino il sangue schizzato sulla faccia è parte integrante del nuovo trucco, diventa il rosso che mancava per completare il sorriso di Joker. Dalla sofferenza causata agli altri, agli insensibili che calpestano l’altrui sensibilità, che ridicolizzano il nostro vissuto, può nascere un nuovo tipo di autostima e di gioia perversa? Sì, perché tutto è relativo, la stessa morale lo è, e come afferma Fleck/Joker in diretta tv, all’apice della sua rabbiosa trasformazione: “La comicità è soggettiva, come la nostra idea di bene e di male!”

Quanto somiglia la società della Gotham City del 1981 alla nostra attuale? L’irrisolvibile problema dell’immondizia e la conseguente emergenza sanitaria, la cecità dei governanti, la disoccupazione e la precarietà esistenziale che alimentano l’intolleranza e la microcriminalità, le dilaganti nevrosi in una città pronta ad esplodere, la mancanza di amore (al punto da inventarselo, fantasticando sulle passanti di cui cantava De André) o di un semplice contatto umano compensata dalla pornografia (aspetto sfiorato con delicatezza, con immagini velocissime, dal regista che lascia intravedere il peso di una solitudine che va ben oltre l’affermazione economica e sociale), la confusione ideologica e politica, la disuguaglianza sociale che i “berlusconi” di turno (da intendere non come cognome ma come concept del nuovo modello di politico non proveniente dalla politica) ribattezzano ogni volta chiamandola “invidia sociale”: la lotta - quella sì supereroica - per una migliore qualità della vita si trasforma in un fastidioso “dispettuccio” ordito da masse di invidiosi; la lotta di classe, che un tempo aveva dignità filosofica, ideologica e quindi partitica, diventa così, per il ricco Thomas Wayne (il papà del futuro Batman che da filantropo nei film precedenti è diventato un arrogante affarista che mira a scendere in politica) e per tutti quelli come lui, la capricciosa autocommiserazione di una parte della società costituita da vigliacchi “clown” che non riesce a vivere normalmente. Di gente che preferisce nascondersi dietro una maschera (vedi i ragazzi che oggi, nel 2019, continuano a protestare a Hong Kong nonostante il divieto di indossare qualsiasi tipo di mascherina, pena la reclusione o il rischio di venire sparati in strada!) perché non ha avuto il coraggio di costruire la propria fortuna con determinazione e per questo motivo merita di soccombere e di sparire dalla vista dei cittadini che contano: le regole darwiniane applicate all’economia e quindi al welfare.

Scrisse Oscar Wilde: “L’uomo è meno se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera e vi dirà la verità”. Dietro lo strato di biacca, inizialmente usata per un modesto ma onesto lavorino, Arthur Fleck è costretto a ritrovare se stesso, il suo vero io tragicomico e stanco di subire, la sua voglia di ribellarsi alle ingiustizie e alle bugie della vita, e alla violenza della società nei confronti di chi non ce la fa (canta Branduardi nel brano Domenica e lunedì: “non è da tutti catturare la vita / non disprezzate chi non ce la fa”. E invece la società disprezza e come: tutti, anche se con differenti gradazioni, disprezziamo tutti). Le persone care, i miti televisivi da sempre amati, le poche amicizie nel quotidiano, la sua stessa storia personale, anagrafica: tutto viene messo finalmente e drammaticamente in discussione, e tutti vengono rivisitati violentemente in chiave liberatoria. Persino il distacco genitoriale (altro che gli innocui bamboccioni di Padoa Schioppa!) non avviene in maniera meno cruenta. Non si torna più indietro! La liberazione è cominciata. Si salva solo chi in passato ha dedicato un gesto compassionevole al diverso, al disadattato, alla persona disagiata bisognosa di gentilezza e di bellezza, di ascolto e di autentica comprensione, non quella di una precaria psichiatra di stato. Perché Joker non è pazzo, Joker ha memoria; e come direbbe il Padrino di Coppola: “Io nun mo scordo!”.

Eppure c’è una scena del film in cui Arthur - ed è l’unico in quel momento, dopo anni, a essere veramente libero da stereotipizzazioni - passa tranquillamente a volto scoperto, proponendo un se stesso riscoperto e senza trucco, attraverso una piazza piena di manifestanti in rivolta che al contrario indossano la maschera che lo rappresenta, quella del “clown assassino di ricchi e bravi ragazzi” salito agli onori della cronaca, nuovo simbolo insurrezionale da seguire ed emulare: non si sentirà mai, almeno non inizialmente e non consapevolmente, alla testa di un “movimento” politico (e di un clownistico “vaffa day”), culturale, artistico-rivoluzionario o anti-distopico (come accade con il personaggio di “V” nel romanzo a fumetti V per vendetta di Moore e Lloyd). Arthur, che è diventato nel frattempo un esempio per altri disadattati assetati di vendetta sociale e personale, in realtà desidera liberare solo se stesso dalla tragedia in cui è stato costretto a vivere per anni e abbracciare finalmente la commedia esistenziale determinata da altri ma alla fine accettata e divenuta rappresentazione violentemente artistica dell’ironia in cui ogni vita umana - nessuno si senta escluso! - è immersa: la commedia nasce dall’incontro tra l’assurdità del proprio esserci in maniera imperfetta e sbagliata, e l’accettazione di questa imperfezione che diventa arte violenta, da portare in strada, in tv, tra la gente insoddisfatta, offesa e oppressa. Da sublimare in gesti comici che rendono persino simpatico l’anti-eroe (chi, alla fine del film, non abbraccerebbe empaticamente e fraternamente Arthur Fleck? Affrontando caso mai il rischio di vedere interpretato il gesto compassionevole dell’abbraccio in buonismo garantista). Solo a quel punto il trucco diventa indelebile, fisso sulla faccia di Arthur, parte integrante della scena quotidiana: così come i supereroi scelgono il costume che li caratterizzerà a vita.

La “pazzia”, per cui assumeva inutili psicofarmaci, era causata in realtà dalla supina accettazione della precedente e deleteria rappresentazione teatrale imposta dal passato e che ora lascia spazio a una nuova catarsi tragica: una volta liberata e veicolata l’energia raccolta nel tempo verso la propria spettacolare natura e i relativi sbocchi soggettivi, la “mente” - almeno nella finzione cinematografica - non ha più bisogno della chimica farmacologica e dell’aiutino di stato. Il ragazzo impaurito, ossequioso, rispettoso delle regole, amorevole in famiglia benché considerato “strano” in base a discutibili parametri incancreniti nella cultura di massa, fiorisce e diventa a suo modo un “artista” - ancora grossolano come in qualsiasi esordio - della vendetta, della rivalsa che guarisce… La risata compulsiva non è più un difetto per cui giustificarsi continuamente, ma diventa caratteristica diamantina del personaggio, colonna sonora che precede il crimine, così come prima precedeva l’imbarazzo. Una risata che ci permette di comprendere un particolare indispensabile: Arthur è sempre stato Joker, anche senza biacca; Joker era solo rinchiuso nel bambino abusato e violentato, e successivamente nel ragazzino con problemi psichici, fino all’uomo servizievole in cerca di un posto nel mondo. Ad un certo punto il trucco ridicolo e massiccio usato per lavorare diventa elegante sfumatura colorita che si adatta a un volto che prevale, a una nuova personalità ormai terribilmente definita. Ecco perché non ha bisogno di usare maschere rigide dietro cui nascondersi.

Quelli che per la fetta potente della comunità sono i benefattori di Gotham City, per Joker sono solo ipocriti da abbattere, perbenisti capaci di seppellire il passato scomodo utilizzando la propria posizione, privilegiati abituati ad avere sempre ragione e mai torto (come ricorda Guccini nel brano Dio è morto). Al di là dei mezzi discutibili e delle soluzioni adottate, si può negare a questo anti-eroe un certo consenso? Ma la società, seppur malata essa stessa e ormai morente, trova la forza “morale” per rinchiuderlo nuovamente; è suo dovere incanalarlo per l’ennesima volta nell’iter dell’ascolto di stato, degli psicofarmaci per tenerlo buono, per fare in modo che non disturbi i ricchi e i potenti… Non questa volta, non più.

E allora cosa resta da fare per sopravvivere a se stessi, al destino, alla società nemica, alle prepotenze e alle bizzarrie della vita? Fuggire dalla stanza bianca, rivestire i panni del clown, attendere che Bruce Wayne diventi adulto, uccidere chi si mette sul cammino di una riscoperta libertà, commettere crimini come se fossero “gesti artistici”, continuare a sorridere, e a ridere incontrollatamente di questa esistenza folle, ingiusta e illogica. E a cantare sottovoce insieme a Sinatra: “That’s life!” 


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