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Giovanni il contadino

di Angelo Ricotta
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Pubblicato il 04/02/2016 21:58:10

Nel 1957 mio padre decise di rispedirmi in Italia in quanto riteneva che in Venezuela stessi acquisendo delle cattive abitudini. Da quando ero arrivato a El Sombrero nel 1951, all'età di quattro anni, mi ero rapidamente ambientato e scorazzavo con i miei amici per le strade polverose del paese, spesso a piedi nudi, e ci bagnavamo nelle fangose pozze di acqua piovana grandi come piscine. "Questo bambino mi sta diventando un selvaggio" si lamentava mio padre con mia madre "devo rimandarlo in Italia per farlo educare". E così fu. Feci il viaggio con mia madre, in nave. Andammo ad abitare presso mio zio Feliciano, il fratello di mia madre, il quale all'epoca abitava nel casino del dott. Romani in località Ponte Nuovo, appena fuori Sulmona. In questo grande casale abitava anche un'altra famiglia, quella di Giovanni il contadino. All'epoca Giovanni avrà avuto una quarantina d'anni. Lavorava duramente nelle campagne dietro il casale. Nei lunghi pomeriggi dopo la scuola ero solito bighellonare per queste campagne seguendo i solchi irrigui e i sentieri, tra i filari e le coltivazioni, cogliendo i frutti di stagione, rincorrendo qualche animaletto, osservando la natura e Giovanni zappare. Non ricordo come iniziò ma presi l'abitudine d'intrattenermi a parlare con lui. Egli era incuriosito dal fatto che io, pur essendo ancora un ragazzino, e italiano, avessi già vissuto per anni in una terra straniera. Voleva che gli descrivessi il Venezuela, il paesaggio, gli avvenimenti, le persone, la lingua, ogni cosa. Mi confessava che egli non era mai andato da nessuna parte, neanche fuori Sulmona, anzi neanche lontano dal casale in cui era nato, via da quelle campagne. Queste sue ammissioni stimolavano la mia vanità, mi spiace dirlo ma è quello che provavo: mi faceva sentire superiore! Allora cominciai a condire i miei resoconti di storie inventate. Si creò una tacita intesa fra noi. Pressoché ogni giorno, più o meno alla stessa ora, ci ritrovavamo tra le campagne. Egli posava la zappa, si sedeva in un canto, mentre io in piedi gli raccontavo le mie mirabolanti e fantasiose avventure di foreste impenetrabili, feroci indios che ci inseguivano lanciandoci, con le cerbottane, frecce avvelenate, di pericolosi giaguari in agguato nelle roride oscurità della giungla. Egli pendeva letteralmente dalle mie labbra, mi faceva domande su dettagli, si vedeva che sognava ad occhi aperti. Se per qualche ragione un giorno non andavo all'appuntamento si informava tutto preoccupato da mio zio. Con il passare del tempo i miei racconti diventavano sempre più elaborati e, a ripensarci ora, anche più incredibili. Gli sarebbe bastato riflettere sul fatto che avevo appena dieci anni per capire che non potevo aver passato tutte quelle vicissitudini ma, evidentemente, il suo desiderio d'evasione dall'opprimente realtà in cui era costretto a vivere soverchiava la sua razionalità. Davo anche dei titoli ai miei racconti. Uno era "La foresta allagata": un drammone ante litteram degno dei migliori film catastrofici. Anzi, adesso che ci penso, fu proprio mentre gli raccontavo questa storia che venne mio zio a sollecitarmi di andare a fare i compiti invece di importunare il povero Giovanni che doveva lavorare. Giovanni gli disse che non solo non gli davo fastidio ma intercesse affinché io finissi di raccontargli come era finita. Senonché mio zio gli rispose "Ma Giovanni, sono tutte storie inventate!". Giovanni rimase di stucco. Nonostante il suo viso scavato, bruciato dal sole, già pieno di solchi, mi sembrò vi apparisse un’ulteriore smorfia prima di delusione e poi di profondo dolore "Non è vero niente!?" farfugliò. Mio zio mi portò via rimproverandomi. Il giorno dopo Giovanni non mi volle parlare "Mi hai ingannato" sentenziò continuando a zappare. Provai un po' di dispiacere per questo fatto, ma solo un poco, perché si sa i bambini sanno essere anche crudeli, non per intenzione ma per natura, per incoscienza. Di lì a poco sarei tornato in Venezuela per un altro anno e poi la mia vita mi avrebbe sospinto sempre più lontano, su un percorso senza ritorno. Non ho più rivisto Giovanni.


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