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Luna spenta

di Veronica Mogildea
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Pubblicato il 10/04/2017 16:12:43

Era troppo. Questo era troppo. Non dovevo assecondarlo, lo sapevo benissimo. Mi avrebbe disprezzata ancor di più, pensavo, non posso lasciarmi umiliare in questo modo, ma contro la mia volontà le gambe si piegarono con una solerzia priva di dignità. Ero di nuovo ai suoi piedi, tremante e confusa, che strisciavo sottomessa, inseguendo i suoi passi.

“Perdonami!” gridai con disperazione, abbracciandogli le gambe. In quel momento mi pareva la cosa più importante del mondo. Avere il suo perdono.

Indifferente, lui mi scacciò con uno spintone, come una mosca petulante che gli portava noia, ma pareva contento, non c’era più rabbia nel suo volto. I lineamenti si distesero compiaciuti, offrendomi la vista di una bellezza assoluta. Che subito colmò il mio sguardo. Sussultai. Era così bello il mio uomo che offuscava tutto attorno. Ero felice, nonostante mi sentissi piccola ed insignificante. Rimpicciolita. Accanto a lui ero niente. Soltanto un riflesso sbiadito dentro le sue iride.

La sua mano si allungò verso di me. Fremetti rinchiusa in una attesa trepidante. Il fremito del mio corpo esplose in una vampata accecante, appena lui mi sfiorò i capelli. Sapeva come prendermi. Conosceva il mio corpo meglio di me stessa. Piena di gratitudine gli presi la mano e gliela baciai. Adorazione. Tutto per lui. Niente, assolutamente niente per me.

“Sei mia.” disse. La sua voce roca si stava insinuando dentro la mia pelle.

“Sono tua.” risposi in fretta. L’odore acidulo delle stoviglie sporche sparse attorno mi innervosiva l’olfatto. Lo sentivo fastidioso sulla pelle; tracce di sugo che si seccavano lenti sul mio viso. Pensavo ad un geto di acqua fresca che avrebbe lavato la sporcizia, prima che mi impregnasse tutta.

“Sei mia.” Ripete lui. Non mi era chiaro, se la sua fosse una domanda o una semplice affermazione. Nella sua voce non c’era niente. Assolutamente niente, a parte il ghiaccio. La pressione della sua mano sulla testa aumentava, col dito stava attraversando avanti ed indietro l’incavo dietro la nuca. Con i sensi protesi mi stavo smarrendo dentro la percezione di carezza e ritardai la risposta.

“Perché taci? Perché non rispondi?”

“Sono tua,” stavo precipitando sempre più in basso. “Sono tua, amore.”

“Stai attenta … certi scherzetti non mi piacciono affatto.”

Le sue dita si mescolarono con i miei capelli, sembrava un gioco, poi di scatto, senza un preavviso si chiusero in pugno. Sorpresa, la pelle dell’attaccatura dei capelli si accese bruciata. Gridai. Alex mi tappò la bocca con un bacio, raccolse avido il mio gemito, lo fece suo. Lo strinse fra le labbra e sorrise.

Infine mi amava, me l’aveva ripetuto tante volte.

“Ma certo, è ovvio che ti amo.” Diceva, mentre mi baciava. Soltanto lui sapeva farlo in quel modo. Era buono, forse un pochino nervoso. Impulsivo. Incapace di dominare certi stati di anima. Allora mi picchiava.

“Mi fai male.” gli dicevo, appena sussurravo. I miei occhi diventavano prigionieri dei suoi. Una farfalla dentro la promessa del fuoco. Più mi dibattevo, più rimanevo impigliata.

Sempre di più.

“Mi fai male.”

Lui rideva. Sembrava che si divertisse. Un bambino dispettoso.

“Mi piace farti del male. Mi diverte.”

Tacevo. Non sapevo cosa dire. Ogni colpo esplodeva in mille schegge nella testa. Forse così sono le bombe. Un boato seguito da lunghe fitte che distruggono. Chiudevo gli occhi. Stretti. Stretti. Per non vedere il suo volto trasfigurato. Non lo sopportavo. Facendo del male a me, danneggiava se stesso. S’imbruttiva. Ma non glielo potevo dire. Non avrebbe capito.

Masticavo in silenzio la mia delusione che si scioglieva liquida sulle guance.

“Sei bella, quando piangi. Ancora più bella.” Diceva e mi mordeva le spalle, il collo, i seni, che erano il mio corpo. Ero io. Almeno credevo che lo fosse. Continuavo a chiedermi fino in che misura il mio corpo mi appartenesse. Ancora. Non lo sapevo.

Andai a nascondermi dentro la camera da letto con tutti i sensi tesi come corde. La bambina dormiva nella stanza accanto. Fuori dalle finestre splendeva in raggi languidi e sensuali un bellissimo tramonto estivo. Mi ritirai spaventata dietro lo spessore pesante delle tende. L’invadenza della luce mi ustionava i nervi martoriati. Non la volevo vedere la luce. Non si addiceva per niente alla tempesta scatenata dentro il mio cuore. Una paura pura, senza veli mi scuoteva la carne. Tremando, mi fasciai dentro le coperte, sperai che lui mi dimenticasse. Quando entrò nella stanza, finsi di dormire. Nei pugni stringevo gli angoli del lenzuolo. Lui accese la luce sopra il suo comodino. Rimase a lungo immobile, sentivo il suo fiato addosso, era vicino, forse mi spiava. Un brivido freddo mi fece rizzare i peli sulla nuca.

“Elena!”

Non risposi. Pregai muta che mi lasciasse in pace. Non volevo la sua vicinanza. Non volevo che mi toccasse.

“Elena!” una rabbia appena domata inquinò l’aria. Iniziò a slanciarsi la cintura. “Alzati!”

Suoni che sferzavano l’oscurità della stanza, nella mia testa rimbombavano con la violenza dei tuoni.

“Che vuoi?” mormorai senza aprire gli occhi. Non dovevo farlo entrare nel mio campo visivo. La paura m’infettò la voce di brividi. Un groviglio di rettili si contorcevano dentro lo stomaco. Erano freddi. E viscidi. Corrugai la fronte per ricordare la spiegazione scientifica del sangue freddo dei serpenti. 

Con uno stappo Alex tirò la coperta. Lo scudo pietoso che teneva insieme il mio corpo cade come due ali morte ai piedi del letto. Restava la pelle. L’unica protezione. Che non serviva a nulla. Sapevo che Alex, quando la colera prendeva il sopravento, era in grado di strapparmela a brandelli, striscia dopo striscia, pur di affermare il proprio dominio. Pur di saziare i demoni che lo abitavano.

“Te lo devo spiegare?” la minaccia diventò dura. Solidificata pendeva sopra la mia testa. Come una lancia. Pronta a colpire.

No, non doveva spiegarmelo. No! Erano più che chiare le sue intenzioni.

“Brutto porco!” avrei voluto gridare, perché ero nauseata di tutto quello che stava per accadere, ma non lo dissi; non osai nemmeno affrontare il suo sguardo pieno di tenebre. Pensai subito alla bambina. Avrebbe potuto svegliarsi in qualsiasi momento. Senza una parola mi alzai e andai a inginocchiarmi davanti a lui che si scuoteva in sghignazzi di riso infernale che come percorse frustavano la mia pelle. Umiliata. Trascinata dentro un fango che non avrei mai potuto levarmelo di dosso. Nonostante ridesse, il suo sguardo affondava in una spietatezza furibonda e non mi risparmiò nemmeno una delle umiliazioni. Come una medicina amara, o veleno dovetti assorbirle tutte, goccia dopo goccia. Con i miei capelli stretti nel pugno rimase a guardarmi dall’alto verso il basso, cogliendo con occhio vigile ogni sfumatura delle emozioni che attraversavano il mio volto, come se la contemplazione della mia caduta lo ergesse più in alto.

Ogni tanto alzavo gli occhi, lo spiavo da sotto le palpebre che a stento frenavano le lacrime in cerca di un briciolo di tenerezza, d’un ombra di complicità, ma non vi trovai niente che avrebbe giovato il mio cuore, nessun balzammo sulle ferite dell’orgoglio. Nessuna consolazione. La stessa attenzione che si accorda ad un oggetto, necessario per adempire un bisogno.

Un suono ringhioso e soddisfatto interrompe il mio supplizio. Aspettai. Con un calcio nel fianco si staccò da me, ancora prostrata ai suoi piedi e senza una parola mi abbandonò lì, in mezzo alla stanza. Non si curò nemmeno del rumore per la porta sbattuta che avrebbe spaventato il sonno della piccola. Andò via. Non mi sono chiesta dove, avevo la testa sprofondata in una sorta di nulla viscoso. Senza forma. Come se tutto il sangue del corpo si fosse racchiuso nella scatola cranica in un grumolo nero di vergogna.

“Non può essere vero. Non è successo a me. Ora mi sveglio e mi accorgo che non è che un sogno. Un brutto sogno.”

 Un filo di speranza si opponeva ancora, resisteva. Rimasi immobile. Trafitta. Non so quanto. Un’ora? Un giorno? Forse un anno. Il tempo esiste soltanto nelle nostre percezioni. Le mie erano smarrite. Pietrificate dentro una clessidra pietrificata. Rotta. Da dove stavo seduta si intravvedeva il cielo grigio, quasi nero. Un’ angolo scuro e opaco, spalmato di nebbia che mi teneva ancora legata al mondo. Quel mondo.

Dovrei reagire, mi ripetevo. Cercavo di aggrapparmi ad ogni cosa che mi prometteva sostegno. Per evadere. Evadere da quella vita. Da me stessa. Ma il pensiero non riusciva ad andare oltre. Si dibbatteva penoso senza trovare abbastanza forza per proseguire. 

Mi odiavo. Detestavo tutto quello che mi rappresentava: la mia carne, la mia mente, la mia indole vigliacca. Perfino la mia ombra. Nemica. Raschiavo la disperazione sotto le unghie, grattando la pelle. Era tutto quello che potevo fare. Non immaginavo la vita senza di lui. Era dentro di me. Padrone del mio cervello. Del mio corpo. Scorreva nelle mie vene insieme al sangue che tanto aveva avvelenato. Dominava il mio respiro con soffio spietato che bruciava la voglia di essere. 

Il suo odio.

Odio. Amore. Che differenza faceva? Esistere nei suoi pensieri. Questo importava. Immaginai il suo volto. Bello. Bellissimo. Concentrato su di me. Le sue mani. La sua bocca. La mia testa dentro le vertigini. Il mio corpo prigioniero dei suoi abbracci.

L’amavo.

Ancora.

 

 

 


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