Mio figlio avrà nome
Enoja, recherà
nel ventre l’ultimo avverbio
di un dolore da seme:
soffrirà la stessa sciagura
bianca, della
atroce maestà dell’acqua
malata. Noi, umiltà
e arcano, invochiamo
l’eterno scolaro, l’eterna
gioia dell’esca: il cilicio
mortifica il verme e trapassa
la carne dell’astro.
Se il verso, la parola
è nell’ordine dell’angelo, è
lo strascicare della lingua sulla forma.
Prima che Enoja avvenga, sia
una pioggia nera sul cuore
della madre; sia
l’ingenuità del passero ferino:
meraviglia dell’orefice è l’ancora
vergine cerchio e la mano: v’è davvero
una frottola bianca al principio
del tutto? v’è davvero
la bizzarria d’una luce corrusca?
La legge è la parola, la parola
è la legge, la legge
annienta, mastica, ed è polvere
dell’uomo e della carne.
Fiore ostinato d’autunno, rendi
lo stupore allo stupore; avvieni
nel dominio della gioia capovolta:
vorrei una farfalla altrettanto
ostinata morirmi
sulla lingua, l’audacia
di mio figlio orfanello;
vorrei l’oro e l’argento
della prima creazione, della
menzogna il cui nome
è celato nel libro. Eppure
so che il verso è la memoria:
alla radice del punto.