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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

Elegia a Gilberte


Testo proposto da LaRecherche.it

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Pubblicato il 22/07/2013 12:00:00

 

Quanto tempo! Se il tempo…

In fondo a quale viale

pavesato di luce

ancora esisti Gilberte?

Come acqua sorgiva

le ore, i giorni

scivolano tra le dita

di questa mano memoria

che il tempo afferra

e perde e forse arriva

a ritrovare: un segno

un suono, un sapore

una traccia lasciata

sulla carta intonsa.

Per una magia della mente

esisti Gilberte.

Io sono ancora

sulla piana gelata,

tra i cavalli di legno

e il prato bianco, languente

ad aspettarti.

Ecco, lontano,

il tuo pennacchio azzurro,

mia ballerina,

apri le braccia e scivoli

sul ghiaccio,

quasi volessi abbracciarmi.

E poi l’indifferenza

La sofferenza…

Volevo confessarti il mio amore:

mancò il coraggio, forse l’occasione.

Tu passasti la palla,

le tue amiche gridarono in coro

Ed io stentai a riconoscere

la fanciulla che abitava i miei pensieri,

invano cercai di trattenere

i suoi occhi, il suo viso,

le sue forme

perché potessi goderli

dopo, in tua assenza.

Quanto tempo! Se pure il tempo…

La nera trama desolata dei viali,

l’aria sospesa ai rami

il mio cuore sospeso

ti aspetta.

Quel nome gridato dalle voci brevi

“Gilberte” e pare che altri

nel tuo mondo viva

che non conosco,

mondo favoloso immagino.

Forse non sei più tu,

forse un’altra bambina

intenta agli stessi giochi.

Vorrei parlarti ora,

dire il mio sentimento,

e tu non verrai,

non ti dispiace

di mai più vedermi.

Ho le gambe di gesso

come le statue del parco

su cui posano i piccioni

e un pianto senza lacrime si posa

con ali notturne sui miei occhi.

Buio, buio del tempo,

specchio di stagno che macera ogni cosa.

Rimani Gilberte

nel solo spazio che c’è concesso:

noi due sul viale,

la nostra infanzia divorata

dalla stessa febbre di crescere,

di essere, di sfiorire.

 

 

[ Pubblicata in Salon Proust, LaRecherche.it, 2013 ]

 

 

 


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