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Etnomusicologia 1- Musicologia per capire i popoli

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 30/04/2011 09:12:19

ETNOMUSICOLOGIA – 1

“MUSICOLOGIA PER CAPIRE I POPOLI”, di Giorgio Mancinelli (*).

(Studi e ricerche effettuati per “Folkoncerto”, un programma di Etnomusicologia trasmesso da RAI – Radio Tre, e apparsi in numerosi articoli sulle riviste: Big, Super Sound, Musica & Dischi, Nuova Scienza, L’Annuario Discografico, Hi-FI, Audio Review).

Se la musica ha il privilegio di parlare un linguaggio universale, così come è stato ribadito da più parti, ancor più dobbiamo riconoscere ad essa la peculiarità di efficace veicolo di comprensione tra i popoli e, a buon diritto, di far parte delle discipline di studio specifiche che sono fonte primaria di conoscenza, alla quale, pure contribuiscono tutti i popoli della terra indistintamente, nessuno escluso, riconosciuti all’interno del fenomeno di acculturazione. Per cui, in prospettiva della “nuova realtà musicale” quale si è andata delineando in questa nostra epoca di repentini cambiamenti, studiare l’Etnomusicologia assume significato di riappropriazione delle testimonianze più rappresentative della cultura musicale. Pur con le sue accezioni peculiari, vuoi musicali (strumentali), vuoi orali (poetico letterarie), inerenti agli usi e i costumi dei popoli che l’hanno determinata, nel loro effettivo stanziamento geografico. Volutamente rivisitate in quanto “espressioni originali” autentiche, e in grado di restituire, in taluni casi accertati, identità etniche - culturali ben definite, che ci permettono di riequilibrare lo stacco tra passato e presente che ha reso discontinuo il suo percorso millenario.

Non un forzato “ritorno alle origini” dunque, di cui pure si è fomentato negli anni passati dal 50 al 70 del secolo scorso, bensì, voler restituire alla Etnomusica in genere, l’importanza che gli spetta, all’interno del conformarsi della cultura dei popoli, per lo più ignorata dalle varie Enciclopedia della Musica (1) o le diverse pubblicazioni di Storia della Musica (2) che, spesso sottovalutano o appena sorvolano, quelle che sono le componenti “originali” scaturite dalla cognizione musicale dell’uomo primitivo. Cognizioni primarie che pure, in qualche modo, sono giunte fino ai nostri giorni, attraverso la tradizione (memoria del passato), la trasmissione psico-fisiologica (del pensiero), unita al gesto (mimico), al canto onomatopeico (imitativo) e alla danza (riflesso ritmico), cui venivano attribuite determinate peculiarità rituali e particolari scopi specifici all’interno delle tradizioni. Come di provocare stati di estasi (riti iniziatici, esaltazione e trance), che avvicinavano l’uomo al mondo soprannaturale (riti magici), a quello di guarire malattie (musicoterapia, etnopsichiatria, olismo), o in grado di provocare la pioggia (tecnica di suggestione, ipnoterapia, scienza di confine), come pure la possibilità di comunicare messaggi a esseri lontani (viventi), o sollecitare “incontri” con l’al di là (con i defunti, l’avvicinarsi alla divinità, ecc.), oggi studiati in altre discipline specifiche inerenti all’etnologia (studio delle popolazioni), all’antropologia (studio delle differenze culturali tra gruppi umani), alla psicologia (studio del comportamento degli individui e i loro processi mentali), e la fisica (studio dell’acustica e la tecnica del suono).

La musica in primo luogo – essenza fondamentale della nostra ricerca antropologica – va qui considerata un fenomeno in continua evoluzione, intesa come creazione di una comunità che si esprime tramite una costante sintesi di equilibri e soluzioni che si prospettano all’interno di essa. Più in generale, sostanza significativa di possibile rivalutazione e riutilizzazione delle diverse sfere di percezione da parte dei nostri sensi e delle nostre emozioni che, altresì, se la si osserva attraverso l’obiettivo della scienza musicologica, non possiamo che riscontrarne l’esistenza già in quelli che in natura sono oggi considerati i “paesaggi sonori” del nostro quotidiano, quali: il fruscio delle foreste, lo sgretolarsi delle rocce, il sollevarsi della sabbia, lo scorrere delle acque, l’infuriare del vento, la combustione del fuoco, i versi o il “canto” di alcune specie animali e, non in ultima, la meraviglia della voce umana. Ecco quindi, e proprio partendo da queste prime forme naturali, imperniate sulla evidenziazione di una realtà esistente, che lo studio dell’Etnomusicologia assume carattere di “fondamento” sul quale imperniare ogni ricerca sulla musica, vuoi per andare “alla ricerca dei suoni perduti”, che per sviluppare una qualsiasi teoria sulla musica futura, o anche sul futuro della musica, la cui conoscenza, sostenuta dalle attuali apparecchiature foniche e acustiche decisamente avanzate di cui disponiamo, e grazie a una maggiore sensibilità uditiva, ci permette una migliore conoscenza del mondo che ci circonda.

Etnomusicologia dunque, non solo come ricordo del tempo, o come magia e incanto perduto, piuttosto, come mondo da riscoprire, in cui le diverse categorie di suoni percepiti vengono studiate come veicolo di comunicazione e di scambio per la comprensione tra i popoli. Come ha evidenziato in passato Alain Danielou (3): “L’uomo impiega, al pari degli animali, dei suoni per comunicare, e spesso è difficile distinguere gli elementi articolati, che noi chiamiamo linguaggio, da quelle emissioni di voce contraddistinte all’altezza del tono e dalla durata, che sono alla base della musica. Non a caso esistono, infatti, lingue tonali, recitazioni cantate e strutture musicali proprie del linguaggio parlato (..) che nel tempo hanno sviluppato forme musicali libere da qualsiasi funzione sociale, le quali, proprio perché svincolate da presupposti rituali, hanno progredito rapidamente sulla via del perfezionamento tecnico e del raffinamento del gusto”. In breve, non si conoscono popoli, fin da quelli primitivi ad oggi, che non abbiano conosciuto o che non conoscano una qualche forma musicale, sia che rientri nella propria cultura etnica (ritualità tribale) o faccia parte del proprio habitat naturale (rocce parlanti, vulcani tonanti, alberi suonanti, animali canterini), da cui l’uomo ha appreso la “formula” talvolta impregnata di magia, della musica esistente nel creato.

Quindi, prima di parlare d’altro, è bene sapere che l’apporto della fisica relativo ai fenomeni acustici, contrassegna il primo passo nello studio scientifico in Etnomusicologia. Invero ogni suono della natura è un evento fisico relativamente complesso in quanto consiste nella trasmissione attraverso aeriforme, liquide o solide, delle vibrazioni provenienti da un corpo (materia) entrato in movimento, che può essere considerato in funzione del tempo, cioè dall’inizio alla fine delle vibrazioni, oltre che in funzione della forma esatta dell’onda delle frequenze e dell’intensità delle componenti vibratorie. Forma che può differire negli ascoltatori, in relazione al grado di attenzione e alle loro aspettative. Secondo Peter F. Ostwald (4): “Allorché le vibrazioni raggiungono quei recettori sensibili che sono le orecchie, sollecitano una grande varietà di percezioni, che diversi gruppi di specialisti hanno contraddistinto in: rumore, suono e linguaggio. Così, sappiamo che il rumore per lo più viene classificato nella categoria dei suoni con effetto importuno o molesto, spesso causa di tensione, irritabilità, molestia o dolore effettivo, in grado, se improvviso, di far trasalire”. Un argomento quest’ultimo di difficile argomentazione, e tuttavia ampiamente trattato dal noto neurologo e psichiatra Oliver Sachs (5) nella sua teoria sulla musicofilia.

Ciò per dire che lo studio fisico delle onde sonore, sebbene sia oggi sostenuto da più sofisticate tecnologie, può definire le qualità dei suoni e la quantità dei rumori suscettibili di ferire l’orecchio o il resto del corpo, ma non può definire esattamente cos’è il suono, come neppure cosa sia il rumore, poiché in entrambi i casi, i fattori umani (età, capacità uditive dell’individuo, gusti e maniere di sentire variabili nel tempo ecc.), vi sostengono un ruolo preponderante. Non per questo si pretende che ogni rumore debba essere eliminato, bensì controllato e fatto oggetto di studio per meglio conoscere quali sono le problematiche causate dai rumori cui gli individui (ma anche gli animali) si vanno adattando e con quali invece riescono a convivere, e come intervenire per risolverle. È questo uno dei grandi meriti riconosciuto al “World Soundscape Project”, qualificato come progetto per l’ambiente sonoro, lanciato negli anni ’80 dal compositore canadese R. Murray Schafer (6) e dai suoi colleghi di Vancouver (di cui si tratterà in altro capitolo). Ai fini della nostra ricerca è importante almeno conoscere quelle che sono le peculiarità fisiche del nostro corpo, o almeno dei nostri sensi, a cominciare da quello uditivo, ahimè transitorio, in ragione del fatto che tutto ciò che è suono, è recepito per lo più, una sola volta, nel preciso istante in cui esso avviene.

Perché il fenomeno vibratorio produca nell’uomo la sensazione sonora, le frequenze delle vibrazioni non devono essere inferiori a 16 HZ, al di sotto della quale si hanno i cosiddetti infrasuoni mentre, al di sopra dei 12.000 Hz, si hanno gli ultrasuoni, entrambi non specificamente rilevabili dall’orecchio umano. Le onde elastiche di frequenza inferiore, o maggiore di detta soglia, pur giungendo al nostro orecchio, non sono in grado di provocare alcuna sensazione uditiva. Solo nel caso di una tensione uditiva in cui le nostre orecchie divengono ricettive al massimo, si registrano e riconoscono rumori che, in generale, non sentiremmo. I fisiologi a un certo punto della ricerca sulle possibilità uditive, hanno optato per la teoria che ogni orecchio si crea una “soglia” fissa e che un suono non può essere percepito finché non raggiunge una certa intensità idonea a superare suddetta soglia. Adesso noi sappiamo che questa è una semplice teoria che può essere vera per un piccolo gruppo di suoni relativamente puri, emessi in laboratorio in condizioni controllate, ma che non è applicabile alla maggioranza dei rumori. In breve, chi (tra gli studiosi), infine, volesse giungere a una definizione oggettiva del singolo fenomeno, deve ripiegare su una definizione soggettiva (e filosofica): il “suono” è senz’altro una sensazione particolarmente piacevole, mentre il “rumore” pur essendo un suono, è ancorché indesiderabile.

Scrive Alessandro Bertirotti (7): “I suoni usati nella pratica musicale classica (escludendo quindi i casi riguardanti la musica elettronica) sono prodotti da vibrazioni variamente complesse e proprio dalla complessa composizione di un suono dipende fondamentalmente il suo timbro. È interessante ricordare come, già nella metà dell’Ottocento, il fisico tedesco Helmholtz riuscì col semplice utilizzo di opportuni risonatori a scoprire importanti caratteristiche della voce umana, portando in evidenza proprio la complessa composizione dei singoli suoni. (..) Inoltre, egli riuscì anche a compiere, almeno in via approssimativa, l’operazione opposta all’analisi, cioè la sintesi dei suoni: combinando, con le intensità convenienti, i suoni di vari diapason, riuscì a riprodurre sensibilmente le vocali. Questo ormai non fa più effetto oggi, che siamo abituati a sentire macchine che parlano con voci umane ma, se si pensa che i suoi lavori risalgono alla metà dell’Ottocento, è possibile apprezzare in pieno il valore dell’intuizione e della sua capacità sperimentale”.

Lasciamo dunque agli studiosi di acustica e sonorizzazione di illuminarci sui rapporti che esistono tra la fisica e la musica in riferimento agli eventi che determinano la percezione del suono, così come ai musicologi di scrivere la storia, date e luoghi degli avvenimenti sociali che hanno determinato le diverse teorie sulla musica, ed inoltriamoci, non privi di interesse ed entusiasmo, negli antri della natura che ci circonda alla scoperta dei “suoni originari” che ne sono parte: “I suoni della natura che l’uomo ha recepito sin dalle più lontane origini - scrive ancora A. Bertirotti (8) – entrano a far parte del repertorio cognitivo umano e si selezionano come memoria della specie. Da questo “serbatoio” l’uomo trae gli strumenti atti ad elaborare musica e a fruirne. Anche il “problema della notazione musicale” diviene essenziale per una ricerca sulle origini e gli sviluppi dell’oggetto-soggetto sonoro. Il suono che diventa musica si configura come una delle espressioni privilegiate nelle quali gli uomini possono riconoscersi e rappresentare le proprie emozioni. Poiché la musica esiste quando è eseguita, la notazione musicale raccoglie in sé la memoria delle pratiche sociali dalle quali deriva: traduce in simboli le condotte sonore di chi la produce, di chi la esegue e di chi ne fruisce. La notazione scritta (delle culture alfabetizzate) consente la riproduzione esatta di un messaggio complesso come un brano musicale. Nelle culture orali invece, la trasmissione della musica è soggetta a variazioni e la musica viene ricreata da capo ad ogni nuova esecuzione, ed è ciò che noi chiamiamo improvvisazione. In questo contesto, è importante la fenomenologia culturale per la creazione dell’opera d’arte e per la sua fruizione. Se si pensa che a partire dalla Bibbia ogni forma di creazione è sempre collegata ad un suono, la relazione circolare suono – uomo – suono si configura come punto di inizio e motore fondamentale dello sviluppo della specie”.

In qualche modo va detto che il recente interesse riservato all’Etnomusicologia come disciplina di studio all’interno delle Università, comporta una formazione di base più evoluta di quanto si creda, che trova fondamento nella “ricerca” ai fini della conoscenza antropologica dell’individuo che è l’uomo, e che va oltre quindi, lo studio di quelle che sono le fonti, per così dire, “archeologiche” della disciplina, per inoltrarsi nella memoria dei popoli di ieri come in quelli di oggi che, incredibile a dirsi, non mancano di esempi eclatanti, pur senza trascurare il contesto culturale in cui la musica popolare si è formata e continua a diffondersi. Circostanza questa rivelatrice della costante contaminazione che essa opera all’interno dei diversi stili conosciuti e delle rispettive tendenze: dalla beat generation, al punk, a quella così detta wave, new-age o ethnic ecc., fino alle più recenti iterazioni e rivisitazioni legate ai fenomeni musicali più evoluti. Non escluso il rock che pure, malgrado le sopravvenute trasmigrazioni, tuttavia non si è mai posto in contrasto con essa. Ed è proprio al pop - rock che, va riconosciuto l’aver esteso l’obiettivo della musica popolare nel suo intento di “riconoscimento” e di “approvazione” delle nuove generazioni, e che infine l’ha trainata fino alle soglie della street-music così detta, dai rapper o che dir si voglia, dai breakers di strada, con l’aggiunta di assonanze ritmiche e melodiche nuove e talvolta inusitate, di cui non si avvale la musica più avanzata, elettronica e minimalista, definita ora house, techno, minimal, ora trance, dub-step, dance, vintage, e che, grazie alle sue capacità, è in grado di trasportare l’ascoltatore in luoghi e tempi fuori della sua dimensione abitudinaria.

Tantomeno dobbiamo disconoscere che, nell’arduo cammino che ha attraversato, la musica etnica così detta, o anche quella folk - popolar tipica d’oltre oceano, da sempre, trova nella musica colta (acustica, sinfonica e operistica) lo scrigno della propria sopravvivenza, condividendo con essa, almeno in parte, quell’alone di indiscussa notorietà che questa ha saputo diffondere nel mondo. Circostanza questa, che ha salvato molta musica etnica dalla dimenticanza cui altrimenti era destinata, ancorché spogliata delle scorie del passato, trova oggi, ampia diffusione nella rivisitazione discografica, non solo come risposta “documentaristica” confacente agli scopi della ricerca musicologica. In tal senso, più appropriata alla sua funzione socio - culturale che continua a svolgere una volta superata la barriera dell’incomprensione linguistica e dell’ibridismo di alcune sonorità stridenti che, guarda caso, almeno in alcuni casi eclatanti, pure ne amplia la sua effettiva dimensione di messaggio, fino a divenire sollecitazione e stimolazione dei sensi e della percezione, uno dei tanti aspetti vitali di cui si pensa fosse composta la musica delle origini.

L’ibridismo innocuo di cui la musica di nuova generazione spesso si compone può anche essere vantaggioso poiché trae da una cultura affine elementi che funzionano da catalizzatori e arricchiscono la tradizione stessa partecipe di una determinata cultura. Tuttavia diventa nocivo quando tenta di applicare strumenti e stili diversi inerenti di una tradizione ad un’altra assolutamente incompatibile. Cioè, invece di prendere in prestito elementi costruttivi capaci d’imprimere nuovo vigore alle tradizioni musicali di un certo paese, prende in prestito elementi incompatibili con i principi fondamentali della musica di quel paese, il che ne determina un ibridismo talvolta inaccettabile. Esempi eclatanti di ibridismo musicale si rilevano in alcune regioni dell’Asia e in Africa che, secondo il parere di Tran Van Khé (9): “..impoverisce e talvolta distrugge addirittura il carattere nazionale delle tradizioni in questione è ciò che avviene nella maggior parte dei casi, allorché la musica dell’Oriente o dell’Africa viene a contatto con la musica occidentale. E quando i musicisti orientali o africani di oggi accompagnano i canti basati sulle loro particolarità sonore con un pianoforte accordato su una scala ugualmente temperata, o peggio ancora usano clarinetti, sassofoni e finanche chitarre elettriche per eseguire la musica tradizionale, punteggiando le frasi di essa con gli accordi e gli arpeggi ordinari, cioè con quelli della scala diatonica occidentale”..

Un argomento questo davvero interessante che però ha scatenato qualche polemica nel mondo dei compositori e fruitori della musica come Dimitri Shostakovich (10): “Considerando ogni cultura di pari valore e di pari interesse, è il caso di domandarci in quale misura e in quali modi i mezzi di espressione musicale, elaborati da un popolo nel corso di lunghi secoli, possano essere recepiti da un altro popolo e sottoposti a norme artistiche diverse. Contrariamente a quanti hanno sollevato la questione, per me tutt’altro che chiara, dell’incompatibilità dei sistemi modali ed armonici e nella nocevolezza che questi recano all’eredità culturale dei paesi orientali o africani i mezzi polifonici o armonici della musica europea, o ancora del beneficio che recano, al contrario, gli elementi musicali di paesi culturalmente affini”. Qui l’autore sembra porsi in polemica con Tran Van Khé, il quale, basandosi sulla specifica dell’ibridismo in musica, parla di incompatibilità tra i diversi sistemi musicali. “Per me – ribadisce Shostakovich – non si tratta di sapere se vi è incompatibilità e compatibilità tra diversi sistemi musicali, perché mi sembra che il problema delle interazioni musicali tra popoli etnicamente diversi e geograficamente lontani può essere risolto unicamente dalla sensibilità artistica e dal talento di compositori, esecutori, insegnanti e musicologi, come anche dalla loro sincerità e onestà”.
Certo, si può incorrere nel pericolo di approcci sconsiderati o, peggio ancora, basati su interessi commerciali; e si può essere indotti a trascurare per negligenza o superficialità una tradizione musicale che può rappresentare un grande apporto al patrimonio culturale dell’umanità. “Un atteggiamento irriflessivo – scrive ancora Shostakovich – può produrre un’esecrabile standardizzazione e far smarrire irrimediabilmente le proprie ricchezze nazionali. Ma d’altra parte, non si deve impedire all’arte (musicale) di un popolo di beneficiare di contatti con le manifestazioni artistiche di un altro popolo, né opporsi a prestiti di elementi da un sistema di linguaggio musicale ad un altro. Tra i motivi naturali e legittimi che spingono una tradizione musicale sulla via del continuo progresso, non solo dobbiamo annoverare il contatto diretto con la realtà mutevole, cioè con il rinnovarsi perenne delle condizioni ambientali e la conseguente presa di coscienza di nuove istanze e nuove concezioni di pensiero, ma dobbiamo includere altresì la capacità di assimilare la produzione di altri paesi”. Che è poi quanto in realtà accade quando ci avviciniamo alle culture più evolute, diversamente quando ci addentriamo in quelle che per qualche ragione sono rimaste alla primitiva concezione di base, e cioè allo stato genetico del loro sviluppo.

Riprendiamo invece a parlare della “musica delle origini” che, ahimè dobbiamo ammetterlo, non siamo in grado di recuperare perché connessa con il fattore tempo che ci allontana da essa ormai, e che nessuna persona vivente è più in grado di ricordare. Tuttavia alcuni suoni del passato li possiamo recuperare perché connessi con fenomeni geologici o meteorologici che possiamo chiamare eterni o anche (secondo la nota teoria junghiana) “archetipici”, come lo scoppio del tuono o il frangersi delle onde sugli scogli ecc. pur tuttavia riproducibili. Mentre di altri, appartenenti ai tempi della preistoria acustica, come ad esempio i rumori di alcune attività umane che, sia pure limitatamente, sussistono ancora, possiamo formulare congetture rimettendo insieme gli elementi in gioco, quali possono essere alcune testimonianze ancora valide dell’antica vita sociale e della sua organizzazione dello spazio, ma che non ci aiuta molto a ricostruire, quanto è andato perduto dello spazio-tempo. Per il fatto che la musica di per sé corrisponde a un effimero inalienabile, nel senso che ogni rumore o suono che è possibile captare ad un dato momento, risale solo a pochi istanti prima, e che quindi non è mai antico.

Ne sono un esempio utile i segnali provenienti dalle stelle che hanno certamente impiegato molti anni luce per raggiungere la terra, ma non si può dire che essi abbiano molta importanza nel nostro ambiente acustico. Mentre la rapida estinzione dell’energia sonora (oggigiorno captabile), unita alla nostra limitata capacità di udire, fa sì che anche il più forte rumore, pochi istanti dopo la sua emissione, non sia più afferrabile. Concludendo, per noi recuperare i suoni del passato è infinitamente più difficile che ricostruire l’immagine visiva di un “paesaggio” verosimilmente esistito. Mentre, tranne uno scarsissimo repertorio, registrato in massima parte in laboratori (elettronica) o studi di registrazione (effetti acustici e sonorizzazioni), non rimane alcuna traccia di quanto risuonò un giorno intorno all’uomo, delle antichissime cosmogonie precedenti la creazione e che Marius Schneider (11) definisce “Quella realtà spesso descritta come un’oscurità sonora in cui nulla è ancora solido e tutto è vibrazione musicale, e la creazione stessa come l’atto sonoro originario, come un paesaggio graduale a oggetti sempre più solidi e silenziosi”. Di cui la musica è senza dubbio la più antica allegoria possibile che si riconduce alla sua essenza, spiega le connessioni tra musica e magia, il rapporto tra parola e suono, la funzione simbolica dei suoni vocali e strumentali, la struttura linguistica di ritmo-melodia e armonia.

Apprendiamo così che, l’insieme della cultura musicale e tutto ciò che ad essa ruota attorno, si rivela uno dispositivo fondamentale “per la conoscenza di chi siamo”. È questa un’osservazione talmente ovvia da non sembrare necessario soffermarvisi e riflettere sul suo significato. Eppure, anche quando con i primi studi antropologici, ci si è accorti che l’essere consapevoli della propria esistenza, non è dato scontato per tutti allo stesso modo, non ci si è preoccupati – almeno non a livello educativo e scolastico – di supportare una campagna a sostegno della ricerca Etnomusicologica fondamentale di quella “cultura primaria” che associata, a una necessaria e quanto mai dovuta “presa di coscienza”, è in grado di restituirci la consapevolezza dell’immenso “dono” che ci è dato, determinata dal fatto che la musica, alla stregua delle altre arti, va considerata patrimonio di tutta l’umanità. Mi piace qui sottolineare un’intrigante intuizione di Marcel Mauss (12) che, con il triplice obbligo di dare, ricevere e ricambiare, il dono costituisce un “fenomeno sociale totale” a cui fare riferimento, all’interno di una sorta di prerogativa universale, e che va visto come un corpus unico e irripetibile del passato della cultura di un popolo, pur con le sue diversificazioni e interazioni, le sue eredità peculiari e speculari, che per la tipologia umana che autenticamente lo ha corrisposto. Fatto, questo che ha permesso allo stesso Mauss di affermare: “che tutte le società arcaiche, siano esse considerate “selvagge” o “primitive”, o “senza stato”, pensano se stesse e pensano il loro universo e perfino il cosmo, nel linguaggio del dono”, di cui la musica – aggiungo – figura tra i beni materiali di cui ogni giorno usufruiamo.

Naturalmente, pur con evidente riserva, credo che una tale affermazione teorica non possa essere dimostrata induttivamente mediante accumulazione di esempi, ma soltanto possa valere finché confutata sul piano psicologico o forse olistico (religioso) al di fuori di ogni possibile ricerca, malgrado si abbia la sensazione che si stia parlando di un puro miraggio, che quindi avrebbe comunque un’esistenza soltanto ideologica. Donde il problema che si pone a tutti e a nessuno del perché popoliamo questa terra, perché si sono formate le comunità umane, perché della nostra stessa esistenza, ecc. Non a caso il tema del dono (ricevuto) è qui messo in maggiore risalto sulle altre preposizioni della ricerca, allo scopo di suffragare l’ampio materiale etnomusicologico che abbiamo a disposizione. Se esso sia sufficiente e abbastanza eloquente da risultare infine dimostrativo, è un fatto che va oltre il campo di investigazione, poiché il materiale di osservazione, qui di seguito riportato, per quanto con proposito letterario, è al dunque esclusivamente di natura cartacea, e richiede di essere sostenuto da altrettanto materiale sonoro corrispettivo come quello da me ascoltato e annotato, e riportato nell’ampia sezione discografica inclusa al termine del capitolo.

Alcuni studiosi affermano – e non sempre a torto – che l’ascolto di un disco di folklore esclude da una partecipazione attiva e pertanto non raggiunge lo scopo “creativo” proprio della musica popolare. In breve, tutto ciò che è inciso, presentato, illustrato è artefatto ma, se è vero che il manufatto discografico non permette di trovare una unità di sintesi, quale invece si riscontra nella partecipazione al “fatto” musicale, poiché è annullata la distinzione tra artista e pubblico di una rappresentazione, che invece vive ogni insita “espressione” con tutto il corpo in una sorta di comunicazione totale. Tuttavia, quello che qui importa annotare, è che il “modello” che ha caratterizzato finora la cultura orale nel senso più ampio del termine, in quanto basato sulla ripetizione ciclica di eventi secolarizzati, non è diverso da quello annotato dai primi studi antropologici o etnologici effettuati dai ricercatori nell’800 e ancor prima. Oggi, seppure con metodi diversi, quello stesso modello si rende indispensabile alla continuità della vita di gruppo di molti popoli di tradizione, così come pure, definisce la specifica estrazione sociale che lo caratterizza, sia che si tratti degli Aborigeni australiani, degli Indios amazzonici, degli Zingari di cultura Rom, dei Peul o dei Bantu africani, dei Tuareg o di altre popolazioni nomadi Sahariane, ecc. (solo per citarne alcune).

Tanto per fare un esempio piuttosto banale prendo a caso l’espressione entrata nell’uso comune che viene spesso attribuita a certa musica, dal gusto “pittoresco” o quanto meno “folkloristico”, detta con l’inflessione della lingua anglosassone con la quale spesso la si usa etichettare e che, in qualche modo, pure la contraddistingue, conferendogli una definita identità. Testimonianza questa, che ci consente di riconoscere una dignità culturale specifica, distintiva di molti popoli più o meno conosciuti in seno alla sempre più evoluta popolazione delle nazioni, per cui andare alla ricerca delle loro “origini” linguistiche, o tracciare le linee di un modello culturale che possano aver perseguito, come pure evidenziare i caratteri originali di cui si compone la loro tradizione musicale, assume significato di andare alla ricerca della “memoria del tempo” e di quanto ci permette di ripercorrere l’intero arco ciclico socio-musicale dell’umanità. È quanto più rientra nel lavoro dell’Etnomusicologo, il cui impegno dev’essere meta e linea di partenza di un percorso ancora tutto da scrivere. Etnomusicologia dunque, come acquisizione di un maggiore bagaglio culturale, per un sempre maggiore impegno sociale nella conoscenza di popoli e paesi “altri” dal nostro, che si aprono a noi e ci svelano i loro segreti e le loro gemme musicali, i loro riti, le usanze e i costumi. Rendendoci partecipi del loro mondo fantasmagorico, di colori, di note, di suoni, di strumenti, di canti e di balli che hanno conosciuto la notte dei tempi, molti dei quali, mantengono ancora oggi tutto il fascino del loro mistero. Ma è bene che lo scopriate da voi stessi.

Bibliografia, discografia e altro:

Il ricercatore e lo studioso, o chiunque voglia essere introdotto all’Etnomusicologia, possono fare oggi affidamento su moltissimo materiale di consultazione, edizioni librarie e discografiche, documentari e registrazioni d’epoca, speciali allestimenti di mostre e simposi su diversi argomenti inerenti ai differenti argomenti di ricerca, indetti da Centri Culturali, Musei di Antropologia e delle Trazioni Popolari. Inoltre, molte Librerie hanno allestito al loro interno un reparto specialistico in cui è possibile trovare oppure ordinare molti testi un tempo introvabili, grazie a ristampe e quant’altro riferite a E. De Martino, Pitré, G. Nataletti, D. Carpitella, R. Leydi, Lombardi-Satriani, C. Tullio Altan, Pinzauti, Di Nola, Mircea Eliade, A. Danielou, J. G. Frazer, Metreàux, Malraux, E. Burnett-Tylor, B. Nettl, M. Freedman, Levi-Strauss, A. Lomax, Renè-Guenon, C. Sachs, M. Schneider, Leroi-Gourhan, Alexei A. Léontiev e tantissimi altri. Ed anche ristampe nozionistiche sul folklore meso-americano, le religioni indiane, e del lontano Oriente, nonché la ricerca archeologia degli strumenti musicali, i riti e le usanze sessuali degli aborigeni, gli ultimi popoli “primitivi” della terra, ecc.

In discoteca, sono rilevanti le produzioni discografiche riguardanti questa o quella popolazione, curate da famosi musicologi, etnologi e studiosi del folklore. In Inghilterra, la Oxford University Press, in collaborazione con la His Master ‘s Voice, ha pubblicato un’importante collana dal titolo: “The Music in Sound” che va dalla musica dei primordi fino alla musica moderna attraverso le sue fasi evolutive. Giunta alla sua X ristampa, si compone di 25 LP, accompagnati da piccoli volumi esplicativi che ne illustrano l’intero contenuto. Relativa all’Organizzazione Internazionale UNESCO, sottopongo all’attenzione di quanti operano nel settore della cultura le collane musicali: “Antologia della Musica Africana” (14 vol.), “Antologia Musicale dell’Oriente” (26 vol.), “Antologia della Musica Classica dell’India del Nord” (4 vol.), dirette dal noto studioso Alain Danielou per conto della Musicaphon-Barenreiter (Germania), oltre a quelle prodotte in Italia “Musical Atlas” alle quali ho prestato la mia collaborazione. Si tratta di un vero e proprio Atlante geografico della Musica, un insieme di documenti sonori (36 LP) che raccolgono le testimonianze linguistiche e musicali d’ogni gente e paese, accompagnati da testi esplicativi in italiano, francese e inglese, che ne facilitano la comprensione. Riuscendo a ricreare, pur nel limitato spazio di una registrazione sonora, una visione esemplificata delle caratteristiche e delle componenti tradizionali dell’arte musicale di ogni popolo.

Altro importante contributo alla ricerca Etnomusicologica è quello prodotto dall’Editoriale Sciascia, la cui produzione nelle due collane pubblicate: “Albatros” e “Zodiaco” hanno assunto raggiunto una fisionomia piuttosto unica nel settore discografico, riscuotendo notevole successo tra il pubblico più giovane. Un encomio particolare va alla collana “Albatros” per le note di copertina sempre ricche di nozioni, affidate a veri ricercatori della materia; con registrazioni “sul campo” curate da Leydi, Carpitella, Lomax e moltissimi altri. Notevole anche la produzione della Argo-Decca: “The Living Tradition”, risultato di quindici anni di ricerche che l’esperto di etnologia Deben Bhattacharya ha registrato “dal vivo” (75 vol.); autore, inoltre, di molti articoli e libri sull’Etnomusica, nonché arrangiatore delle colonne sonore dei suoi molteplici documentare filmati in giro per il mondo.

Per gli amanti dell’attualità, segnalo per la Decca i due album dedicati alla Cina: “Chants Traditionnels de Chine” e “Musique Traditionnels de Chine”, entrambi contenuti in una veste grafica splendida. Registrati “dal vivo” da Pierre d’Ursel i due album raccolgono i canti e le musiche tradizionali del Tibet, Gansu, Shansi, Taiwan, Quingai, in cui sono raccolte cerimonie religiose e altri riti cerimoniali cinesi proposti dall’Opera di Pechino.

Note:

(*) Giorgio Mancinelli, giornalista free-lance, ricercatore e studioso di antropologia, saggista, programmatore radiofonico per la RAI “Folkoncerto”, “Maschere rituali”; RSI - Radio della Svizzera Italiana “Itinerari Folkloristici”, “Il canto della terra”; Radio Vaticana “Il Cantico di Natale”, “Pasqua di resurrezione”. Ha collaborato col Prof. Alain Danielou alla collana di Etnomusicologia “Musical Atlas” per l’UNESCO-EMI, e la pubblicazione di articoli e reportage su diversi quotidiani e riviste di settore. Libri: “Anno Domini: Usanze e costumi della tradizione natalizia” - Grafica & Arte Editore 1992. “Gli Zingari: Usi e costumi di un popolo nomade” – Lato/Side Editore 1994. “Arpaderba: una fiaba ecologica” – illustrata da Mariaelisa Leboroni – Perugia 1998; “Musica Zingara: Testimonianze etniche della cultura europea” - Firenze Atheneum 2006, vincitore del Premio per la Saggistica Italiana “L’Autore” 2006. Attualmente collabora con alcuni siti web ed ha all’attivo inediti tra romanzi e short stories.

(1) “The New Oxford History Of Music” vol.1 – Oxford Press – London - per l’Italia Garzanti-Feltrinelli – Milano 1991.
“Enciclopedia della Musica” – Garzanti, Milano 1996.
“The Larousse Encyclopedia of Music” – The Hamlyn Publishing Group – London 1978.
“The world of music”, Journal of the International Institute for Comparative Music Studies – Berlin in association with The International Music Council (UNESCO). Chairman of the Board: Alain Danielou.

(2) “Breve storia della Musica”, Massimo Mila – Einaudi, Torino 1963.
“La Musica Primitiva”, Marius Schneider – Adelphi, Milano 1992.

(3) Alain Danielou - Editoriale in Il Corriere Unesco (Anno XXVI – Giugno 1973.
Saggista e filosofo, oltre a essere il curatore delle collane sopra riportate, è stato consigliere emerito presso il Consiglio Internazionale della Musica Africana e Asiatica, ha diretto l’Istituto di Studi Comparativi della Musica – Venezia Fondazione Cini. Ha scritto saggi sulla filosofia indiana, traduzioni dal sanscrito (la sua collezione di manoscritti sanscriti sulla musica è una delle più importanti al mondo); ed opere come “The Ragas of Northern India Music” (2 vol.) – Londra 1953. “Le Politheisme Hindou” – Parigi 1960. “Situation de la Musique et des Musiciens dans les pays d’Orient” – Firenze 1971, e “Traité de Musicologie Comparée ” – Unesco Collection e in “Trattato di Musicologia Comparata” Lerici – Cosenza 1977.

(4) Peter F. Ostwald: “Psicologia del rumore” in Il Corriere Unesco (Anno XXVI – Giugno 1973.
Psichiatra e pedagogo è un’autorità in materia acustica e di linguistica applicata ai problemi della sanità mentale e della malattia. Professore di psichiatrica alla Scuola di medicina, Università di California, San Francisco U.S.A. Sua opera più importante: “Communication and Human Interaction” – New York 1977.

(5) Oliver Sacks: “Musicofilia” - Adelphi, Milano 2009.
Medico e scrittore, vive a New York dove insegna neurologia e psichiatria alla Columbia University Artist. È autore di molti libri, fra i quali “Risvegli”, da cui è tratto il film che 1990 ebbe tre nomination agli Oscar. “Ogni storia cui l’autore dà voce illumina uno dei molti modi in cui musica, emozione, memoria e identità s’intrecciano, e si definiscono. Forse la musicofilia è una forma di biofilia, giacché noi percepiamo la musica quasi come una creatura viva” (dalle note di copertina).

(6) R. Murray Schafer: compositore, fondatore e direttore del World Soundscape Project, Progetto Mondiale dell’Ambiente Sonoro da lui ideato per promuovere una nuova ecologia del suono, sensibile ai crescenti problemi dell'inquinamento acustico, con il testo “The Tuning of the World” (1977), tradotto in Italiano con il titolo “Il paesaggio sonoro” 1980. Ha studiato al Royal Conservatory di Londra e all'Università di Toronto e per molti anni ha insegnato alla Simon Fraser University di Vancouver. Una personalità eclettica tra le più interessanti della musica contemporanea nordamericana, e nel 1987 è stato insignito del premio Glenn Gould e nel 2005 del Walter Carsen Prize, attribuitogli dal Canada Council for the Arts.

(7) Alessandro Bertirotti: in “Etnomusicologia e antropologia della musica” – Seminario tenuto all’interno del Corso di Etnologia (dispense a. a. 2001-2002), Università degli Studi di Firenze. È scrittore, ricercatore, docente universitario presso la facoltà di Medicina e Chirurgia. L'unico docente italiano che si occupa di Antropologia della Mente presso la facoltà di pedagogia di Firenze, dove è docente di Antropologia culturale e della mente. È direttore scientifico della collana antropologia e scienze cognitive della Bonanno Editore, membro della direzione scientifica della rivista on-line piscolab, e inoltre membro del comitato scientifico del Centro Studi Internazionale Arkegos e direttore dell'area Antropologica Umanistica; ricercatore nel campo della biomusicologia presso i laboratori di antropologia dell'università di Firenze. Tra la sua copiosa produzione, vanno ricordati: “Antropologia culturale nella musica: quale utilità didattica?” in - E.P.T.A. News, Roma 1994,. “L'uomo, il suono e la musica” - Firenze University Press, Firenze2003. Con Larosa A. “Umanità abissale. Elementi di Antropologia secondo una prospettiva evolutiva e globo centrica” - Bonanno Editore, Roma-Catania 2005. “L'anima cerebrale”, Bonanno Editore Acireale-Roma 2009. “Ragionevolmente divini”, prefazione al testo di M. Chiappini, David Lazzaretti. “La mente ama. Per capire ciò che siamo con gli affetti e la nostra storia” - Il Pozzo di Micene Edizioni, Firenze 2011.

(8) A. Bertirotti, op. cit.

(9) Tran Van Khé: in “Musica addio” in Il Corriere Unesco (Anno XI – Giugno 1973.
Direttore del Centro Studi di Musica Orientale presso l’Istituto di Musicologia dell’Università di Parigi e membro del Consiglio Internazionale della Musica. Specialista delle musiche asiatiche, ha compiuto numerosi studi sulla musica tradizionale del Vietnam , sulla musica di Asia ed Europa. Sua opera più importante: “Musique et Societé” . Rivista Internazionale “Cultures” – UNESCO 1978.

(10) Dimitri Shostakovich: una delle più importanti figure della musica moderna russa, ricevette diversi riconoscimenti sia a livello nazionale che internazionale. Autore prolifico di musica per tutti i generi, dalla canzone alla musica per balletto, alle colonne sonore per film, alcune opere e sei concerti e pagine per pianoforte. Risalgono infatti al 1915 (aveva 9 anni) le prime testimonianze di composizione. Šostakovič entrò nel 1919 al Conservatorio di San Pietroburgo, dove continuò a studiare il pianoforte con Leonid Nikolaev e composizione con Maximilien Steinberg: si diplomò nel 1923 in pianoforte e nel 1925 in composizione. Nel 1927 il governo gli chiese una seconda sinfonia in commemorazione dell’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. In quello stesso anno ottenne un diploma onorifico al concorso Chopin di Varsavia. Iniziò contemporaneamente a lavorare all'opera satirica "Il Naso" ispirata all'omonimo racconto di Gogol'. Il suo linguaggio si rifà alla tradizione e alla cultura russa, mischiandole in una propria e originalissima visione della forma e del contenuto. Dopo un primo periodo di avanguardia, Šostakovič si riallacciò alla musica romantica, ispirandosi a Gustav Mahler. La sua musica spesso comprende acuti contrasti e elementi grotteschi. Le quindici sinfonie e i quindici quartetti per archi sono generalmente considerati le sue composizioni di principale importanza.

(11) Marius Schneider, “Il significato della musica” – Rusconi, Milano 1979. Filologo, musicista, ricercatore, è stato Direttore dell’Istituto Espanol de Musicologìa di Barcellona. Si è dedicato allo studio dell’origine delle tradizioni popolari, alla ricostruzione delle antiche cosmogonie. Titolare della Cattedra di Musicologia all’Università di Colonia. Sue opere principali in italiano: “La Musica Primitiva”, Marius Schneider – Adelphi, Milano 1992 e quella sopra citata.

(12) Marcel Mauss: "Saggio sul dono: Forma e motivo dello scambio nelle società acaiche" – Einaudi, Torino 1965. Antropologo, sociologo e storico delle religioni francese, massimo esponente della scuola di Durkheim. Collaboratore della rivista Annéè Sociologique, fondata nel 1898 da Emile Durkheim. Fra le sue opere fondamentali vi è il “Saggio sull'origine del sacrificio”, scritto a quattro mani con Henri Hubert. Il libro non tratta strettamente dell'origine del sacrificio, ma scavalca questa tematica per andare a indagare la dinamica e le strutture di questo rito. Mauss parte dal concetto originario di sacrificio, nella sua accezione più etimologica: il sacrificio come sacrum facere, rendere sacro, come atto religioso che comporta la rinuncia di un bene a favore di un essere sovrumano. Molto conosciuta e importante per la storia dell'antropologia, la sua teoria, espressa nel celebre "Saggio sul dono", nasce dalla comparazione di varie ricerche etnografiche, tra le quali lo studio del rituale potlach di Franz Boas e del Kula di Bronislaw Malinowski.


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