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Quaderni di Etnomusicologia 5: Thailandia

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 13/08/2011 17:15:36

QUADERNI DI ETNOMUSICOLOGIA 5
“THAILANDIA: splendori di una tradizione secolare”, di Giorgio Mancinelli
(Da “Folkoncerto”, trasmissione radiofonica in onda su RAI-Radio3, e “Itinerari Folkloristici”, reportage trasmesso dalla RSI – Radio della Svizzera Italiana, apparso inoltre in forma di articoli sulle riviste: Super Sound, Nuova Scienza, Il corriere della musica).

Bangkok si apre davanti ai nostri occhi in modo autentico e originale di moderna capitale di uno stato assai grande e grandioso di storia, contrassegnata da un’evoluzione dinamica e rivoluzionaria dei canoni tradizionali, con numerosi alberghi e un turismo cosmopolita che non ha tardato a condursi dentro le linee irrefrenabili della industrializzazione tecnologica. Tuttavia, sembra resistere ancora bene alle influenze distruttive tipiche di una occidentalizzazione fin troppo pressante, e della globalizzazione invadente, con l’aver conservato le sue tradizioni plurisecolari e un artigianato tutt’ora fiorente. La vita giornaliera ha inizio prima del levarsi del sole, ciò che avviene sfruttando quelle ore ancora più fresche che consentono di spostarsi senza troppa difficoltà attraverso le vie d’acqua, tra mille giunche colme di masserizie e derrate di riso e ortaggi, frutti tropicali, carni essiccate, e pesci appena pescati. È questa l’atmosfera un po’ rarefatta del floating market, il mercato galleggiante, meta dello shopping quotidiano per tutto ciò che concerne il sostentamento energetico. Un fluttuare di voci e di suoni armoniosi che ben presto si trasformano in autentico richiamo, benevolo e delizioso, colmo di sorrisi e di sguardi suadenti di una popolazione multietnica che fa della cortesia e dell’accoglienza, un vero baluardo di concretezza.
Lungo le vie d’acqua si scorgono appena, nascosti dall’alta vegetazione, i tetti di legno ricurvi delle abitazioni tipiche. S’odono ricorrersi nell’aria e risuonare allegre, mille campanelle a vento appese, e il diffondersi dell’odore inconfondibile del sandalo dagli stecchi accesi davanti alle divinità e i piccoli tabernacoli accanto alle case, nei giardini e sull’acqua. Quando ècco, altissimo sulla riva del fiume Chao Phraya, nel dominio assoluto del cielo, svettano le guglie del Wat Arun, il “tempio della prima alba”, tempestate di vetri multicolori e ceramiche a smalto che si accendono al levarsi maestoso del sole. La visita continua nel tempio, ammessi alla presenza del Buddha dal sorriso metafisico che perennemente invita alla meditazione. quello stesso identico sorriso che si scorge sul volto delle numerose persone che lì accendono profumi e incensi e che fanno offerte di piccole lamine d’oro e monete ai bonzi calvi, nei loro panni color zafferano.
La scelta della visita guidata alla Città Reale permette d’immergerci nella realtà favolistica delle costruzioni, tra guglie e pinnacoli, pareti di piccole colonne e rientranze, che ci si perderebbe se non fosse per gli enormi yakshah dalle teste demoniache, i guerrieri di pietra messi a guardia delle entrate dei templi, per spaventare gli spiriti maligni. Qui, e per la maggior parte, ogni elemento è rivestito di una patina d’oro, con lapislazzuli e pietre colorate, come per una rappresentazione dell’inimmaginabile che abbaglia, tanto splendente risulta alla luce di una venerazione che ha del sacro. Finanche le nuvole che s’accumulano uggiose e oscurano il cielo sono qui le benvenute, quasi fossero portatrici d’una speranza riposta, il cui dono, assai ambito, è accolto col fervore di una manna. Lo scroscio d’acqua di un monsone di breve durata, infatti, riporta il sorriso sulle facce della gente che si ferma, quasi a ubriacarsi del generoso effluvio di un nettare che la restituisce alla vita.
Immersi fino alle ginocchia nell’acqua piovana che ristagna nelle strade e scola dai tetti delle case, la vita riprende infine a sorridere. Attivi come e più di prima, grondanti d’acqua, i giovani fanno festa al sole che ha fatto capolino, e già le grida e le voci sonanti accolgono la processione dei bonzi che al suono di gong e cimbali s’avvia lungo la strada, accolta dalla popolazione con piccoli doni di fiori, di umili preghiere e di cibo. Un suonatore ambulante con uno strumento a forma di piccola viola e un manico e due corde e suonato con una sorta di archetto, improvvisa una musica arcana che prende per la sua tenue “leggiadria”. Il canto – mi dice la guida che mi accompagna – è tipico delle regioni montane del Nord, nel linguaggio dialettale più antico (forse una lingua), in cui sono enunciati i relativi dèi delle festività annuali, qui usato in forma di benvenuto e d’amicizia, affinché gli dèi siano propizi nell’accoglierci.
Per il ristoro, prima di riprendere il viaggio, ci si affida alle golosità di un tipico ristorante Thai, le cui inservienti ci accolgono col rispettoso saluto “Sawasdee!” e le mani congiunte sul petto, facendoci dono di una graziosa orchidea, simbolo della loro benevolenza. Il pranzo si compone essenzialmente di riso, alternato a delicate zuppe di pesce, o come per la cucina cinese, insieme con contorni di carne di piccoli uccelli, di anatra selvatica, di maiale cucinato in una infinità di modi; oppure con crostacei e arrosti conditi da una vasta gamma di salse piccanti o in agrodolce, preparate a base di erbe aromatiche e ortaggi. Non c’è che dire, è qui possibile soddisfare anche il palato più ricercato. A completamento del pranzo si possono gustare frutti deliziosi di produzione locale come arance giganti, ananas succulenti, mango e papaya da gustarsi con una schizzata di limes.
Per i curiosi della cucina esotica c’è da sbizzarrirsi nella ricerca di ristoranti diversi cantonesi e vietnamiti, e altrettanti occidentali di buon livello. Non mancano piccoli mercati rionali dove trovare venditori ambulanti di zuppe e contorni tipici della cucina contadina e popolare a base di piccoli crostacei e verdure che, anche se non proprio affidabili per la pulizia (almeno ai nostri occhi) sono però davvero molto buoni. E venditori di ben sei diversi tipi di banane gustosissime la cui vera specialità è in quella fritta. Provare per credere, se non altro sono cibi autentici e tutti cucinati al vapore in modo tradizionale, a dirlo sono i numerosi accoliti che fanno la fila per accaparrarsi la loro porzione giornaliera.
La sera ci attende con i suoi richiami luminosi, dei numerosi bar e pub ma anche dei saloni di massaggio e locali notturni, molto fiorenti nella cosmopolita Bangkok. Il traffico, soprattutto quello pedonale, si svolge maggiormente su due strade principali: Patpong e Patchburi, ma non bisogna lasciarsi troppo prendere dalle occasioni. I divertimenti leciti o illeciti che la città offre sono sì una caratteristica locale ma, come in tutte le altre metropoli crocevia internazionale, si può incorrere facilmente in sorprese non proprio auspicabili. È però forse il “massaggio tailandese” ad offrire la prospettiva più attraente ed eclatante. Praticato da giovani e attraenti fanciulle debitamente selezionate alle quali si può chiedere una prestazione maggiorata che, intendiamoci bene, la si ritrova poi aggiunta sul conto da pagare.
Per i più tranquilli c’è sempre e comunque il richiamo della cultura. Allora anche la cena può trasformarsi in un intrattenimento con danze tipiche e l’ascolto di ottima musica classica suonata da gruppi di strumenti Thai. Oppure di assistere ad altre forme di spettacolo come quelle dei burattini o del teatro Khon, una forma di dramma secolare danzato e accompagnato da musica vocale e strumentale, la cui durata ahimè varia da una a tre ore, dove è però visibile tutta l’arte che in esso si raccoglie: dai costumi finemente lavorati, alle stupende maschere semplicemente “meravigliose” dei protagonisti, agli stupendi trucchi cosmetici che rendono così espressivi i volti delle danzatrici e danzatori che calcano la scena.
Per chi è più interessato all’arte orientale, l’itinerario è alquanto impegnativo, poiché esistono più di 300 monasteri buddhisti nella sola Bangkok e la provincia che la circonda. Tutti da visitare in quanto contengono reperti importanti non solo per la religione di stato ma anche per l’intrinseco valore d’arte. Tuttavia i più importanti da visitare sono in ordine: il Wat Phra Keo, all’interno della cinta del palazzo Reale contenente il più famoso Buddha di Smeraldo. Il Wat Banchama Bophit costruito in marmo bianco di Carrara, in cui è maggiormente messo in risalto lo stile Thai della costruzione, e il Wat Po annesso al Monastero del Buddha giacente , contenente la più vasta collezione di immagine del Buddha, iscrizioni e bassorilievi con scene della vita del “Ramayana”. Il Wat Traimit incluso nel Monastero del Buddha d’Oro la cui costruzione risale al 1238 in cui è possibile ammirare una della più antiche immagini di Buddha ricoperta d’oro e, non in ultimo, il Wat Sraket, detto il tempio della Montagna d’Oro che si vuole sia stato costruito sui resti della casa del Buddha.
Il Museo Nazionale di Bangkok è indubbiamente il più grande di tutto il Sud-Est asiatico e raccoglie oggetti significativi dell’arte di tutto il Sud-Est asiatico, a partire dal V secolo a oggi, con esempi straordinari di sculture in pietra e bonzo, e manufatti di porcellana e legno dell’antico regno del Siam, Kmer e Birmana, del Laos e della Cambogia. Assolutamente da non mancare è The House on the Klong, nel villaggio Pak Hai, fatta costruire nel 1800 dall’inglese James H. W. Thompson (1). Un magnifico esempio di casa Thai nel suo stile più tipico, immersa nella vegetazione del parco a ridosso del fiume Klong. In essa si conserva una stupenda collezione d’arte e pezzi d’antiquariato, forniture e arredamenti di manifattura Thai e Kmer a partire dal sec. VI al XVIII:

“L’intera casa è costruita in sezioni pre-fabbricate appese sulla sovrastruttura senza connessioni di sorta o chiodi; le colonne che la sostengono e l’inclinazione del tetto, di conseguenza, è inclinato verso il centro. Lo scopo pratico di questo sistema è incerto, ma esteticamente aggiunge all'illusione di altezza ed eleganza che forse sono la caratteristica più memorabile di architettura tailandese tradizionale”. Una visita questa, che non deluderà il più sofisticato amatore di cose d’arte per il suo gusto raffinato e il profano in cerca di forti sensazioni.

Intanto è giunto il tempo di riprendere il nostro viaggio verso il cuore della Thailandia in direzione del Bang Pa In, sulla strada per Ayuthia, l’antica e gloriosa capitale del Siam, più conosciuta come la “Città del Paradiso”. Risalendo il Chao Phya Menam, ovvero la Grande Madre Fiume, a bordo della Oriental Queen un panfilo da crociera di 45 metri, attraverso l’estesa pianura coltivata a cotone e le ampie risaie fino a Bang Pa In, si arriva alla residenza estiva dell’imperatore, accolti in uno scenario mozzafiato, dove la natura, ricondotta nelle figure di una geometria essenziale, suggerisce all’emozione l’armonia del Yi (cinese): il raffinato estetismo del pensiero suscitato dalla contemplazione della perfezione.
E' altresì meraviglioso ammirare architetture finemente decorate in una mescolanza di stili nelle forme originali di pagode e padiglioni estivi finemente studiati con meticolosa cura, che “compongono il sublime giardino della vita”, tali, da non suscitare alcun dubbio sulla loro dislocazione armoniosa con la natura circostante, dove infine: “la bellezza penetra l’occhio a poco a poco” e s’incanta. Il culmine di questa raffinatezza è rappresentato dal Sawan Thi Paya, il padiglione a giorno posto al centro di un piccolo lago, in cui l’imperatore era in uso isolarsi in meditazione, e in cui, in verità, si è sopraffatti dal desiderio di pace e di raccoglimento come in nessun altro luogo: come mondi vorticanti nella spazialità dell’anima di cui il mondo è prigioniero; quasi che l’enigma costante dell’essere materializzi infine ciò che è l’irreale: come contemplare il proprio volto riflesso nell’acqua.
Qui, la musica degli strumenti è lontana, se non per il tintinnio delle campanelle appese negli altri edifici, e che al massimo raccolgono il vento che scende dalle montagne che si stagliano distanti, a rappresentare “tutte le montagne del mondo in una sola pietra”:

"... qui Udorn veniva con i propri musici per fare serenate per lei, abbigliata nelle sete più belle del mondo. I menestrelli cantavano le poesie d'amore che Lui stesso aveva composto e le melodie dei compositori di Ayuthia, famosa per la sua musica. E faceva venire danzatori nel nostro giardino per rallegrarla. La sua voce s'innalzava pura e dolce; e gli inni assumevano una forza nuova".

Attraversata una vasta pianura, raggiungiamo in pullman la zona archeologica di Ayuthia, le cui imponenti rovine, semicoperte da una imperiosa vegetazione, offrono una visione davvero suggestiva. Gli scavi, tutt’ora in corso, continuano a riportare alla luce gran parte degli edifici e dei monumenti che in passato la fecero grande e contribuirono a renderla leggendaria fino ad attribuirle l’epiteto di Città del Paradiso: una città splendida e vivace sotto il sole, con le sue trecentosessanta cupole d'oro slanciate verso il cielo, “un bagliore d’oro nelle menti di coloro che la videro nella sua gloria”. Capitale di un regno antichissimo e culla della cultura buddhista almeno per gli ultimi cinquecento anni della sua storia, Ayuthia fu più volte conquistata e distrutta dai Birmani che s’impossessarono dei tesori in essa contenuti e spogliarono i suoi numerosi Wat ricoperti d’oro le cui guglie riflettevano alla luce del sole.
Qui era conservato il favoloso Buddha in piedi, alto 16 metri e ricoperto di 263 kg. d’oro, posto al centro della Cappella Reale, e che, quando la città cadde definitivamente nel 1767 ad opera dei Birmani, venne incendiato e fatto colare l’oro che lo rivestiva, distruggendo insieme ad esso ogni cosa del grande monastero Phra Sri Sampet in cui erano raccolte le documentazioni più antiche del buddhismo e della storia della gente Thai, nonché le testimonianze dell’arte provenienti da tutto il regno. All’interno della zona archeologica è comunque possibile ammirare numerosi templi ed edifici di pregevole valore artistico, recuperati alla vegetazione che li ha tenuti nascosti, talvolta inglobandoli nei tronchi degli alberi, nel corso di appena un secolo. Non è inusuale vedere una statua del Buddha contenuta in una selva di arbusti o nel tronco di un albero secolare che gli è cresciuto attorno.
Sono gli alberi, infatti, dalle fogge e dai colori incredibili che, in qualche caso, sono tenuti in gran considerazione dalle genti Thai che li venerano come sacri, legando ai loro rami centinaia di piccole striscioline di carta colorate in rappresentanza di desideri, malinconie, richieste di vario tipo, per lo più amorose; e che svolazzando emanano al leggero vento che s’alza verso l’imbrunire una sorta di “musica” pacata, paragonabile a una ninna-nanna muta e sottile che la natura circostante accoglie in sé prima di addormentarsi e che racchiude le ombre dell’arcano splendore di una civiltà tramontata per sempre.

Non rimane che rimetterci alle pagine di una scrittrice raffinata e attendibile come Han Suyin che, nel suo libro più famoso dal titolo “L’incantatrice” (2), ha ricostruito quanto della storia di questa città è andato perduto nel corso dei secoli: “Risalimmo il Menam, con un vento mite che gonfiava le vele delle nostre giunche, con i barcaioli che cantavano le loro leggende e facevano doni, perché il nostro viaggio non avesse intoppi. (..) Un pomeriggio inoltrato, mentre il sole si addolciva e i bufali acquatici risalivano languidamente la riva, apparve Ayuthia, risplendente con le sue trecento cupole d’oro, una fiabesca città incantata che mi fece gettare un grido di gioia. (..) Mai avevo visto una simile meraviglia, e perciò era molto ambita. (..) Intorno a essa il Menam incontrava i suoi tributari, e la cingeva con una grande fascia d’acqua. Un vero prodigio!”.
“Più di tre secoli addietro, dove il fiume si divideva per cingere Ayuthia, sorgeva il grande Wat Phanang Cheng, per metà cinese e per metà thai. (..) Il Wat era immenso, al centro troneggiava una statua di Buddha che risaliva al 1320. Il volto era illuminato dalle lampade accese al tetto e alle altissime colonne che lo attorniavano. Era ricoperto d’oro, e le foglie d’oro si agitavano nel vento delle candele sulle centinaia di statue più piccole allineate lungo le pareti e intorno all’altare principale. A fianco del Wat c’era un santuario taoista, con le porte che raffiguravano il simbolo ying-yang, il principio maschile e il principio femminile, mezze spirali eternamente avvolte l’una all’altra, indivisibili. E c’era un piccolo sacello aperto dedicato a Tien Hou, regina dell’Oceano, con un’ancora, un remo e un rotolo di corda tra le candele e i bastoncini d’incenso che bruciavano”.
“Al di la del fiume, attraversando l’imperiosa cintura d’acqua per raggiungere i moli interni, la porta cinese, chiamata Nei Kai, si aprì davanti a noi. I bastioni erano traforati da porte, e sotto ogni porta c’era l’acqua che collegava al fiume le vie-canali della città di Ayuthia., che attraversammo su di un’imbarcazione lunga e agile, con quattro rematori e la prua ornata da una testa di animale. (..) Quasi tutte le vie erano canali, eccettuato un ampio viale centrale, le spianate davanti ai palazzi, e un labirinto di vicoletti affollati che univano l’acqua alla terraferma. (..) All’interno, le lampade brillavano nelle sale dal tetto basso, avvolte da veli di garza variopinta e sete. Dalle finestre giungeva la dolce brezza del fiume. C’era un sentore di rose e di cinnamomo che impregnava di profumi i nostri indumenti”.
“Dormii tra il gracidio di innumerevoli rane, mi svegliai al canto di una moltitudine di uccelli , mi lavai con l’acqua di una grande giara di ceramica e andai in giardino. le ancelle ornavano di ghirlande il sacrario dello spirito Phya Phum. Era di marmo, eretto su una colonna, e tutt’intorno c’erano le offerte. Resi omaggio anch’io allo spirito tutelare, (..) avrei dovuto offrirgli qualcosa per propiziarmelo. (..) Era quello il giorno del porpora, ad Ayuthia ogni giorno aveva il suo colore, favorito dai corpi celesti. Così la domenica era rossa, il lunedì giallo, il martedì rosa, il mercoledì verde, il giovedì arancione, il venerdì marrone, il sabato porpora”.
“C’erano donne che facevano il bagno nel fiume, con i lunghi capelli sciolti e la pelle dorata. Camminavano con passo elegante, girando nude fino alla cintola, con indosso un sabai, un drappo di stoffa pieghettato e gettato con noncuranza sulle spalle. Il pajong krabane, la gonna, era un altro drappo avvolto intorno ai fianchi o passato tra le cosce, con i lembi fissati davanti e dietro in modo da somigliare ad ampi calzoni che lasciavano scoperte le gambe fino al ginocchio. (..) Le risate fiorivano senza vergogna sulle loro labbra, mentre in gruppi coloratissimi gettavano sorrisi e fiori ai nostri piedi. (..) Sono molto volitive, ma non crediate che siano donne facili. (..) Qui il peccato della carne si mescolava alle ghirlande dei fiori, dei gladioli rossi e gialli da offrire nei wat, champaca e tuberose e gelsomini dal profumo dolcissimo. Ma qui la carne era bella, era gentile!”.
“Il suo magico splendore è rimasto, nonostante Ayuthia oggi non esista più. (..) Un verdeggiare languido, alberi immensi e dolci che incurvavano le pesanti fronde come per una benedizione; un orizzonte verde di colline ammantate di foreste e di fiori. E ancora fiori sulle terrazze delle case di legno di teak e di bambù, erette sulle palafitte che affondavano nel letto del fiume e si protendevano nell’acqua. (..) Ogni abitazione aveva il suo sacrario su palafitte, coronato da una guglia: era quella la dimora del Phya Phum, o Spirito della Terra, più antico di Confucio e di Buddha, più antico del Vecchio Immortale Tao. Apparteneva a quell’epoca dell’uomo in cui gli alberi, le pietre e l’acqua parlavano. (..) Qui persino le inondazioni erano generose, e arricchivano le risaie in abbondanza. (..) E oro, Ayuthia è coperta d’oro, che persino le pareti e i soffitti del palazzo del re, le stalle per i suoi elefanti bianchi (sacri) e i suoi cavalli, sono ricoperti d’oro. (..) Qui, nella foresta fatata si sprigionava il suo canto, qui i sogni erano validi, gli spiriti si manifestavano. Tutto trovava una sua collocazione, perché non esistevano barriere tra il mondo degli spiriti e il mondo dell’uomo”.

Ci spostiamo ora a Chiang Mai sulle rive del fiume Mae Nam Ping detta a ragione la “Rosa del Nord”, chiusa fra le colline boscose in un clima mite che favorisce le culture d’oppio e del riso, nonché di quel fiore di loto che riporta all’invito del Buddha alla meditazione, divenuto simbolo della trascendenza filosofale dell’Oriente. Centro nazionale dell’artigianato, la città è il cuore del commercio nazionale con i suoi manufatti e le attività artistiche, vi fioriscono le aziende di tessitura della seta e del cotone, la lavorazione del teak e della porcellana, del corallo e dei gioielli di straordinaria fantasia e raffinatezza. Nonché manufatti di pelle di serpente, di coccodrillo, di elefante. Una tappa importante per gli acquisti di oggetti di lacca lavorati a mano secondo tecniche antichissime, manufatti in legno e, soprattutto degli utensili da lavoro, degli strumenti musicali tipici e dei tradizionali ombrelli dipinti su carta cerata che costituiscono una tentazione irresistibile per signore che vogliono ripararsi dal sole e fotografi in cerca di immagini suggestive.
La visita ai templi assume qui l’importanza di un rito secolare, di ascensione al sacro monte della spiritualità, proprio per la collocazione dio questi in cima a ripidissime scalinate che ascendono a volte fino alla sommità collinare. Ma anche, per la pace che vi si respira, dove il tempo sembra intriso di una serenità incontaminata, crinata anche qui, dal suono delle mille campanelle a vento che adornano i tetti dei templi, profumati d’incenso e di aromi profumati che i fedeli bruciano ai rispettivi déi. Il Wat Chedi Luang, costruito nel 1297, è forse il più noto per il Buddha di Cristallo che in esso è conservato. Ma è salire al Wat Prathat Doi Suthep che più si fa sentire il peso di una religiosità carica di maestosità. Costruito nel 1383 per custodire una reliquia del Buddha il tempio si erge grandioso in cima a una scalinata di 300 gradini che, nello slancio verso l’alto sembra volgere al cielo.

Ecco, io mi fermo qui, ove sul finire della storia ogni realtà s’arresta, quando ci si accorge che tutto questo mondo Thai è qualcosa di diverso da qualsiasi altra, che non rientra nello schema delle cose conosciute. Infine: “… è una delizia pensare che una cosa così fantastica possa esistere su questa terra. (..) Questi templi Siamesi sono di una bellezza molto raffinata che loro stessi dicono essere riservata a una visione che le distingue infinitamente, come le linee di un’architettura fantastica i cui estremi s'incontrano quasi per gioco. Come di un luogo fantastico dove sette strade s'incontrano, in cui l'immaginazione riesce a fare di un viaggio, un itinerario spensierato e inaspettato, che s'illumina dell'irrealtà di una commedia musicale. Alla fine, può sembrare che non ci abbiano dato nulla ma quando si lascia questa terra s’avvalora il sentimento che non hanno tenuto alcun segreto per te viaggiatore nel tempo, ma che forse hanno conservato qualcosa di tuo, quel cuore che fin'ora ti era appartenuto".

Non sono parole mie, appartengono a un altro viaggiatore che nel 1920 si è trovato a visitare questo lembo di mondo: William Somerset Maugham (3), chi può dire di non conoscerlo. Anche per me, il ricordo di questo viaggio si conserva nella sospensione del sogno che il tempo non potrà mai cambiare. Quando nell’intimo di una natura serena, tra le nuvole bianche di questo cielo che osservo dal finestrino dell’aereo che mi riporta a Roma, porto con me, come bagaglio appresso, il ricordo di una magnifica esperienza che valeva la pena di essere vissuta.

Note:
(1)W. Warren, “The House on the Klong” – J. Weatherhill Inc. – Tokyo 1968.
(2)Han Suyin, “La Incantatrice” – Sperling & Kupfer Edirori – 1986.
(3)W. Somerset Maugham, “The Gentleman In The Parlour, che parla di un viaggio in Birmania, Siam, Cambogia e Vietnam”; "A writer's notebook", estratti dei suoi diari di viaggio, episodi di varia qualità, essi coprono più di 50 anni della vita dello scrittore e contengono molto materiale che gli studiosi e gli ammiratori di Maugham trovano di grande interesse.

Discografia consigliata:
“Thailandia”, in Musical Atlas / Unesco – a cura di Alain Danielou – Emi Odeon.
“Melody of Thai” – Siam Grammophone.
“Musiche e Tradizioni d’Oriente: Thailandia, Lao, Cambogia, Viet-Nam” – Baren-Reither.


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