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Etnomusica 9: Sulla strada degli Zingari - 2 parte

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 22/08/2012 04:30:44

ETNOMUSICA 9: SULLA STRADA DEGLI ZINGARI (seconda parte).

Tratto da “Musica Zingara: testimonianze etniche della cultura europea” di Giorgio Mancinelli, MEF Firenze Atheneum, premio letterario “L’Autore” per la Saggistica, 2006.

Dipinto in copertina: (V. Van Gogh: Carovana degli Zingari vicino ad Arles).

“A piedi nudi seguono le stelle
E sono insieme nel vento e nella pioggia
Dalla nascita fino alla morte.”

“Che importa il paese fratello,/
prima di tutto ci sono gli uomini / e le melodie”.

“Non bisogna / sollevare le sciabole.../
ma ‘nascondere’ fino alla morte /
il quadro del proprio dolore /
moltiplicando la propria giovinezza /
e scavalcare il destino”.

“Restare là / quando tutto crolla: /
sotto le iucche danza la vita”. (1)

(anonimo zingaro)

Dove vanno le rondini quando disegnando contorni screziati di nero s’allontanano nell’azzurro del cielo che tende all’imbrunire?
Ed ecco, nel tempo sospeso di un interrogativo, spalancarsi davanti ai nostri occhi innumerevoli cieli solcati di nuvole d’argento e di piombo, di tramonti d’oro e di rame, di carri stellati che si rincorrono per il firmamento e di un numero incalcolabile di lune che vagano nella notte. Forse è lì che vanno i ‘figli del vento’ – come qualcuno poeticamente li ha definiti prima ancora di chiamarli ‘gli zingari’ – senza una ragione apparente, senza un vero perché, verso quel cielo lontano dove sono dirette le rondini, sicuri che per ogni orizzonte cui andranno incontro ci sarà sempre una luna diversa e altrettante stelle a dar loro la certezza che non si perderanno.
A differenza delle rondini gli Zingari vanno senza fermarsi mai, attraverso montagne irte e distese solitarie, specchi d’acqua e fiumi profondi, valichi innevati e valli dorate, aride steppe e foreste di alberi nodosi, cresciuti troppo alti e troppo in fretta, ai margini delle città metropolitane. Il loro cielo è rappreso di sguardi lontani, di speranze incolmabili. Un cielo diverso per ogni diversa contrada. Vanno incontro a gente diversa, di diversa estrazione, lungo le strade misteriose e sconosciute del loro infinito peregrinare, segnate da interminabili passi, attraverso i lunghi silenzi delle loro notti. Vanno, come ombre che il vento sospinge verso mete sempre più lontane, forse soltanto sognate, sferzate da una ostilità crescente che osteggia la loro già difficile sopravvivenza.
La musica viaggia con loro tra struggenti grida d’amore, improvvisazioni e ritmi tribali, con la voce di chi, ancora oggi, ha scelto di non restare imprigionato nei confini di nessuna nazione, di alcuno stato. Una musica “che non ha bisogno di note e spartiti per viaggiare nel tempo e nel vento: che non conosce confini o barriere e che è fatta di tante altre musiche e diversi modi di eseguirle” che, quasi ci è permesso dire ‘che non conosce tempo’ e, per estensione ‘che è fuori del tempo’. Poiché essa rappresenta la ‘forma del tempo’, assunta nel superamento delle barriere del linguaggio e delle tendenze musicali più o meno originali di questo o quel popolo con cui è entrata in contatto e, per il ‘tempo’ più o meno lungo della sua sedimentazione.
Una musica che non conosce la sua forma ‘passata’ ma solo la forma ‘presente’ che prende vita durante il ‘tempo’ della sua esecuzione, e che per questo, si dice difficile da catturare. ‘Viva’ in quanto ‘dal vivo’ procede il suo esecutore materiale, per il quale la sua ‘esecuzione musicale’ e ‘tempo d’ascolto’ sono la stessa cosa, poiché rappresentano il ‘vissuto’ temporale e aleatorio del suo essere musicista. Considerata nelle sue molteplici sfaccettature, la versatilità che si accompagna al fatto musicale, accomuna tutti gli Zingari in un ipotetico ceppo di appartenenza relegato a un lontano passato ‘senza memoria’ – come per un misfatto del destino che essi sembrano aver rimosso o, debitamente occultato, a causa di un ‘trauma originario’ ancora oggi privo di riferimento storico.
Versatilità che tuttavia ha permesso loro di dare forma a linguaggi musicali diversificati, con implicazioni talvolta profonde, confluiti in modo trasversale dalla radice ‘etnica’ originaria, all’interno del folklore popolare e che, in qualche modo, ha contribuito alla trasformazione in atto della ‘nostra’ sensibilità musicale. Di essere, se osservata in senso critico, di fronte a una fase evolutiva della musica mondiale, partecipe dello straniamento dovuto alla sua ‘globalizzazione’, trasformata in una sorta di ‘finzione’ perché ricreata in sala d’incisione, ove è persa ogni connotazione di riferimento ‘etnico’ e ‘musicologico’ proprio per il fatto che non tutti gli elementi sono rappresentativi di formazioni autentiche ‘zingare’. Soprattutto, per effetto di implicazioni commerciali che, in qualche caso, hanno contribuito negativamente al ‘crescendo’ intrinseco della musicalità zingara, entrata successivamente, attraverso le divergenze del jazz, nelle attuali tendenze del rock e della world-music.
Di contro, va qui considerato che per il musicista zingaro, fare musica non ha affatto una funzione di mero intrattenimento o di soddisfazione estetica, bensì è un momento fondamentale di riconoscimento individuale, futuro punto di coesione di tutta la ‘comunità’ alla quale egli appartiene. Il musicista zingaro, infatti, non definisce per scelta i confini fisici della propria creatività ma riconosce il proprio naturale ‘intuito’ che si sprigiona libero attorno al fuoco acceso nell’accampamento, sotto il cielo stellato. È insita nell’animo zingaro la necessità primaria di esprimere attraverso la musica il proprio individuale sentimento che mette al servizio del proprio gruppo di appartenenza. Per quanto, l’individualismo delle proprie idee, non è che un’illusione priva di significato, che il ‘tutto’ è rappresentato dalla ‘famiglia’ comprendente, oltre al proprio nucleo, tutta la parentela, con la quale vengono mantenuti rapporti di convivenza.
Per lo zingaro la ‘musica’ è per se stessa ‘colui che suona’, espressione profonda di ciò che egli porta dentro di sé che improvvisamente si sprigiona, che s’infuoca ‘dentro il presente’, così come al ‘presente’ egli rivolge la sua estemporanea esecuzione. Va inoltre tenuto in considerazione che sia essa di festosa gioia come nella ‘hora’ lauterasca, o colma di malinconia profonda come nella ‘doina’ rumena, o accesa di struggente passione nelle oscurità delle ‘cuevas’ gitane; che insegua i fantasmi della notte come nel ‘duende’, o che si prostri al religioso misticismo di una ‘saeta’ durante la ricorrenza della ‘Seimana Santa’. In mancanza di altre forme espressive quali sono l’uso di immagini e la scrittura, o la notazione musicale del tutto inesistente, la musica rimane il punto più alto dell’espressione culturale zingara, inquanto è fonte di espressione di sentimenti e creatività artistica che, altrimenti, non siamo in grado di attestare. Una musica che parla d’amore e di passioni, di libertà e di orgoglio e, soprattutto, della vita nomade e del nomadismo cui come popolo, gli Zingari, malgrado le inadempienze imposte dai confini territoriali e dalle leggi degli stati nazionali, è ancora oggi di affermare.
Chi (davvero) sono ‘i figli del vento’?
In generale le opinioni sugli Zingari spaziano dall’interesse allo stupore. Le descrizioni che ne vengono fatte sottolineano anzitutto la diversità dell’aspetto esteriore: il colore scuro della pelle, i capelli lunghi talvolta annodati e la barba incolta per gli uomini; i fazzoletti multicolori che avvolgono la testa delle donne, il loro indossare un numero eccessivo di costumi uno sull’altro, i lunghi scialli legati alle braccia nei quali portano i bambini, il vociare disordinato apparentemente sconnesso con il quale attirano l’attenzione, il portare molti monili d’oro malgrado il loro aspetto miserabile.
Le prime cronache che li riguardano risalgono agli inizi del Quatrrocento, in cui vengono descritti come: “gentes non multum morigeratae, sed quasi bruta animalia et furentes”, ossia “gente tuttavia non troppo morigerata, simile a un’orda di animali selvatici e di ladri”. Allo stesso modo in un ‘cronicha’ più tarda, sono descritti “magri e negri che mangiavano come porci” in aggiunta a che “le donne truffavano la gente con la chiromanzia”. Il loro aspetto nel maggiore dei casi è considerato ripugnante, uomini e donne sono “gli esseri più poveri mai visti a memoria d’uomo”, come appunto riporta un’altra ‘cronicha’ del tardo Seicento.
Lo storico Adriano Colocci (2) ancora nell’Ottocento, nel ripercorrere le tappe della loro storia, riferisce che: “Gli Zingari – strano popolo! (..) Era in principio del secolo decimoquinto (..) – quando si videro sbucar fuora da mille parti queste orde ariane e scorrere, furtive e inermi, tutta quanta l’Europa, cangiando incessantemente dimora, stupefacendo per la bellezza delle loro donne, favellando idiomi strani, praticando usanze arcane e diaboliche, adorando forse in segreto iddii sconosciuti”.
Françoise Cozannet (3), nel tentativo di esplorare il mondo interiore di questa comunità umana misconosciuta, a suo tempo scrive: “Quando gli Zingari arrivarono in Europa, molto tempo dopo le grandi migrazioni, non erano altro che nomadi, troppo pochi e arrivati troppo tardi, in un mondo le cui strutture erano ormai fissate. Le loro attività economiche di sussistenza perciò palesano una forma parassitaria rispetto alle attività dei sedentarizzati. Di qui la diffidenza e il timore dell’immagine più abituale dello zingaro (..) che abitualmente difende il mistero delle sue strutture sociali dalla curiosità e dal timore del mondo esterno”.
La situazione non sembra migliorare se ancora nel 1999 Antonio Tabucchi (4) li descrive nel seguente dei modi: “Sono privi di tutto. Non hanno nessun tipo di infrastruttura, né di sussistenza. Spesso neppure i documenti che provino che esistono come creature. Solo il loro corpo testimonia che essi sono persone vive, in questo breve deserto senza alberi e senza erba che è loro concesso a questo mondo”.
Ecco qui reso manifesto quello che è il contesto tipico in cui gli Zingari appaiono alla nostra considerazione, costituito da una parte dall’essere vagabondi e quindi aditi alla delinquenza che dipende dalla loro condizione di nomadi; dall’altra, dal loro misterioso occultare un minaccioso ‘mondo magico’ che, ancora oggi, nel terzo millennio, offre una loro immagine decisamente negativa. Esattamente come lo ‘zingaro’ è apparso a Paulo Cohelo (5), il quale in una sua opera lo ravvisa nelle fattezze del ‘diavolo’: “Lì, seduto sul terreno, un uomo sui cinquat’anni, dai capelli neri e l’aspetto da zingaro, stava frugando nel suo zaino in cerca di qualcosa. (..) Gli domandai chi fosse lo zingaro. (..) Petrus, pensò che lo zingaro fosse il demonio. Sì’, lo era”.
Se si considera l’aspetto funzionale di queste diverse immagini convenzionali, ci si accorge che esse svolgono un medesimo ruolo negativo, in quanto razionalizzano barriere reali fra i non-zingari (gadjé) e gli Zingari veri e propri ma, anche, fa distinzione fra i gruppi ‘nomadi’ e le popolazioni ‘stanziali’ in rappresentanza d’una loro presunta civilizzazione. Mentre è la specificità dell’intera popolazione zingara che va qui presa in considerazione e che, per così dire, assume in sé un valore esemplare: “per essere riuscita ad affermare” pur nelle infinite contrarietà, “una sua continuità attraverso il proprio inserimento nelle diverse società”.
“Gli Zingari è vero – risponde Vanko Rouda (6) – sono esseri umani isolati dalla società, che vivono fuori delle cultura, residenti nella periferia dei villaggi e nei sobborghi delle grandi città; ma sono gente come noi, che vive in mezzo a noi, che ci chiama con grida di colore e di luci. Tutti i momenti della luce. Il blu intenso del cielo, il verde tenero dell’erba. Tutta la scomposizione della luce che musicalmente parlando fa parte del loro sguardo interiore”. Conferma Petru Radita (7): “È vero, vivono in miseria, vagabondando, vestiti di stracci colorati, sono sempre affamati, però si amano tra loro. Amano la vita e la natura nel seno della quale vivono, amano le stelle, la luna che risplende per loro nella notte e il sole che li riscalda, che riscalda i loro cuori, risvegliando in loro sentimenti d’amore”.
“Quell’amore che – scrive Marcella Uffreduzzi (8) – è elemento essenziale alla vita dello zingaro, nella famiglia, nell’amicizia, nella solidarietà. Amore per la natura e per i paesaggi, amore per la Madre Terra. Essa è intravista tramite la grandezza della foresta, la polvere della strada, la nuvola nera, il temporale, il vento, la leggiadria di un fiore. (..) Così che ognuno riconosce ul suo posto, oltre i mari, le montagne, le frontiere”.
Come ci dice Derek Tipler (9): “Per noi Zingari, la vita è insita nella parola ‘rom’ che infatti significa ‘uomo’; il fulcro attorno a cui gravitano le ‘cose’. Per cui la libertà è l’essenza del nostro vivere, la ragione per la quale noi viviamo la nostra vita come vogliamo. Per noi l’altra costa della collina è sempre più verde di quella dove abitiamo, e una frontiera è una sfida interessante piuttosto che un ostacolo insormontabile”.
Sfida che riferita allo zingaro Federico Rasetschnig (10) poeticamente interiorizza con: “L’armonia delle sue voci e dei suoi silenzi, con il cacofonico concerto di mille fragori assordanti e artificiali, e la sua pace bucolica, con gli spietati assilli di un ritmo di vita che non concede tregua. (..) Ma che, al tempo stesso, plasma il suo abito mentale, complicato da superstizioni, da credenze singolari e da una mentalità pittoresca, dalle tendenze tutt’altro che conformiste, ribelli e talvolta persino asociali”.
Cosa accomuna gli Zingari gli uni agli altri?
Risponde Giulio Soravia (11): “Un elemento che sfugge alle categorie di pensiero occidentale, è quello che costituisce il ponte più ovvio tra la cultura zingara attuale e le sue origini. Si tratta di quella flessibilità di pensiero, di quella tolleranza alle diversità, di quel senso di unità, pur nel rispetto delle differenze, che sono una delle più grandi conquiste del genere umano. Quella capacità di assimilazione onnicomprensiva che ingloba tutto e tutto riproduce in forma nuova, spesso irriconoscibile, e che la ‘vitalità’ zingara rende nei tratti più pertinente e più prepotentemente autentica”.
Per Petru Radita (12): “L’autenticità degli Zingari è da ricercarsi nell’aver fatto del ‘mito’ l’elemento portante di tutta la loro cultura; all’origine di tutte le usanze, del modo di porsi di fronte alla vita, e che permette di ritrovare in questo singolare gruppo umano le caratteristiche di una sacralità che non è semplicemente sincretica, che ha qualcosa di originale rispetto a tutto ciò che ha assorbito dai vari popoli e religioni”.
Cosa realmente significa essere Zingari?
Scrive ancora Vanko Rouda (13): “È avere altra carne, un’altra anima, un’altra pelle, istinti, passioni, desideri. È un altro modo di vedere il mondo con sentimento, odiare il routinario, il metodico castrante. Convertire in un’arte sottile, in fantasia e libertà, la vita. Fare di tutto un invito, assaporare, darsi, sentirsi. È vivere!”.
Secondo Derek Tipler (14): “Si tratta sempre e comunque di un’esperienza personale di vita-in-diretta, e la capacità di riconoscere valori umani anche in quelle culture trascurate o disprezzate, capaci invece di affermare qualche lezione di saggezza”.
Conclude Marcella Uffreduzzi (15): “Per gli Zingari la vita è fatta per essere vissuta intensamente, non si può riflettere o filosofare su di essa. Se esiste una filosofia zingara, questa è imperniata sull’uomo centro dell’universo. La libertà allora è l’essenza di un modus-vivendi, l’unica ragione di vivere. L’unica possibile”.
Ecco che alla luce di tali affermazioni l’essere zingaro ritrova, inaspettatamente, quell’autenticità che gli è propria e che, da sempre, gli viene negata. Cioè essere egli quell’ ‘uomo libero’ che, insito nel suo stesso nome Rom, avevamo trascurato fin qui di considerare: un nomade, non un vagabondo da espellere dalla società, o un ladro da consegnare alle autorità. Che, piuttosto, definirei “un ospite, se vogliamo, sempre un po’ furtivo e misterioso, che ha mantenuto abitudini diverse dalle nostre”. Tuttavia è sbagliato trasformare una possibilità d’incontro fra ‘culture’ diverse a causa di un unico problema isolato che, invece, va considerato dentro un processo naturale di diversità, che è insieme fonte di arricchimento dialettico, da cui può derivare un costruttivo progresso culturale.
L’Europa del futuro deve prestare attenzione a tutto questo se vuole progredire nella democratica convivenza delle genti che la formano, poiché uno dei più gravi errori commessi in passato è proprio la convinzione della propria superiorità sugli altri e che, col senno di poi, la sta portando alla rovina. Non a caso Sir Edward Evans-Pritchard (16) ci ha spesso ragguagliati dell’enorme “...debito che l’Occidente ha nei confronti delle culture cosiddette minoritarie; soprattutto verso quelle più fragili o precarie, dalle quali tanto potremmo apprendere anche sul valore della nostra”.
Più recentemente l’antropologo Arnold Toynbee (17), nella sua opera “Incontro e mescolanza di razze” ha evidenziato, una componente dell’intero processo di interazione fra i popoli che lo ha portato, in modo estremamente drammatico, a scrivere: “Il maggior e avvenimento del secolo ventesimo è stato l’impatto della civiltà occidentale con tutte le altre forme di organizzazione sociale esistenti al mondo, impatto tanto poderoso e capillare da aver sconvolto e rivoluzionato la vita di tutte le sue vittime, minando alle fondamenta il loro modo di essere, le loro prospettive, i loro sentimenti e i loro credi”.
Fatto, questo, che dovrebbe allarmarci sulla reale capacità di adattamento e di mescolamento che l’umanità dovrebbe assolvere con l’ambiente e che non fa, e sulla priorità di accesso a quelle che sono le reali risorse sociali. Considerato che, contrariamente alle credenze comuni, nessun nomade vaga a caso, e che tutto dipende dalle risorse e le possibilità di sfruttamento dell’ambiente e della società in cui il nomadismo si rende possibile, non vedo quale via d’uscita avremmo ‘noi’ se un giorno tutte le porte ci venissero sbarrate, come noi facciamo con gli Zingari e non solo con essi. Applicando qui, una sorta di tecnica di straniamento dalla realtà attuale, non vedo altre vie se non un restrittivo e catastrofico ritorno ai primordi in cui l’antropofagia era pratica comune a tutti i ceppi umani.
Fortunatamente, accanto al movimento dei pessimisti più eterogenei, vi sono ancora individui ‘altri’ che si dislocano in modo autonomo un po’ ovunque e che sfuggono a questo catastrofismo, vuoi per presenziare e dare continuità ai cosiddetti ‘riti di passaggio’; vuoi per fronteggiare necessità che in qualche modo li rimettono in viaggio, auto-escludendosi, per così dire, da quella fine da topi sedentarizzati che si prefigura essere il destino del resto dell’umanità. È dunque a quei singoli esponenti del nomadismo, a quegli ‘spiriti liberi’ che vagano per le contrade dell’Europa tutta che, pur andando incontro a mille difficoltà, che questa ricerca si rivolge con la man o protesa alla solidarietà, affinché prevalgano i principi di uguaglianza e di fratellanza e, al loro riconoscimento in qualità di ‘cittadini del mondo’ cui gli Zingari, popolo nomade per eccellenza, fanno riscontro.
“Noi non cerchiamo di insegnarvi
Come vivere la nostra vita,
perché voi
volete imporci la vostra?”

(Derek Tipler)

“Que ningùn hombre vagabundo no sea osado de vivir en la ciudad, que no tenga amo, sino fuere hombre labrador, so penade cien azotes, y que lo echen fuera de la ciudad: porque asì està mandado, y pregonado antiguamente, desde el ano de mil y cuatrocientos y dos anos”.
“Che nessun uomo vagabondo osi vivere in città, che non tenga casa, anche se è un operaio (lavoratore), pena cento frustate, e che lo portino fuori della città: poiché così è stato ordinato e già ripetuto in passato, fin dall’anno mille e quattrocentodue”.
È davvero lontano il tempo in cui questa Ordinanza di Siviglia prescriveva quanto appena letto? Da allora, con frequenza costante, la società dei ‘gadjé’ (noi occidentali) ha manifestato attivamente contro gli Zingariche per molti aspetti è difficile da comprendere e ancor più difficile condividere il loro stile di vita. Occorre però considerare che talune forme di ‘devianza sociale’ non sono peculiari alle genti zingare ma, più spesso, sono la conseguenza del secolare rifiuto opposto loro dalle società circostanziali. Oggi, consapevoli di trovarci di fronte ad una realtà complessa e in qualche modo indecifrabile, anche noi viviamo una fase di costanti mutamenti e in mezzo a situazioni di disgregazione sociale che somigliano a una perdita d’identità mai vista prima, tale da sembrare ormai irreversibile.
D’altra parte assistiamo, per nostra fortuna, al sorgere di segnali contrapposti di speranza e rinnovamento che ci danno la forza di andare avanti, quasi a voler testimoniare una presa di coscienza da parte di frange volenterose, sempre meno, che sentono il dovere di non restare indifferenti di fronte al problema della sopravvivenza dell’umanità tutta, assunta nel processo di formazione di una coscienza ultranazionale che dovrebbe sfociare in una più ampia cultura comunitaria.
Un’opinione auspicabile che dovrebbe essere altresì condivisa dalla maggior parte degli osservatori e dei responsabili delle politiche interne in seno al Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite. Ma non è così. L’ostilità verso gli Zingari e tutti i gruppi etnici minoritari è da sempre uno dei fattori negativi del sentimento nazionale di molti popoli verso gli ‘altri’, spesso accompagnato da fenomeni xenofobi, in ragione di un’avversione storica, mai venuta meno, verso tutti coloro che sono al di fuori dell’economia comunitaria.
Divergenza questa solo di opinione, che ha spinto molti governi a condannare lo stile di vita nomade come un anacronismo dal quale le vittime devono essere liberate e obbligate a diventare sedentarie: vale a dire “a mettersi al passo, culturalmente e socialmente, con il resto dell’umanità”. E ciò, non perché i suoi componenti ‘nomadi’ siano più primitivi dei sedentarizzati, o perché conducono un tenore di vita più semplice dal punto di vista materiale, il che è facilmente riscontrabile, bensì perché rimasti bloccati in una condizione di arretratezza inaccettabile, dalla quale il resto dell’umanità è ormai uscita da tempo.
È vero, non c’è nobiltà nell’ignoranza come nella povertà o nella malattia, eppure quelle genti così ‘irrazionali’ e forse superstiziose, hanno avuto la consapevolezza di appartenere a questo smisurato universo che noi, esseri razionali, probabilmente non conosceremo mai, e lo hanno fatto con grande dignità. Vi sono tuttavia dei cambiamenti che lasciano intravedere un cammino verso una presa di coscienza diffusa, sul piano sociale e politico che, nel corso degli ultimi anni si è andata delineando, e che ha visto la nascita di forme associative e di movimenti di portata internazionale a sostegno della ‘causa zingara’, a favore del riconoscimento e a tutela della loro cultura.
Scrive Sergio Franzese (18) lanciando un appello dalle pagine di Internet: “Tutti noi, siamo chiamati a difendere il diritto alla diversità che, nel caso degli Zingari, costituisce forse l’ultima sfida a un modello di vita abbarbicata alla speculazione ed al cemento. Il loro futuro dipende da noi; essi continueranno ad esistere nella misura in cui la nostra società saprà rispondere ai loro problemi ed alle loro aspirazioni”.
Esiste in proposito, un’ampia documentazione inerente alla volontà di risolvere quella che più comunemente è chiamata la ‘vicenda zingara’, a cominciare dall’UNESCO impegnato nel dare un’istruzione scolastica ai bambini zingari, il cui diritto è sancito nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo; seguono la Comunità Europea con fondi destinati specificamente agli Zingari nel quadro delle iniziative contro la povertà; e, ovviamente, Amnesty International che si esprime in difesa dei diritti dei nomadi. Tuttavia, fin qui, tutte le iniziative prese sembra abbiano portato a favorire una loro crescita culturale o ha portato a un loro stile di vita socialmente accettabile, perché risulta sbagliato il principio di fondo.
Non è nel voler integrarli in strutture a loro non confacenti, farne dei sedentarizzati umiliati o cancellare la loro cultura, di cui tra l’altro vanno orgogliosi, che si può risolvere il problema; bensì lasciare loro la possibilità di attraversare le frontiere, ricavare dal suolo quello di cui hanno bisogno, e pretendere dalle società industrializzate di provvedere, secondo le possibilità, al loro sostentamento. Questo, in funzione del fatto che ogni cultura, anche la più miserrima che va perduta, rappresenta una perdita di una parte grandiosa della cultura dell’umanità, e questo non possiamo e non dobbiamo permetterlo. Non ci preoccupiamo forse della sopravvivenza delle specie animali e vegetali, delle quali abbiamo già perso una gran parte? Con esse, va detto, abbiamo perso una gran parte della conoscenza universale. Si pensi allo sterminio dei pellerossa negli States, degli aborigeni Australiani, degli indios dell’Amazzonia, dei pigmei in Africa e quant’altri di cui non sapremo mai della loro esistenza.
Di fatto, è una perdita di gran parte della nostra stessa conservazione. Va qui ricordato che non c’è cosa peggiore che dismettere la cultura della sopravvivenza delle specie, siano esse umane, animali che vegetali, e ben presto noi stessi saremo avviati verso l’annientamento definitivo. Anche per questo i nomadi, sfavoriti o perseguitati – scrive Arthur R. Ivatts (19): “..sono l’unica minoranza che, a nessun livello, è riuscita a farsi rappresentare da se stessa. Per far ascoltare la propria voce i nomadi continuano ad esprimersi attraverso gli altri”, e questo non è giusto, non può continuare così, vanno in qualche modo riconosciuti come entità etnica all’interno del conglomerato umano.
La situazione si presenta oggi, per certi versi, diversa, o almeno lo è in parte; non vengono emanati editti, non si ricorre alla deportazione in massa, non vengono mandati a colonizzare terre aride e paludose, anche se nel Giorno dell’Olocausto, qualcuno dovrebbe ricordare il massacro perpetrato dai nazisti di circa un milione di Zingari: “ma tutto questo non è che un atroce ricordo del passato, dobbiamo guardare al futuro, a quel futuro che è già oggi” – scrive Vanko Rouda (20).
Va qui ricordato che nel 1981 il Consiglio d’Europa di Strasburgo si è interessato delle questioni del ‘popolo viaggiatore’ (per non usare l’appellativo di nomade) ed ha invitato i Governi della CEE a riconoscere gli Zingari quale ‘minoranza etnica’ e al “..dovuto rispetto della loro cultura e della loro lingua”. Ma è solo dal 1989 che il Consiglio d’Europa ha adottato la suddetta risoluzione. Ce ne da notizia Bruno Crimi (21) nel suo articolo apparso in “Panorama”, Luglio 1990: “...nel preambolo si afferma che la cultura e la lingua degli Zingari fanno parte, da oltre 500 anni, del patrimonio linguistico e culturale della Comunità Europea”, sebbene non venga in seguito specificato cosa s’intende per ‘cultura degli Zingari’.
Secondo Jean-Pierre Liegeois Ligny (22), professore all’Università Descartes di parigi e responsabile del Centro di Ricerca sugli Zigani: “Questa dichiarazione è un passo in avanti verso il riconoscimento e il rispetto di comunità culturali che non hanno alcun riferimento territoriale e che ancora oggi vengono respinte, perché considerate marginali”.
Come sottolinea Rita Capponi (23), segretaria nazionale dell’Opera Nomadi: “È un piccolo fatto straordinario di cui tutti dovremmo tener conto. Le testimonianze fin qui raccolte hanno dimostrato questa tesi. oggi sappiamo che il nomadismo sviluppatosi a beneficio dell’intera umanità non può essere ricondotto alla sedentarizzazione come allo ‘stadio finale’ del suo sviluppo. Bensì considerato più vicino allo stadio contingente della ‘sopravvivenza’.”
Le premesse non nascondono la necessità di approntare un tavolo di dialogo per una convivenza ormai necessaria in cui si pone l’urgente problema della sopravvivenza e dell’integrità della cultura del popolo Rom. Numerose fondazioni e organizzazioni umanitarie hanno di recente finalizzato una coscienza comune in confronto dei popoli minoritari, ma non risulta si adoperino al recupero della identità etnica degli Zingari, o siano impegnate a riconoscere agli Zingari una qualche forma di ‘nazionalità’ a se stante, universalmente accettata. Una petizione a questo scopo è stata inoltrata alle Nazioni Unite.
Delegati di ventisei paesi si sono dati convegno a Pregny, in Svizzera, in rappresentanza di tutte le ‘tribù’ nomadi del mondo che, Marco Sorteni (24) dice essere stato: “Un Congresso apparentemente come tutti gli altri, signori in giacca e cravatta, mozioni, contromozioni, cabine per la traduzione simultanea, osservatori di organismi internazionali. Scopo del Congresso, quello di interrompere una tradizione di incomunicabilità, creando attraverso un comitato internazionale un interlocutore tra il mondo dei gadjé e le strutture rappresentative che questa società si è data e quello senza patria degli Zingari. I congressisti hanno infine decretato di riconoscersi come un unico popolo sotto la denominazione di Rom, accomunato sotto un’unica bandiera di colore verde e blu, i colori del cielo e della terra su cui campeggia una ruota di carro, simbolo degli Zingari erranti su tutta la terra”.
Che significa allora essere Zingari?
Sappiamo come gli Zingari per procacciarsi di che vivere si sono adattati ai diversi mestieri nel corso delle loro migrazioni. Oggi, il mondo industriale ha tolto loro ogni possibilità di reddito da lavoro manuale ‘artigianale’ ch’erano per gli Zingari fonte di sostentamento eccezionale. Ridotti pressoché in miseria, dediti all’accattonaggio, schiavi della società ‘avanzata’ che li affama e li priva della libertà di spostarsi da un luogo all’altro lungo le tappe di quel nomadismo di cui non riconoscono più neppure i sentieri. Tuttavia non si sentono affatto umiliati e si dicono fiduciosi “nel rivisitare il mito di una società primordiale a ricchezza comunitaria”. Che abbiano ragione loro?
Gli Zingari, a differenza dei gadjé sono semplicemente felici d’essere quelli che sono, oppure? La domanda è ovviamente tendenziosa. Gli Zingari hanno un certo sprezzo per i non-zingari, pari o forse maggiore dell’avversione che hanno sempre incontrato da parte nostra. Sebbene la loro venga considerata dai più una libera scelta, volutamente in contrasto con la nostra. Noi gadjé sappiamo di essere succubi di una compromissione sociale che abbiamo ereditato dal passato e non dovremmo prendercela se gli Zingari, a loro volta, provano commiserazione per quanti hanno avuto la disgrazia di non essere Zingari, o siano stati privati della loro libertà.
Dice ancora Vanko Rouda (25): “Non si può separare il popolo zingaro da tutto il suo accompagnamento magico che rappresenta il suo essere diverso, insieme a tutto l’orpello delle sue manifestazioni esteriori. Si deve tenere anche in conto lo scetticismo, la saggezza, la profondità dei pensieri di questo popolo, forse il più antico del mondo, la cui storia non si racconta attraverso secoli ma attraverso i millenni. Lo zingaro accetta il ritorno ‘cosmico’ alla natura; accetta il dono della sua energia affinché essa rinasca in altre forme. C’è in questa sottomissione il principio del fatalismo zingaro che si libra all’amabile carezza della natura seduttrice e materna. Da sempre egli dorme sul seno della natura disdegnando le cose passeggere e le debolezze umane, la saggezza zingara si attacca solo al perdurare di questa natura, avendo egli visto tutto, certo che sarebbe follia voler arrestare il suo corso, lo scorrere del tempo e della vita”.
E noi, chi siamo noi?
Se, da una parte, il benessere attrae tutti e alcuni zingari hanno optato per la vita dei gadjé, avere una casa solida sopra la testa o sostituito il carro coperto di stracci con moderne roulotte dotate di tutti i confort, dall’altra, il nomadismo caratterizza ancora un po’ tutti quanti, indistintamente Zingari e gadjé. Oggi, nell’era dei facili trasporti siamo tutti un po’ nomadi e forse anche un poco Zingari; vuoi per ragioni di lavoro, spostandoci da un capo all’altro della città, quando non addirittura di città in città o di paese geografico; vuoi per ragioni di svago per cui optare di attraversare gli oceani e i continenti.
La globalizzazione tutt’ora in atto ha reso necessari una patente di guida internazionale, il saper leggere le indicazioni urbanistiche metropolitane nelle diverse lingue diverse dalla nostra, e ha fatto in modo che cambiassimo le nostre abitudini, la nostra alfabetizzazione come condizione necessaria per farci riconoscere, per commercializzare i nostri prodotti, esportare all’estero la nostra cultura e la nostra arte. Quanto resterà di noi, di ciò che eravamo all’origine, della nostra società, se non salvaguardiamo l‘umanità cui pure apparteniamo?
Cosa significa, al dunque, essere Zingari?
Ed ecco che la domanda che c’eravamo posta all’inizio non richiede più alcuna risposta, ormai. Tuttavia l’interrogativo resta e con esso l’ulteriore dubbio: che sia questo il segreto essere della loro eterna giovinezza? Non ci rimane che affidare i nostri passi al vento, nella speranza di incontrare zingari felici a mostrarci il senso, la vita migliore cui affidare i nostri passi e incamminarci con essi là, dove le rondini vanno. Poi si seguono le nuvole, le ruote del carro, assieme con le donne e i bambini, le tende, gli attrezzi, fin dove...
Oh, per andare dove? Non ha importanza ormai. Ovunque ci sia un pascolo, ovunque ci sia un fuoco, avendo per compagna la luna, per amiche le stelle, per tetto il cielo. È così che infine, l’inizio coincide con l’inizio del viaggio, l’Uno con il Tutto, nel ciclo dell’eterno ritorno.
“Se non sai,
siediti tranquillo
e fissa intensamente il fuoco.”

(proverbio zingaro)


Note:
(1) da “Lunes Nomades” di Sandra Jayat, tradotte da Fulvia Alemanno.
(2) Adriano Colocci, “Gli Zingari. Storia di un popolo errante”, Arnaldo Forni Ed. Ristampa anastatica dell’edizione di Torino, 1889.
(3) Françoise Cozannet, “Mythes t coutumes religieuses des tzigannes », Payot, Paris 1973
(4) Antonio Tabucchi, “Gli Zingari e il Rinascimento”, Feltrinelli, Milano 1973
(5) Paulo Cohelo, “Il cammino di Santiago”, Bompiani, Milano 2001
(6) Vanko Rouda (intervista), in “La Voix Mondiale Tzigane”, Parigi s.i.d.
(7) Petru Radita (intervista), in “La Voix Mondiale Tzigane”, Parigi s.i.d.
(8) Marcella Uffreduzzi, “Canti zigani”, Sabatelli Ed., genova 1973.
(9) Derek Tipler (intervista), in “Lacio Drom”, Roma s.i.d.
(10) Federico Rasetschnig, “Usi e costumi degli Zingari” Ed. Mediterranee, Roma 1965.
(11) Giulio Soravia (intervista), in “Dialetti degli Zingari Italiani”, Pisa 1977
(12) Petru Radita (intervista), op. cit.
(13) Vanko Rouda (intervista), op. cit.
(14) Derek Tipler (intervista), op. cit.
(15) Marcella Uffreduzzi, op. cit.
(16) Sir Edward Evans-Pritchard, in “I popoli della Terra”, vol.1, Mondadori, Milano 1974
(17) Arnold Toynbee, “Incontro e mescolanza di razze”, in “I popoli della Terra” op. cit.
(18) Sergio Franzese, “O Vurdon”, (articolo) – www.geocities.com
(19) Arthur R. Ivatts, “Istruire gli Zingari” (articolo) in “Il Corriere Unesco”, Novembre 1974
(20) Vanko Rouda (intervista), op. cit.
(21) Bruno Crimi, « Arrivederci Rom » (articolo) in Panorama, Luglio 1990
(22) Jean-Pierre Liegeois Ligny, (articolo) in Bruno Crimi, op. cit.
(23) Rita Capponi, (intervista), in Opera Nomadi, Roma.
(24) Marco Sorteni, “Gitani di tutto il mondo unitevi”, (articolo), in “L’Europeo”, Marzo 1990
(25) Vanko Rouda (intervista), op. cit.



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