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Quaderni di Etno 10: I figli del vento - prima p.

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 20/09/2012 21:14:37

Quaderni di Etnomusicologia n.10 : I figli del vento – (prima parte).

Tratto da “Musica Zingara: testimonianze etniche della cultura europea” di Giorgio Mancinelli, MEF Firenze Atheneum, premio letterario “L’Autore” per la Saggistica, 2006.

“Bianche ali, pian piano / senza far rumore / si posarono nella radura. / Accanto al fuoco si prepararono il nido / con canti andarono incontro / alla celeste aurora.”
(Rasim Sejdic)

Le origini.
Chi mai può dire se vanno o vengono da un mondo a noi sconosciuto?
L’alone di mistero che circonda le origini degli Zingari ha fatto sì che fin dall’antichità si formulassero numerose supposizioni mitologiche, scatenando fra gli studiosi pareri contrastanti e ipotesi avventate, mentre altre, forse più eclatanti, sono poi risultate frutto di mera fantasia, sebbene, a causa della mancanza di definizioni e modelli di riferimento, la fantasia sia risultata talvolta illuminante nel quadro più generale della ‘storia’ che qui si è cercato di ricostruire. Ciò non vuol dire che dietro il libero gioco della mente non possa esservi un proposito, una meta, per quanto fantasiosa possa apparire. Se è vero che “ci sono state grandi culture che non usavano la ruota, ma non ci sono state culture che non narrassero storie” – quella contenuta in questa tesi, in realtà, è forse la più sostanziale storia creata o forse inventata dall’immaginazione umana.
L’esistenza di esseri ‘misteriosi’ abitatori di ‘terre nascoste’, dei quali gli Zingari sono un esempio tra i più impressionanti, rappresenta un vero e proprio enigma per la moderna etnologia che, malgrado l’acquisizione di più recenti e ‘documentate’ testimonianze, non è ancora riuscita a fare luce sul mistero che circonda le origini di questo popolo, conosciuto – come vedremo – fin dalla più lontana antichità. “La ricerca delle ‘terre nascoste’ – scrive Serge Huttin (1) – e, in senso lato, delle ‘civiltà misteriose’ che vivono nelle viscere della Terra, può essere letta e interpretata a due diversi livelli complementari tra loro, anche se di diversa profondità e significato: l’aspetto esteriore, per così dire letterale; e la determinazione effettiva dell’esistenza o meno di queste terre, la loro ubicazione geografica, la loro collocazione nel tempo e, andando più a fondo, il tipo di civiltà che esse ospitarono e i suoi rapporti con le civiltà storiche.”
Scrive Nicholas Roerich (2): “Tra le innumerevoli leggende e fiabe di vari paesi, si trovano racconti su tribù perdute o abitatori di un mondo sotterraneo. In regioni lontane e diverse, il popolo parla di fatti identici. Se confrontiamo queste leggende, si nota subito che si tratta di capitoli di una stessa storia. Dapprima sembra impossibile che esista una connessione fra queste chiacchiere distorte, ma in seguito si cominciano a cogliere peculiari coincidenze nelle più varie leggende di popoli che ignorano persino l’uno il nome dell’altro. Si riconosce la stessa connessione nel folklore del Tibet, della Mongolia, della Cina, del Turkestan, del Kashmir, della Persia, dell’Altai, della Siberia, degli Urali, del Caucaso, delle steppe russe, della Lituania, della Polonia, dell’Ungheria, della Francia, della Germania (..). dalle più alte montagne agli oceani, queste leggende raccontano di come un popolo pio fosse perseguitato da un tiranno e, non volendo sottostare alla sua crudeltà, decise di rinchiudersi in un mondo sotterraneo.”
La presenza di un ‘mondo sotterraneo’ le cui ramificazioni si estendono sotto i continenti e sotto gli oceano, collegato con il supremo centro Agarttha o anche Agharti, Asgharta o Agharta, in cui “si conserva il deposito immutabile della tradizione primordiale”, è testimoniata in alcuni miti cosmogonici presentati da René Guénon (3) che costituiscono il modello di molte culture: “Sotto un profilo morfologico, queste tradizioni appaiono solidali con il simbolismo embriologico della creazione del mondo, in cui il cosmo prende forma da una materia informe e ‘caotica’. Si elabora così un complesso di immagini equivalenti e complementari che assimilano alla materia germinale l’inizio dell’esistenza umana.”
E ancora, da Julius Evola (4): “Al prevalere dell’empietà sulla terra, i superstiti delle età precedenti passarono in una sede ‘sotterranea’ – cioè invisibile – che, per interferenza con un simbolismo dell’ ‘altezza’, spesso viene situata sui monti. Là essi continuerebbero a esistere, sino a che con l’esaurirsi del ciclo della decadenza si renda possibile una loro nuova manifestazione.”
Importanti testimonianze sono rintracciabili in epoche che precedono la storia documentata e da esse provengono le prime descrizioni del mondo sotterraneo. Dal Rig-Veda, ritenuta la più antica opera letteraria indù e fondata su tradizioni orali certamente più arcaiche, apprendiamo che con la fusione delle genti ariane con le popolazioni locali, avvenuta tra il 1700 e il 1200 a.C., si foggiò in definitiva l’India, il primo nucleo ‘civilizzato’ da cui insegnamenti cosmici e dalle cui dottrine si delineò quel mondo mistico sotterraneo entrato poi nella leggenda, divenuto in seguito, punto focale di attenti studi e investigazioni.
Scrive l’orientalista Friedrich Max Muller (5): “In quegli antichi tempi, paesi che oggi ci sono noti con nomi diversi venivano chiamati tutti indifferentemente India”. E suggerisce che esistono buoni motivi per sospettare che le grandi civiltà del mondo antico, dell’Egitto, della Grecia e di Roma, derivassero le loro leggi, arti e scienze da quell’India pre-vedica: “Una delle tradizioni universali accettata da tutti gli antichi popoli sostiene ci siano state molte razze di uomini che precedettero quelle odierne. Ciascuna di queste era diversa da quella che l’aveva preceduta; e ciascuna scomparve al comparire di quella successiva”. E, inoltre, che al centro di questa ‘culla dell’umanità’ vivessero i superstiti di una razza che aveva caratteristiche davvero singolari: “Poteva vivere a piacimento e con la stessa facilità sia nell’acqua che nell’aria o ‘nel fuoco’, perché possedeva un illimitato controllo degli elementi. Erano i ‘Figli di Dio’. Furono loro a trasmettere agli uomini i più misteriosi segreti della natura e a rivelare loro l’ineffabile e ormai perduta ‘parola’” – e che , nonostante il potere assoluto di cui disponevano, non riuscirono di fatto a impedire la propria estinzione.
Al contrario , alcuni testi rivelano invece che essi furono annientati da una qualche ignota distruzione di massa. Louis Jacolliot (6) allo stesso modo parla di una tradizione indo-ellenica preservata dai popoli più intelligenti che emigrarono dalle pianure dell’India e dell’esistenza nell’antichità di un continente e di un popolo perduti. Si deve a questo studioso, la divulgazione dell’esistenza di un vasto e antico ‘mondo sotterraneo’ fiorito “secoli prima della nostra era” e governato da Brahm-atma, autorità suprema e guida degli Iniziati, seguaci devoti, discendenti di una civiltà ancora più antica, detentori di una formula mistica rappresentata dalle lettere AUM il cui significato sta per: “A” Creazione, “U” Conservazione, “M” Trasformazione, che “simbolizzava tutti i segreti iniziatici delle scienze occulte”.
Louis Jacolliot (6) così commenta: “Questa parola misteriosa, di cui nessun potere umano poteva rivelare il significato, è conosciuta come il tempio di Asgarta. (..) Coloro che vi dimorano dispongono di grandi poteri e sono a conoscenza di tutti gli avvenimenti del mondo. Possono viaggiare da un luogo all’altro attraverso gallerie sotterranee antiche quanto quello stesso mondo.” Agarttha, che in sanscrito significa ‘l’inafferrabile’ o ‘l’inaccessibile’ ma, anche l’l’inviolabile’, appare in alcune mitologie dove si parla dell’esistenza di genti che la abitano così dette civiltà telluriche, sotto l’egemonia di un sovrano, detto il “Re del Mondo”, che Ferdinand Ossendowski (7) vuole raffigurato sulla tomba del suo predecessore: “in cui si parla dell’origine degli Zingari che un tempo vi avrebbero vissuto” – quali lontani discendenti di antiche deità sotterranee.
Scrive ancora Ossendowski: “Verrà un tempo, in cui il popolo di Agarttha uscirà dalle sue caverne ed apparirà alla superficie della Terra.” Ipotizzando quanto in seguito sarebbe accaduto agli Zingari, presunti abitatori di quel ‘mondo estremo’ all’origine del mito. Una ‘terra cava’ solcata da immensi labirinti, da caverne ciclopiche e da interminabili gallerie site nei luoghi più disparati del mondo: dal deserto del Gobi, al Tibet, alla Terra Santa, all’Egitto, fino all’Irlanda e al Nuovo Mondo, Agarttha esiste sul nostro stesso piano di esistenza ma ad un livello vibratorio differenziato, difesa da una sorta di barriera magnetica ottenuta attraverso la manipolazione di forze invisibili che ne ostacolano la penetrazione.
Saint-Yves d’Alveydre (8) fa di Agarttha una realtà tangibile sita nelle viscere della Terra: “Il cui vero territorio sfida la stretta costrizione portata da ogni violenza e da ogni profanazione.” Un territorio privilegiato, simultaneamente concreto e simbolico, posto in un universo parallelo al nostro e che il “Re del Mondo”, simbolo vivente della suprema alleanza tra il potere temporale e l’autorità spirituale, muove in ordine all’evoluzione ciclica dell’umana esistenza.
Scrive ancora René Guénon (9): “Un principio, questo, che può manifestarsi attraverso un centro spirituale stabilito nel mondo terrestre da una organizzazione incaricata di conservare integralmente il deposito della tradizione sacra, di origine ‘non umana’ per la quale la primordiale sapienza è comunicata, attraverso le ere, a coloro che hanno la capacità di riceverla. (..) Tuttavia può avvenire che in seguito ad una certa degenerescenza che rende possibile l’allontanamento dalle origini, e che può spingersi fino ad un punto tale per cui un’organizzazione giunge ad avere soltanto degli iniziati ‘virtuali’, continuando essi tuttavia a trasmettere, anche senza rendersene più conto, l’influenza spirituale di cui l’organizzazione è depositaria”.
Altri scrittori attribuiscono agli Zingari un’origine ancora più misteriosa, assimilata al ruolo rituale della caverna, attestato fin dalla preistoria della Matrix - Mundi, la grande dea che un tempo presiedeva alla sacralità della terra, da cui si fa derivare l’idea d’una loro possibile provenienza sotterranea. La discesa nei meandri della Grande Madre diventa allora il contatto con un sapere superiore che purifica e migliora e che, peraltro, riguarda aspetti non solo fisici e concreti ma, anche metafisici e sacri. L’archetipo della caverna rende visibile ai nostri occhi l’immagine stereotipa dei primordi ed apre ad aspetti della vita umana altrimenti inaccessibili e certamente più letterari che reali, ai quali va tuttavia fatto riferimento.
Alla caverna va altresì rapportato il ‘dominio del fuoco’, i cui culti in relazione con la terra, testimoniano tutti un’origine divina e insieme demoniaca. Una doppia valenza che rispondeva un tempo ad alcune credenze mitologiche radicate nel pensiero umano per cui il fuoco era magicamente originato dall’organo genitale della Grande Madre, seppure qui non si tratti di una anteriorità cronologica storica ma, ancora una volta, di una anteriorità ideale, implicita in ogni variante dello stesso tema mitico centrale. Come appunto rilevato da C. G. Jung (10), il quale, afferma che:” A fondamento dell’essere, è la brama di procreare che trae origine dal fuoco. Il fuoco è in rapporto col sangue, formato caldo e rossiccio come il fuoco. (..) Il sangue si trasforma in seme nell’uomo e in latte nella donna.”
Nella concezione arcaica il fuoco era la manifestazione di una forza magico - religiosa primaria che rispondeva a una sensazione di potenza e di energia, espressione di leggerezza, di movimento, di grazia e gaiezza. Ma anche rappresentazione simbolica della vitalità interiore, della felicità e, per contrasto della paura, dell’impotenza e delle tendenze distruttive insite nell’uomo, capace di modificare la natura delle cose. Come pure della capacità di mutare, a seguito dell’avvento della metallurgia, il ‘tempo geologico’ in ‘tempo vitale’, che è alla base della sapienza esoterica. È nota, infatti, nelle più antiche tradizioni la presenza di un ‘fabbro divino’ che forgiava le armi degli déi e degli eroi.
Theodor Gaster (11) nota tra l’altro come questo ‘dio fabbro’ tenesse rapporti con la musica e con il canto. La solidarietà tra il mestiere del fabbro e l’azione di ‘cantare’ è nota presso i turchi-tartari e i mongoli, fra i quali i fabbri erano associati agli eroi, ai cantori e ai musicisti in genere. Si è dunque certi che un intimo legame tra l’arte del fabbro, le scienze occulte e l’arte del canto, così come della danza e della poesia, sia esistito fin dalla più remota antichità. Inoltre, va considerato, che le diverse tecniche, pur solidali fra loro, siano state trasmesse in una atmosfera pregna di sacralità e di mistero.
La presenza di tracce di una ‘mitologia del fuoco’ è qui più che mai evidente. Non ci resta che cercare, seppure a livelli culturali differenti, quelli che sono gli elementi dell’avvenuta aggregazione d’una convivenza protrattasi per millenni, e ha permesso agli Zingari di rapportarsi con questo elemento ed assumerne i connotati più manifesti. Il dominio del fuoco permise alle culture arcaiche di elaborare una sintesi dei culti preesistenti e dare origine al successivo culto dei ‘signori del fuoco’, identificati negli sciamani e negli alchimisti, così come nei vasai, nei maghi e nei fabbri, tutti detentori di una comune esperienza magico-religiosa data dal rapporto diretto con l’elemento, il fuoco, che consideravano vivo e sacro, al punto da assorbire per intera la loro ‘immagine’, con l’irradiare nelle loro azioni un’aura di magia occulta. E ciò, in ragione della peculiarità del fuoco di ‘trasformazione’, di ‘perfezionamento’ e, non in ultimo, di ‘trasmutazione’, sia che si trattasse di argilla, erba medicinale, d’acqua o metallo.
Le arti legate all’uso e al dominio del fuoco finirono così per essere considerate di natura sovrumana, divina o demoniaca a seconda dei casi e delle mitologie ad esse riferite, sia nei ‘riti apotropaici’, sia nei più antichi ‘misteri’ cultuali. Onde per cui, il fonditore di metalli, il forgiatore, il fabbro, legati com’erano all’uso ‘rituale’ della forgia, influenzarono fortemente la simbologia e gli usi rituali delle primitive collettività arcaiche, i cui ‘segreti’ erano trasmessi attraverso veri e propri ‘riti iniziatici’ propedeutici ai singoli mestieri. Interessante per la nostra conoscenza è il vocabolo sumerico che designava il ferro “an-bar”, costituito dai segni pittografici ‘cielo’ e ‘fuoco’, ritenuto il più antico in assoluto e riferito al metallo meteoritico, chiamato appunto ‘metallo celeste’.
Alcune leggende attribuiscono agli Zingari discendenze spesso imperscrutabili le cui tracce si perdono nella notte dei tempi. Considerati dapprima figli di antiche deità del mondo sotterraneo ed essi stessi demoni degli oscuri inferi, furono anche detti discendenti dalla stirpe maledetta di Cam e, per questo condannati all’eterno vagare, da cui deriva il loro riconoscimento fisico con il male e tutto ciò concerne la sfera dell’occulto. La loro successiva attestazione al mestiere della forgia, non fece che ampliare l’alone di mistero che li circonda, aggiungendo alle loro oscure origini quella ‘demoniaca’ del ferro.
Un’altra ipotesi ‘mitologica’ li vuole discendenti dagli Asùr, dal sanscrito ‘Asura’, una genìa di fabbri conosciuti attraverso miti elaborati da tribù aborigene dell’India centrale, probabilmente ‘munda’ o ‘dravidiche’, conosciuti come ‘spiriti delle tenebre’ e assimilati alla disarmonia che regna nel mondo. Ritenuti, anche, i primi sulla terra dediti alla fusione del ferro e dei metalli in genere; da cui la loro fama di ‘signori del fuoco’, demiurghi e abili forgiatori, “dotati di forze al tempo stesso sacre e demoniache”. E, per la stessa ragione, tenuti in disparte e perfino disprezzati.
La mitologia articolata intorno al ferro ha permesso a Mircea Eliade (12) di approfondire le ragioni e le conseguenze dell’uso della metallurgia primitiva: “...dovute – egli scrive – alla scarsa reperibilità dell’elemento meteorico e tellurico. (..) Fatto questo, che ebbe conseguenze importanti sul piano religioso in tutto il mondo antico. (..) Si ha soprattutto la sensazione di interferire in un ordine naturale retto da una legge superiore, di intervenire in un processo segreto e sacro. Si sente confusamente che si tratta di un mistero che coinvolge l’esistenza umana, perché l’uomo è stato effettivamente segnato dalla scoperta dei metalli, ha quasi cambiato il suo modo di essere, lasciandosi coinvolgere nelle attività minerarie e metallurgiche. (..) Il carattere ambivalente del fabbro e i rapporti esistenti tra la magia, in rappresentanza del dominio del fuoco, e quelli con le società segrete, nel procedimento di sostituirsi all’opera della natura” – hanno dato luogo a una mitologia del sotterraneo di difficile penetrazione etnologica.
È fatto ormai accertato che le sostanze minerarie partecipassero della sacralità della forgia, al cui rito i ‘metallurghi’ si avvicinavano praticando atti cultuali, allo scopo di raggiungere la ‘purezza’ corporea che perseguivano con la meditazione, il digiuno e la preghiera. Si ha testimonianza che la forgia fosse venerata quale luogo di culto. Lì dove non esisteva un edificio apposito per le preghiere e le assemblee cultuali, ci si riuniva presso la forgia. Gli stessi utensili del fabbro partecipavano in egual misura della sua stessa sacralità. Il fuoco, il mantice, l’incudine e il martello si rivelarono ben presto esseri animati e meravigliosi, attraverso i quali il fabbro imitava il gesto esemplare della creazione divina, la forza scatenante del dio detentore del ‘fuoco sacro’, e per questo paragonato alla folgore.
La liturgia della fucina, lo splendore della fiamma, lo sforzo smisurato del fabbro battitore, il corpo sudato che brilla nella penombra rossiccia, il vapore emanato dal ferro arroventato a contatto con l’acqua, erano insieme elementi di una scenografia dell’infernale che non aveva eguali e che trovava il suo imprescindibile riscontro con i timori e le paure legate all’inconscio collettivo. Notizie in tal senso sono rapportate all’antico Egitto da Boris De Rakelwiz (13), in cui la metallurgia veniva associata agli déi rappresentativi del male: “Ptah – colui che da la forma – era il dio forgiatore abitante in una caverna di fuoco che contiene le ombre, khaìbit. Il ferro in particolare, era identificato con le ossa di Seth, il tenebroso dio assassino di suo fratello Osiris. Ragione per cui il Egitto il suo utilizzo fu limitato e relegato allo strato più marginale degli artigiani o, forse, ad una casta occulta detentrice di numerosi segreti.”
Quasi ovunque nel mondo antico, il fabbro, vuoi per il carattere sacro della sua attività, vuoi per le mitologie che ne fanno riferimento, occupava un ruolo ‘a se stante’ dal resto della collettività che pure era custode della sua tradizione che lo relegava a una ‘casta’ detta degli ‘intoccabili’ che avevano fama di potenti maghi e considerati con grande rispetto e timore. Tuttavia il ricordo mitologico di questa esperienza demiurgica sembra non avere lasciato traccia nelle discendenze genealogiche degli Zingari. In alcune collettività del Vicino oriente e dell’Europa orientale, venivano attribuite alla casta dei fabbri discendenze regali e aristocratiche.
È il caso specifico dei Somali, presso i quali i fabbri ‘tournal’ costituiscono ancora oggi una casta a sé stante. Altro esempio fa riferimento ai Tchinghianés turchi, chiamati anche Farawni o Gylidi, fra i quali è in uso il vocabolo ‘dakhan’, cioè fabbro, oltre ad ‘eroe’ e ‘cavaliere franco’, equivalente a ‘uomo libero’, l’esatta denominazione degli Zingari. Alla figura dell’eroe va inoltre accostato l’aggettivo ‘guerriero’, così come è usato nell’accezione dei Bogos chiamati anche Bileni, un’esigua popolazione dell’Eritrea, fra i quali si tramanda ‘ab-antiquo’ la leggenda di guerrieri Rom “che scagliavano le lance contro il cielo”, dei quali esistono tombe di pietra custodite da genti infernali.
Le leggende e le credenze fin qui articolate intorno alla metallurgia ci danno la dimensione, univoca quanto arbitraria, di quello che può essere stato nel tempo l’operato dell’ ‘homo faber’ valutato però solo dal punto di vista di quei popoli che hanno prodotto e lasciato testimonianze della loro esistenza, in manufatti e agglomerati abitativi stabili o che, in qualche modo, hanno elaborato una microcoltura. Cosa che solitamente non è possibile stabilire per i popoli nomadi, ancor meno per gli Zingari, ai quali ogni attribuzione di ‘comunicazione’ storica o contingente; ciò per il fatto che la ‘cultura’ degli Zingari, all’apparenza, sembra non esistere, perché non presenta alcuna valenza di autenticità, per aver essi abbandonato da tempo l’uso di ‘creare’ e di ‘produrre’ richieste per la sua definizione. E che, altresì, permetterebbe ad essa di essere inclusa in una qualche categoria socialmente riconosciuta. Tantomeno è stata presa in considerazione la possibilità di un legame ‘intimistico’ con i ‘signori del fuoco’ per cui gli Zingari, indiscussi artefici e trasmettitori della pratica millenaria della forgia, vengono appellati.
Scrivono B. e F. R. Allchin (14) dell’Università di Cambridge, che: “La lavorazione del ferro nell’Asia meridionale sia originaria dell’Occidente. Le ricerche eseguite hanno permesso di stabilire che tale importante avvenimento si verificò verso l’anno 100 a.C. nelle aree più settentrionali dell’India e che, in seguito, l’uso del ferro si estese rapidamente verso sud e verso est. Nelle aree meridionali il diffondersi della lavorazione del ferro è collegato ai movimenti di una popolazione nomade, dispersa poi sul territorio e di cui sono note soprattutto le tombe, presenti in molte varietà, sia nel profondo sud sia in zone settentrionali come potrebbe essere Nagpur, e che presentano molte caratteristiche comuni. Quasi tutte sono costituite da pietre disposte in circolo, tutte hanno una camera sepolcrale in pietra e vengono definite ‘megalitiche’. All’interno vengono rinvenuti frequentemente oggetti di ferro, insieme a stoviglie di terracotta rossa e nera. Leghe di rame, di bronzo e di rame arsenicato erano un tempo usate comunemente al pari della pietra, per fabbricare armi e attrezzi, mentre il piombo, l’argento e l’oro venivano utilizzati soltanto per oggetti di culto o per abbigliarsi.”
Testimonianze di vasti commerci interni di oggetti artigianali inerenti a traffici d’importazione di materie prime dalle regioni confinanti con l’India e con la Mesopotamia. Non è chiaro quali merci venissero importate in India, mentre manufatti della civiltà dell’Indo, in special modo guarnizioni per collane e intarsi, sono stati trovati nelle zone archeologiche riferite a Babilonia e ai regni fioriti più o meno nello stesso periodo preistorico. Tutto ciò accadeva nei primi secoli del primo millennio a. C., alla fine del quale, anche per queste zone, iniziava l’era storica propriamente detta, nella quale si registrano le prime grandi migrazioni di popoli. Resta comunque un mistero quale rapporto i commerci dei metalli e dei manufatti abbiano con le grandi migrazioni e la brusca fine delle prime civiltà dell’Indo, di cui pure restano testimonianze certe in grandi aree archeologiche e centri urbani a Mohenjo Daro, Harappa e Kalibangan.
Nel campo specifico della metallurgia, le ultime scoperte, tendono a mettere in relazione il suo avvento con la cultura della Cina meridionale dell’epoca Chou medio-tarda, tra l’ VIII e il IV secolo a.C. ma che questa sarebbe di origine danubiana, giunta qui negli stessi secoli attraverso il Caucaso. Per quanto, questa ipotesi non sia del tutto da scartare, al momento non si ha conoscenza di una particolare attività metallurgica attribuibile agli Zingari in Cina. Considerato quanto appreso fin qui, va detto che la cultura di questi popoli oppone all’esistenza ‘demoniaca’ del fuoco l’elemento catalizzatore dell’universo, il ‘fuoco divino’ di celestiale memoria; allo scopo di dare una fisionomia ‘mitica’ pienamente riconoscibile, speculare tra il bene e il male, riconosciuto nel simbolo rappresentato dallo Jing e Jiang. Un’ambivalenza positiva/negativa che, pur essendo nell’ordine delle cose, non è riconducibile alla credenza negli Zingari del ‘fatto catartico’, in quanto da sempre conosciuti come ‘artefici del male’, e ‘figli del diavolo’, per quanto ciò possa sembrare aberrante.
Scrive Augusto Romano (15): “La nostra condizione attuale non ci permette di comprendere quella ‘lingua antichissima’ (riferita ai simboli e alla musica) risuonante nella nostra memoria immaginativa che ci conduce nel regno della Grande Madre (..) là dove non sono ammesse differenze e opposizioni. (Tuttavia) È lì che si celebra l’armoniosità totale e unitaria della voce (il richiamo) dell’origine, naturale, materna, flusso corporeo che si fa tempo del canto modulato sul respiro” – prima ancora che si corrompa nella storia. È manifestamente in questa visione che pure affonda le sue radici la teoria psicoanalitica di Giovanni Di Stefano (16) improntata sulla assimilazione della musica a esperienze fusionali primitive miranti alla spiritualizzazione interiore: “La lingua superiore degli spiriti, che addita una realtà trascendente da cui lo spirito soffia vivificando e ispirando”.
Lo ‘spirito della musica’, suggerisce C. G. Jung (17), come il mercurio alchemico, presenta il suo lato oscuro e sotterraneo associato al male e al potere, che va oltre i limiti di pura armonia. Usata come strumento illusorio di onnipotenza, essa raggiunge esiti distruttivi che rientrano nella tentazione demoniaca che, andando oltre l’umano, si identifica con lo ‘spirito creatore’. Davvero numerosi sono i riferimenti musicali inerenti al fuoco ed alla forgia rintracciabili nelle culture nomadi e stanziali fra i quali cercare una connotazione di origine zingara.
La solidarietà tra il mestiere di fabbro e il canto si riscontra chiaramente nel vocabolo semitico, dall’arabo ‘q-y-n’ che significa ‘forgiare’ ed anche ‘essere fabbro’, apparentata a diversi termini in ebraico, siriaco ed etiope che designano l’azione di ‘cantare’ o ‘intonare’ un lamento funebre. In sanscrito troviamo la parola ‘taks’, significante ‘fabbricare’, utilizzata per esprimere la composizione dei canti che formano il Rig-Veda. Nei testi ugaritici, infatti, i cantori sono chiamati ‘kòtaràt’ per la loro capacità di comporre incantesimi e canti. Quel ‘cantare’ che per gli Zingari rappresenta il supremo linguaggio, la ‘voce mitica’ che parla agli iniziati e ad essi soltanto.
Altra fonte d’interesse è l’uso di alcuni strumenti musicali che rientrano in questa ricerca per la loro connessione con la forgia e il modo virtuosistico in cui sono suonati, e nei quali si riversa tutta l’essenza dell’ ‘estro zingaro’. Di precipua attinenza con il fuoco sono anche le danze che gli Zingari hanno adottato sulla base di altre più antiche, legate a questo o a quel popolo con il quale sono venuti a contatto e, verosimilmente, ‘reinventate’ dal loro impeto espressivo, straordinariamente vivace, nel ricordo di terre appena conosciute e già lontane. Entrando nella speculazione filosofico - letteraria, un’altra pista suggestiva è fornita da un’antica leggenda zingara che recita: “Quando non v’erano uomini nel mondo, il Cielo e la Terra formavano una coppia felice e in armonia” (18), nella quale intravediamo un certo rimpianto per una qualche ‘terra perduta’ ma mai dimenticata, che va collocata in un punto vago dell’India immensa.
Una Terra dei ricordi lontani cui gli Zingari spesso fanno riferimento nei loro canti intrisi di nostalgia, e nei lamenti funebri, sorta di canzoni-nenie riferite, inoltre, a una qualche ‘morte iniziatica’ o a delle ‘tenebre mistiche’, conseguenti all’improvviso impoverimento delle condizioni generali di vita, un tempo privilegiate dall’appartenenza a una possibile ‘casta’ non meglio identificata, e la successiva schiavitù di massa che li ha costretti alla fuga e, conseguentemente nella condizione di nomadismo. L’impossibilità di collocare geograficamente questa ‘terra perduta’ credibilmente successiva a un’oscura circostanza ‘apocalittica’, che ne avrebbe determinato la ‘scomparsa’, tale da far dire agli Zingari che “non esiste più”, ha fatto supporre alcuni studiosi ad una loro probabile provenienza da Atlantide, la terra sommersa di platonica memoria, alla quale alcuni gruppi nomadi fuoriusciti che non avrebbero potuto più farvi ritorno dopo la sua catastrofica scomparsa.
Un’ipotesi che spiegherebbe la somiglianza di culture e vestigia presenti sui due versanti opposti dell’Oceano Atlantico e che, per certi aspetti, comproverebbe l’idea ipotizzata, di un possibile collegamento fra le terre sommerse e l’esistenza effettiva di Atlantide. G. Predari (19) aggiunge un’ipotesi alquanto stravagante e immaginaria datata 1841: “A nostro avviso noi ci perderemmo fra le tenebre che involgono tuttavia la storia dei popoli che abitarono Atlantide, della cui esistenza oggidì, non pure la storia, ma la fisica e la genealogia, hanno stabilita l’incontrovertibile certezza. Niente di più facile che in quel tremendo cataclisma che inabissò in mare quell’immensa regione, alcuni di quei popoli si rifugiassero sul propinquo continente africano; stanziatisi in Egitto ne assumessero quella parte di abitudini e di doti morali, comuni agli antichi Egizi come agli Zingari; penetrata l’Asia, si spargessero per quelle regioni e porzioni di essi si portassero alle parti prime dell’India, mentre altri si dirigessero verso l’Asia più limitrofa all’Europa, nella Tracia e nel Ponto, ove li trovò popoli nomadi e già antichi lo stesso Erodoto nei Sinti.”
Per quanto suggestiva questa ipotesi offre all’antropologo e all’etnologo di porsi alcune domande che destano inquietudine su una possibile origine antidiluviana di questo popolo nomade che, ai nostri occhi, resta comunque uno degli ultimi rappresentanti del più primitivo stadio umano prima della sua sedenterizzazione: “Credo non esista problema istorico – scrive ancora Colocci – che abbia più occupato le menti degli eruditi di quel che non abbia fatto la questione che riflette l’origine degli Zingari.” Tuttavia il mito di Atlantide quale terra d’origine degli Zingari è forse quello che più ha entusiasmato le menti e in definitiva quello che ha resistito nel tempo.
Nel Popol Vuh (20) , l’antico manoscritto guatemalteco definito “la grande miniera di leggende e mitologie Maya”, si parla di “una terra a est delle sponde del mare”, una localizzazione che corrisponde perfettamente alle nostre conoscenze sulla posizione di Atlantide, da cui “i padri del nostro popolo erano giunti”, e che sopportarono “una grande catastrofe” in seguito alla quale, la terra situata a est scomparve. Ed ancora: “Sopravvenne una grande inondazione (..) e gli uomini, in preda alla disperazione e alla follia, corsero di qua e di là. Fuori di sé dal terrore (..) tentarono di entrare in grotte e caverne e vi furono immediatamente chiusi dentro. Quando sulla Terra scesero le tenebre...”.
Se si tiene in conto ch tutti i miti riferiti ad Atlantide e le leggende Indu di Meru furono tramandate da più antiche civiltà veramente esistite e misteriosamente scomparse, viene da chiedersi per quale motivo non è stato trovato alcun reperto o quasi ad esse riferibile. Un’interessante postilla riferita all’argomentazione atlantidea, è qui proposta da Lewis Spence (21): “Engel e il Conte de Corli sostenevano dottamente che i confini di Atlantide raggiungevano Europa e Africa da una parte e America dall’altra. Secondo questi studiosi, gli uomini erano passati dal Vecchio al Nuovo Mondo attraverso un istmo atlantideo, l’inabissamento del quale aveva troncato gli antichi collegamenti fra i due continenti.”
Una congettura alquanto azzardata e comunque piena di fascino sull’utilizzo delle energie positive del pianeta è esposta da James Redfield (22), il quale scrive: “Quando una società progredisce fino a saper creare mentalmente i beni materiali, se succede qualcosa e un’ondata di negatività fa abbassare il livello di energia, ogni cosa si limita a scomparire.” Ciò che in ultima analisi avalla le ipotesi della possibilità di un popolo superiore al nostro, ‘scomparso’, per così dire, dallo stato ‘materiale’ dopo aver raggiunto lo stadio ‘aureo’ della luce. Nel caso di Atlantide tuttavia i fatti devono essere andati diversamente. È opinione confermata che la deriva dei continenti e dei ghiacciai seppellì la maggior parte delle terre sommerse e i sopravvissuti all’avvenuto sconvolgimento geologico, se mai ve ne furono, riuscirono a prendere terra un po’ ovunque e non restò loro che insinuarsi nelle altre terre rimaste e di vivere nei luoghi abitati insieme ad altri popoli. Da cui, la probabile ‘dimenticanza’ nella memoria di certi popoli – il fatto non è prerogativa dei soli zingari – del luogo originario di provenienza.
Scrive in proposito Mircea Eliade (23): “...accade che questa e quella tradizione non abbia avuto mai coscienza dell’insieme mitico dal quale deriva (la sua conoscenza), tanto più che le ideologie circolano e sono veicolate dalla storia, e quasi sempre un popolo riceve o conserva solo frammenti di essa. (..) Ora tra queste non esiste, talvolta, alcuna contiguità storica, e ciò rende ancora più difficile il lavoro d’interpretazione.” Vale a dire che, quando si verifica un distacco totale dalla storia e dalla tradizione, a distanza di tempo viene a mancare quella “memoria collettiva” capace di avvalorare le ragioni precipue dell’esistenza di gruppo. Ragioni che, sulla base di quest’ultima ipotesi unicamente ‘letteraria’, hanno permesso di attribuire agli Zingari – da qualunque parte del mondo essi siano giunti ed a qualunque tribù facciano riferimento – lo status di “popolo senza memoria”.
Una diversa prospettiva è qui offerta da un’altra vicenda ripresa dalla tradizione orale e tuttavia puramente ‘letteraria’, piuttosto che ‘mitologica’, con la quale viene sancito un possibile ritorno dell’umanità alla barbarie pre-culturale, e che porta a una sorta di ‘consumazione finale del tempo’. Scrive Alfonso maria Di Nola (24): “L’apocalittica nell’attuale e corrente fruizione del termine, evoca subito una situazione esistenziale collettiva di fine o di prossimità alla fine. (..) Si costituisce in un meccanismo inquietante o gratificatorio delle crisi culturali, proprio perché relega ad una consumazione dell’essere l’angoscia dell’essere, prospetta lo sviluppo della storia verso una negatività totale e consumante, dalla quale può nascere il caos primigenio (ritorno alla natura) o può originarsi una rifondazione del tempo. (..) Gli aspetti essenziali di questo modulo possono essere individuati, al di fuori dell’area giudaico-cristiana, in tutte le costruzioni escatologiche, messianiche e profetiche presenti in altre religioni, dall’Iran all’India e alle culture senza scrittura.”
E ancora: “Avviene di fatto che il quadro apocalittico, attestato negli scritti o semplicemente presente come tendenza religiosa, si contrappone al quadro scritturale tradizionale e afferma un suo diritto esclusivo di recupero dei significati veri ed ultimi delle strutture religiose. (..) I momenti religiosi ‘apocalittici’ nella loro diretta corrispondenza con situazioni di conflitto e di crisi culturali, esprimono proposte finali che sono, nella loro sostanza, fughe dalla realtà attuale e dal mondo, o espedienti ideologici per sottrarsi al tempo presente, in una prospettiva di liberazione che è realizzata in un futuro escatologico o che cerca, in un passato astorico e mitico, il paradigma di una perfezione e di una felicità perdute e la causa dei mali presenti.”
Accanto a quella ora enunciata, faccio qui riferimento a un’altra teoria introduttiva al fattore dialettico, qui riferita da Augusto Romano (25): “Non è con gli strumenti della ragione che si può dare risposta alla contraddizione tra l’essere qui e il desiderio di un altrove che, incredibilmente, esiste nella propria illusorietà”, e che porta la discussione sul piano della psiche e, se vogliamo, della filosofia empirica, che sposta il discorso in un luogo non ben identificato nella mediazione del caos, delle emozioni e delle ipotesi che non finiremmo più di avallare, stupefacendo noi stessi per inventiva e suggestività.
Sono infine le parole di un Vangelo apocrifo (26), a permettere all’odierno fruitore, per così dire, un possibile riscatto dalla situazione, ‘deviante’ in cui fin qui si è spinta questa ricerca. È scritto che: “Davanti alla verità l’uomo non si trova come di fronte al mondo: vede il sole, pur non essendo il sole; vede il mare pur non essendo il mare; ma se tu hai visto qualcosa di quei luoghi, sei diventato quello che hai visto. Egli (Gesù) parlò del luogo da cui ciascuno è venuto e della regione nella quale ha ricevuto il suo essere essenziale. Il luogo al quale (per primo) rivolsero il pensiero, quel luogo è la loro radice.”
Il ‘passo’ di indubbia origine gnostica permette qui di rintracciare almeno un’altra ‘verità’ inoppugnabile pronunciata da Gesù il Vivente a Tomaso: “Siate transeunti” che pure sembra tenere presente il lungo estenuante peregrinare che il popolo degli Zingari si trova ad affrontare da tempo immemorabile. La frase va riferita alla condizione ‘solitaria’ del predicatore nel perseguimento della perfezione, la cui scelta di solitudine, consiste nella separazione dalla famiglia d’origine (dal proprio popolo pur predicando al popolo), soprattutto nella cancellazione di vincoli terreni. È detto: “poiché l’uomo appartiene originariamente al cielo”, che, se riferita agli Zingari, assume un risvolto illuminante, come se Gesù parlasse a un piccolo gruppo di “perfetti” che qui vengono chiamati “operai nei quali sono scintille divine cadute nella materia”.
Un ‘mito’ religioso, dunque, è alla base del riconoscimento etnico a cui addiviene lo storico desideroso di rintracciare le origini dei ‘figli del vento’, che possiamo definire catartico, inteso in senso di ‘transito’ purificatorio che condiziona la vita degli Zingari e che li trasporta alle origini del tempo e che, in termini sociologici, si traduce nell’attaccamento di un popolo alle proprie origini. Si può certamente attribuire a questo singolare gruppo umano quella sacralità primigenia a cui fa riferimento il testo evangelico, come alla genesi della nomadizzazione, ancora oggi celebrata da quegli Zingari che hanno abbandonato la vita migratoria per diventare sedentari. Se pure, va detto, sussiste la possibilità che un’inchiesta sul ‘mito zingaro delle origini’, potrebbe avvicinare di fatto gli Zingari anche ad altre realtà religiose.
Noi ci fermiamo qui, non serve indagare oltre, avremo modo di percorrere altre strade, altri itinerari di questa storia infinita che attraversa i millenni. Accendiamo quindi il nostro fuoco in questo ipotetico accampamento e godiamoci la notte stellata. C’è nell’aria il profumo della buona stagione, apprestiamoci dunque a celebrare il nostro rito propiziatorio. Come scrive Françoise Cozannet (27): “La cerimonia ha luogo in primavera, nel momento in cui la natura riunisce di nuovo nel suo seno la morte dell’inverno e la rinascita alla vita. Gli Zingari ammassano allora su loro poveri carri tutto ciò che possiedono e se ne vanno da una estremità della città dove dimorano, per ritornarvi dall’estremità opposta, compiendo una specie di cerchio il cui inizio si chiude su di sé, riattualizzando per se stessi il vecchio mito umano dell’eterno ritorno alle origini.”

“Ci basta avere per tutto il cielo / un fuoco per scaldarci /
e le nostre canzoni quando siamo tristi”. (Spatzo)

Ai primordi della civiltà.
Alcuni popoli a livello culturale impropriamente definito ‘primitivo’ oggi in via di estinzione, dolcemente assorbiti o brutalmente ‘sterminati’, continuano a subire la contraddizione di almeno due vettori evolutivi: la frantumazione etnica o l’omologazione all’interno di un più ampio e comunque inadatto ‘villaggio globale’. Tra questi, gli Zingari, da sempre rappresentano un rompicapo per quanti: antropologi, etnologi, sociologi, che li vorrebbero inglobati all’interno di un predeterminato ‘confine culturale’, al fine di demarcare precise barriere territoriali in termini di lingua e di estrazione che essi stessi pongono come limite invalicabile, oltre e sotto il quale qualunque popolo ‘etnico’ non è riconosciuto come tale.
La moderna antropologia applicata, pur avendo permesso il raggruppamento su vasta scala delle componenti sociali che definiscono l’appartenenza culturale a questo o quel gruppo socio-biologico, ha dato tuttavia una risposta sconcertante al problema della pari - dignità etnica di alcuni popoli. Tra questi, gli Zingari esulano dal far parte di alcuna categoria riconosciuta, rientrando con ciò, nel ‘concetto di etnocentrismo’, per effetto del quale sono considerati al di fuori della vera umanità. Questo benché siano stati evidenziati dati significativi della loro esistenza, relativi al loro essere nomadi, alla fluidità degli spostamenti di gruppo e all’attività di penetrazione nelle culture diverse dalla loro.
Non in ultimo – dato questo molto rilevante nell’ideologia socio-politica del nomadismo – il loro essere sparsi su gran parte della faccia della terra, pur avendo conservata una loro ‘identità socioculturale’ riscontrabile negli usi e nei costumi che gli sono propri. Ciò, malgrado la sostanziale difficoltà di comunicazione relativa alla mobilità fra i vari gruppi, talvolta formati da una sola famiglia, offra – a mio parere – un quadro non trascurabile della loro origine etnica, sulla base della quale si dovrebbe riesaminare il problema del riconoscimento della loro ‘esistenza’ e restituirli alla dignità umana all’interno delle minoranze etniche e della storia.
Siamo qui di fronte a uno dei rari casi di ‘non classificazione’ che pone un popolo, nello specifico gli Zingari, oltre il ‘relitto umano’, cui non è riconosciuta alcuna forma di cultura, malgrado essi , pur essendo parcellizzati in gruppi diversi tra loro, facciano uso di un identico idioma di base, comune ai ‘romani’, (popoli di etnia Rom), il quale, pur spezzettato in numerosi dialetti, si presenta come un insieme di lemmi consimili basati sulla trasmissione orale, piuttosto che tramite la scrittura o altri mezzi d’attestazione non verbali. Un controsenso in termini se, da una parte, A. L. Kroeber (1) afferma che: “L’uomo è parte dell’evoluzione di ambiente, società e cultura, e che tutti questi elementi retroagiscono sulla persona fisica istante per istante”. E da un’altra, Bruno Netll (2) che: “Va sempre tenuto presente che si possono definire gli individui senza separarli grossolanamente dal proprio flusso genico, mettendoli in rapporto con antenati e discendenti – e che – si possono definire altresì concetti quelli derivanti dal formarsi in clan, per lignaggio, per etnia o tribù, o in seno alla propria popolazione di appartenenza, al fine di fornire essi stessi un modello di comportamento umano di tipo dinamico, che va visto in divenire.”
Va qui detto che in alcune aree specifiche in cui i gruppi Zingari sono vissuti più a lungo in condizioni precarie e talvolta separati da confini culturali estremi, si è verificata un’eccezionale parcellizzazione delle tribù e un fortissimo isolamento genico e linguistico, con conseguente allontanamento dal modello originale. Per contro, in altre, pur non essendosi verificata alcuna commistione da parte di nuclei Zingari con le popolazioni autoctone con le quali sono venuti in contatto, essi hanno mantenuto legami comunitari e, in alcuni casi, hanno dato forma a veri e propri nuclei compatti ed eterogenei.
Tutto questo, a conferma di quanto ancora sostenuto da Bronislav Geremek (3): “...che se all’interno di una popolazione si verifica una qualche separazione per un tempo sufficientemente lungo, si ha un processo di differenziazione analogo alla lingua e agli usi, per cui si è tagliati fuori dal processo di inculturazione. Ciò che in effetti non è accaduto alla lingua zingara, che si presenta invece come una commistione di più elementi alla base di molte forme di acculturazione. (..) L’approccio al problema della collocazione degli Zingari nella società odierna, pone lo storico di fronte all’immenso materiale documentario di una disciplina di studio autonoma: la ‘zingarologia’, i cui primi documenti si possono rinvenire nella letteratura del XVI sec. con i lavori di Grellman, ma che solo da poco ha cominciato a conquistarsi una sua autonomia.”
A questo proposito egli aggiunge: “Il carattere di questo tipo di letteratura poneva in essere gli interessi etnografici e linguistici. La problematica storica occupava in essa un posto notevole, per lo più sulla base della descrizione di fatti e aneddoti. Negli ultimi anni si può riscontrare un progresso considerevole sia nell’ampliamento degli orizzonti di ricerca della ‘zingarologia’ grazie alla penetrazione dei metodi messi in atto dalle scienze sociali, soprattutto l’antropologia e la sociologia; sia nelle prove sintetiche di esposizione storica.
Egli per di più aggiunge che: “La sfera di informazioni storiche fino al XIX sec. è comunque ridotta e le notizie provengono inoltre da osservatori esterni. A complicare ulteriormente la questione interviene l’ambivalenza dello status etnico degli Zingari, che uniscono (a loro favore) un sentimento di identità di gruppo e il tradizionalismo a un grande spirito di adattamento all’ambiente circostante. Per questo, proprio negli studi contemporanei, non c’è unanimità circa la definizione stessa di appartenenza degli Zingari, che ha creato molti problemi anche nelle decisioni in materia legislativa”.
In campo scientifico la ‘linguistica’, più d’ogni altra, ha consentito di esaminare le fasi del processo di formazione del linguaggio verbale, fondamentale nella trasmissione d’una cultura specificamente orale che accomuna tutti gli Zingari e che, verosimilmente, lo hanno tramandato da una generazione all’altra e da un gruppo all’altro sebbene le distanze che spesso intercorrono nella ‘comunicazione’ attiva fra loro, comprensibile della cultura che l’ha generata e del corrispettivo ambiente in cui questa si è formata. Ma di quale ‘ambiente’ si tratta se, come è noto gli Zingari per loro scelta, sono e rimangono nomadi da generazioni?
Se vogliamo considerare ‘ambiente’ l’insieme dei territori in cui essi si trovano a ‘vivere’ possiamo affermare quanto segue: che ogni ‘tribù’, ogni ‘cultura’, per quanto primitiva possa essere, ha dignità sufficiente per essere rappresentata, ivi compresa quella zingara. Non a caso l’UNESCO (4), per voce dei suoi parlamentari si è espressa in tal senso: “Non si può stabilire alcuna gerarchia fra culture maggioritarie e culture minoritarie, perché anche quella in apparenza più umile, la meno conosciuta, può essere portatrice di verità a tutte le altre.”
Ma non solo la linguistica, anche l’etnologia e la musicologia ad essa applicata, nonché la medicina popolare e la scienza alimentare possono dirci oggi qualcosa in proposito. Come, ad esempio, la realizzazione delle ‘mappe geniche’ realizzate da L. Sforza-Cavalli (5) e del suo prestigioso team, che ha messo recentemente in evidenza la possibilità di sovrapporre agli alberi genealogici delle popolazioni umane le lingue da esse parlate: “Le mappe dei geni della Terra rivelano realtà stupefacenti che da un solo idioma parlato circa centomila anni fa, derivano tutte le famiglie linguistiche, cioè le migliaia di lingue parlate attualmente”, a cui si va ad aggiungere la storia delle rispettive lingue, a dar forma ad “una sorta di spina dorsale degli studi sulle origini.”
Ciò che avvalora quanto ipotizzato a suo tempo da Charles Darwin (6) il quale, anticipando di molto i tempi, aveva altresì immaginato quanto segue: “Se possedessimo un perfetto pedigree dell’umanità, una sistemazione genealogica delle razze umane fornirebbe la miglior classificazione delle diverse lingue oggi parlate nel mondo; e se venissero incluse tutte le lingue estinte, e tutti i dialetti intermedi, allora una tale sistemazione sarebbe l’unica possibile.”
Il procedimento più idoneo per ricondurre tutti i gruppi zingari a un indirizzo comune, pur tenendo conto delle diversità e delle accezioni, rimane dunque quello del riconoscimento del ‘romanì’ o ‘romanés’, la lingua parlata dagli Zingari, come fenomeno culturale ‘diverso’ all’interno di una più ampia cultura autoctona. La letteratura concernente mostra elementi di giudizio per lo più suggeriti dall’emotività o dettati dall’entusiasmo dei ricercatori, solo raramente compatibili con la realtà multiculturale degli Zingari. D’altra parte, l’enorme capacità di adattamento degli Zingari alle diverse culture ha prodotto una tale diversità di soggetti linguistici che qualsiasi generalizzazione risulterebbe arbitraria, per cui si è portati a pensare all’esistenza di un qualche linguaggio segreto.
R. J. Forbes (7) cita numerosi esempi di un ‘linguaggio segreto’ utilizzato in Mesopotamia, comune agli sciamani delle società arcaiche e ai mistici delle religioni storiche, che: “...è contemporaneamente l’espressione di esperienze altrimenti non trasmissibili attraverso il linguaggio quotidiano e comunicazione criptica del senso riposto dei simboli”. Sebbene non riferita alla cultura zingara in particolare, l’esistenza di un ‘linguaggio segreto’ assume valore e significato in una cultura che non fa uso della scrittura, che si serve di forme verbali e le utilizza in senso ‘astratto’, non considerandole di per sé entità isolabili dal contesto simbolico in cui è immersa.
L’africanista Amadu-Hampate Ba (8) ha rilevato che: “...l’uomo, in un primo stadio del processo simbolico, non creava simboli, ma si rapportava simbolicamente con l’ambiente circostante.” Questo ci permette di riconoscere alla cultura zingara la prerogativa di ‘cultura in movimento’, capace di prendere e lasciare ‘forme’ qui intese non solo come usanze e costumi non propri, ma anche come ideologie e concetti presi in ‘astratto’ e verosimilmente prestati da altre culture. Si deve ad alcuni insigni linguisti l’aver svelato il mistero della lingua zingara parlata da molti gruppi eterogenei, partendo dall’identificazione del nome Rom, accreditato al ceppo indoariano e strettamente connesso con alcune tribù ancora oggi presenti nel bacino dell’Indo - Gange e nella zona nord occidentale del Deccan; cosa che ha permesso di stabilire con certezza l’origine indiana degli Zingari, anche se sono ancora in molti a sostenere che vi siano delle affinità con gli idiomi della Persia e dell’Indostan.
L’apporto dato dalle componenti lessicali e sintattiche delle lingue parlate nei paesi da essi attraversati nel corso dei secoli ha in qualche modo accresciuto l’uso di parole e cadenze di altra provenienza all’interno del ‘romanì’, dando forma a un linguaggio, per così dire, ‘diversificato’ e, verosimilmente ‘segreto’. Tuttavia, la sua decifrazione ha reso doverosa la comparazione di numerose sotto-lingue e forme dialettali, presenti all’interno delle lingue indiane maggiormente diffuse, quali il ‘sanscrito’, il ‘pracrito’, il ‘maharate’, il ‘punjabi’ e l’‘hindi’, solo per citarne alcune, con il ‘romanì’ parlato oggigiorno da tutti i gruppi zingari. Comparazione che ha portato alla rilevazione di sostanziali somiglianze con alcuni dialetti parlati ancora oggi nel Punjab e nel Rajastan, derivati dall’antica “lingua perfetta”. O, come per il ‘sanscrito’, formatasi su varietà dialettali medio - indiane molto più antiche, di cui anche l’‘hindi’ probabilmente fa parte, e solo di recente assurte a “lingue di cultura e che oggi costituiscono la base originaria delle lingue indoeuropee.
Scrivono Friedrich Max Muller e Fracesco Botey (9) che: “L’origine di questa sorta di ‘madrelingua’, la cui genesi resta comunque avvolta nel mistero, lascia ancora da chiarire alcuni dubbi relativi al gruppo etnico, la casta o la classe sociale, fra le molte conosciute, cui sia possibile attestarne la nascita. Per dare una qualche risposta a queste non facili incognite, alcuni studiosi e ricercatori hanno avanzate le ipotesi più disparate, continuando così a fomentare credenze a dir poco fantasiose, sulla base delle grandi fasi migratorie del genere umano, succedutesi nell’India nord-occidentale verso la fine del primo millennio, e protrattesi in gran parte fino al XV sec. con la successiva espansione dell’Islam verso l’Occidente.
Si è quindi pensato a un possibile popolamento tardivo degli Zingari in quest’area, a causa delle difficoltà di accettazione del loro stile di vita e dell’incapacità di penetrazione della loro lingua, tali da far ipotizzare una loro possibile infiltrazione in Occidente avvenuta per gradi successivi e attraverso modelli diversificati che hanno reso problematico l’impatto linguistico sul territorio, in assenza di una vera e propria integrazione socio-culturale, del resto mai avvenuta. Ipotesi questa che ci permette però di riconoscere agli Zingari, seppure distinti per similitudini di comportamento, l’appartenenza a un unico “agglomerato umano” e a un unico “ambiente abitativo” in cui essi si sono riversati in massa, come ad esempio la vasta area formata dal bacino del Mediterraneo.
Non manca chi, come C. von Furer-Haimendorf (10) ritiene che: “...se la lingua è un importante mezzo di identificazione dei vari gruppi, l’equazione lingua = cultura è fin troppo semplicistica. Per gli Zingari l’unità linguistica non necessariamente sottintende l’unità culturale. Per quanto essi parlino la stessa lingua, alcuni gruppi hanno poco in comune (..) ed esistono anche differenze notevoli nei sistemi di parentela delle varie tribù.” Nulla di più vero se si vuole puntualizzare che gli Zingari, pur appartenendo a un’unica etnia, non rappresentano un popolo compatto e omogeneo. Ma per noi è ormai evidente che il significato dato alla vita sedentaria, è diverso da chi pratica il nomadismo, con tutto quello che ne deriva.
Possiamo quindi dire che conosciamo quali sono i contrasti che possono generare le differenze fra la tendenza alla sedentarizzazione di alcuni, contro la spiccata vocazione al nomadismo di altri. Tuttavia, nonostante la sua affermazione, lo studioso di antropologia asiatica dell’Università di Londra ha impugnato “scusanti etnologiche” che riscattano infine la sua personale presa di posizione, con l’apertura a soluzioni storico-sociologiche diverse: “...per cui i popoli nomadi possono anche essere identificati e riconosciuti con vari sistemi culturali”. Infatti, nel successivo libro, “I popoli del subcontinente indiano” (11), egli ci presenta un altro quadro storico, nel quale propone: “...il riconoscimento di tutti i gruppi etnici esistenti sul territorio”, affermandone i possibili ‘contrasti culturali’ e le stesse ‘differenze profonde’ che prima aveva contestato agli Zingari.
Scrivono ancora B. e F.R. Allchin (12) dell’Università di Cambridge: “Nell’India attuale, le differenze razziali colpiscono anche l’osservatore più disattento, e riflettono la natura composita di un popolo creatosi grazie all’apporto di ondate successive di invasori che penetrarono nel subcontinente sia da nord-ovest, sia da nord-est. (..) Sebbene siano avvenuti incroci fin dal secondo millennio a. C., quando le popolazioni arie di pelle chiara invasero l’India, dove trovarono genti indigene di pelle scura, in molte regioni continuarono a coesistere fianco a fianco tipi razziali ben distinti. Questa coesistenza durata secoli, e forse millenni, sta a indicare la difficoltà di ‘distinguere’ talvolta una comunità dall’altra”.
Ai due noti studiosi si deve inoltre la seguente affermazione che apre la porta dell’etnologia applicata allo studio delle origini dei popoli e che ci permette di affrontare il problema da una prospettiva decisamente più autonoma: “...più importante è stata la fondamentale propensione dell’ideologia indiana ad accettare la varietà delle forme culturali come naturale e immutabile, e perciò a non considerare desiderabile l’assimilazione a una sola linea culturale”.
Se dentro i confini del subcontinente indiano esiste una varietà incomparabile di gruppi etnici, di forme e di stili di vita diversi, ancor più numerose risultano essere le lingue distinte e senza alcun legame fra loro. Scrive ancora C. von Furer-Haimendorf (13): “Esistono almeno quattro famiglie linguistiche principali, ognuna delle quali è divisa a sua volta in numerose altre lingue reciprocamente incomprensibili, alcune delle quali parlate da poche centinaia di individui. I censimenti governativi parlano dell’esistenza di oltre quindicimila lingue. Molte delle quali sono soltanto dialetti tribali incomprensibili che non sono mai stati trasformati in una lingua scritta”.
È questo il caso del ‘romanì’ parlato dagli Zingari? Forse, secondo i risultati della linguistica esso presenta numerose somiglianze, più che con gli altri dialetti fra i molti registrati nel subcontinente indiano, con quelli più specifici facenti parte del gruppo delle lingue ‘muda’ di derivazione sanscrita, che molti studiosi considerano la più antica famiglia linguistica sopravvissuta e quindi ancora parlata dalle popolazioni che raggiunsero l’India dal nord-est, probabilmente parecchio tempo prima che gli Arii invadessero il paese dal nord-ovest. J. Alexander Vaillant (14), nel suo “Histoire vraie des vrais bohémiens”, comprende addirittura sotto l’appellativo di ‘Romi’ (Zingari), tutte quante le popolazioni ariane che si diffusero in Occidente durante i flussi migratori delle razze.
È opinione ormai accettata che l’India, in periodo preistorico anteriore ai testi rinvenuti nella forma arcaica nota come pre-vedica e risalente ad almeno tremila anni fa, si estendeva su un’aria più vasta dell’odierno Iran che comprendeva il Tibet, la Mongolia e le regioni tartare della Russia, fino all’Europa, un tempo tutti considerati sub-continenti indiani. La successiva migrazione in massa verso l’Occidente e la loro diffusione dell’Europa, portò rilevanti cambiamenti sul territorio e modificazioni alla lingua originaria, trasmessa oralmente, a sua volta inglobando apporti persiani, armeni, ebrei, greci e bizantini che, diedero inizio alla differenziazione dei dialetti parlati dai diversi gruppi e tribù zingare. Da cui, i cambiamenti anche fonetici della loro lingua, il ‘Romanì’, principalmente evidenziatisi attraverso i contatti con quella persiana e le regioni limitrofe del vicino Oriente.
Lo studioso di linguistica Françoise de Vaux de Foletier (15), mette in relazione i diversi idiomi usati per i loro nomi con le diverse realtà territoriali di provenienza: “Gli Zingari non fanno però uso del romanì se non quando s’incontrano tra gruppi affini. (..) La maggior parte di essi fanno uso di parole ‘prese in prestito’ dai popoli che li ospitano. In Spagna, ad esempio, hanno da tempo abbandonato il romanì più autentico in favore delle dominazioni costruite su assonanze linguistiche: Lom in Armenia, Dom in Persia, Dom o Dum in Siria, Manus in gran parte dell’Europa”.
Jeles Bloch (16) individua con il nome Dom, una tribù dell’India, o meglio: “...un agglomerato di tribù molto numerose e conosciute nell’antichità, i cui membri già nei testi sanscriti, vengono associati agli ‘intoccabili’ ma, che sono più conosciuti soprattutto come ‘harija’, appartenenti a una casta inferiore di fabbri”; e considerati tanto impuri che anche la semplice vista o il solo contatto con la loro ombra avrebbe insozzato qualsiasi persona di ceto superiore.
Non privo di interesse è inoltre constatare l’entità dei rapporti intercorsi tra i Dom fonditori, provenienti forse dal nord, precedenti agli Asùr, ed i riconosciuti maestri fabbri ferrai, ai quali – come abbiamo già avuto modo di constatare – erano assimilati agli Zingari. Scarsa è però la documentazione relativa al periodo che possiamo chiamare della ‘preistoria degli Zingari’, perché – come scrive ancora Jeles Bloch: “...gli antichi scrittori indiani si interessavano solo degli déi e dei re, e pochissimo di quei personaggi che erano chiamati gli Zott, gli Jat, i Luli, i Nuri o i Dom”; dei quali si conosce davvero pochissimo. Francesco Botey (17) in proposito, ritiene del tutto: “...inutile tentare di conoscere la storia del popolo zingaro nell’epoca anteriore a quella del loro esodo dall’India, ma si può dedurre che dal momento dell’invasione ariana avvenuta verso il 1500 a.C., la loro vita divenne seminomade”.
Scrive Françoise de Vaux de Foletier (18): “Alcuni nomi fanno allusioni ad un particolare fisico e soprattutto al colore della pelle dello zingaro, il quale usa per se stesso l’aggettivo ‘kalò’, cioè nero in questo senso. Non a caso gli Zingari sono soprannominati ‘negri’ in Bretagna e ‘karachi’, ovvero neri, in Persia. Analogamente i Tedeschi attribuiscono loro l’appellativo di ‘neri’; mentre gli Svedesi li definiscono Svart Tattaren, cioè ‘Tartari neri’, e i Finlandesi ‘Mustalainen’.. altre denominazioni loro attribuite alludono invece alla condizione di nomadi, come: Harami o Bokharani fra gli arabi e i Mori”.
Siamo però a conoscenza di altri gruppi, più o meno numerosi, presenti nella fascia occidentale dell’Asia, e dei loro nomi con i quali, essi stessi, si appellano: Hurbat, Duman, Nawar, Helebi, Bocha e decine di altri, propri di sottogruppi che pure si trovano a condividere la medesima minoranza etnica. Questi, sono presenti in piccoli gruppi in Uzbekistan e in Tagikistan, e prendono i nomi di Luli e Chugi, ma anche di Makrani, dall’area del Makran in Pakistan, più famosi per essere provetti giocolieri e addestratori di cavalli. Ivi compresi i Darzada, Nakib, Lori e Med, alcuni dei quali sono tradizionalmente Zingari ‘chiromanti’ e ‘cantastorie’ che maggiormente svolgono mansioni artigianali. Di un nutrito gruppo rintracciato in africa, si conosce invece il solo nome Gha’gar e che, straordinariamente, ricorda il Ghaggar del Punjab, un confluente del fiume Indo.
Altri gruppi formati da pochi elementi sono rintracciabili lungo la fascia mediterranea comprendente Egitto, Algeria, Tunisia, Marocco, per lo più inseriti tra le fila delle genti berbere dell’Atlas. Modesto Lafuente (19), ad esempio, sostiene che: “Gli attuali Zingari, sono i discendenti dei semila Egiziani esiliati a Susa, in Mesopotamia, dal re persiano Cambise, affinché accompagnassero nella sua prigionia lo sconfitto faraone Psammetico III (XXVI dinastia). Dopo la morte di Cambise e la rivoluzione che ne seguì, i prigionieri sarebbero fuggiti in India, dove dimorarono per dodici secoli”.testimonianza questa che avvalora maggiormente l’epiteto ‘faraonico’ di Egiziani o Gizzi che spesso è attribuito agli Zingari.
Il noto egittologo Franco Cimmino (20)a sua volta conferma la presenza di tribù di Zingari nel delta del Nilo, spesso confusi con i popoli egittizzati sotto la XVIII e la XIX dinastia, che osservavvano uno stato di servaggiooo: “L’aver essi ricevuto un nome egiziano, rende oggi più difficile accertare la loro provenienza, tranne nei casi in cui sia indicato il nome originale. Nella mitologia egizia si narra che quando il dio egizio Ra sconfisse presso Edfu i suoi nemici, i superstiti di coloro che avevano tentato di abbattere il potere della divinità solare, fuggirono verso i quattro punti cardinali: a sud si rifugiarono gli antenati dei Nubiani, a ovest quelli dei Libici, a nord quelli degli Asiatici, a est gli antenati dei beduini, mentre in Egitto rimasero solo le genti che si definivano Romethi, cioè gli ‘uomini’”.
L’archeologo Pierre Montet (21) indica in un dipinto che appare in molte tombe reali egiziane, il cui esemplare più noto si trova nella tomba di Seti I (XIX dinastia), quella che egli considera: “...La raffigurazione di almeno quattro razze conosciute nel Nuovo Regno: in primo luogo gli uomini ‘Romet’, contrapposti agli déi. Mentre, nel dipinto detto ‘delle razze umane’, lo stesso nome indica gli ‘uomini’ per eccellenza, e che poi non sono altro che gli Egiziani”. È rilevante che in entrambi i casi figuri il termine Rom avente lo stesso identico significato di ‘uomini’, cioè gli Zingari per antonomasia.
Lo storico persiano Hammizha ibn Hasan-el Isfalini (22) registra l’arriva verso il 550 a.C. di 12.000 musicisti provenienti dall’India, quando: “Il buon re Bahram Djour di Persia accolse i lamenti di una parte dei suoi sudditi resi poveri per le privazioni. Questi chiedevano di poter fare della musica per celebrare le feste come facevano i ricchi. Fu così che egli chiese a suo suocero, re Shankal de Kanauj, che viveva nell’alta valle del Gange, di mandargli dodicimila musicisti. Quando questi arrivarono, il re gli fece dono di che vivere nel coltivare la terra. Diede ad ognuno un asino, una mucca e mille balle di frumento. Passato un anno, essi si presentarono a lui completamente affamati, poiché avevano semplicemente mangiate tutte le provviste. Arrabbiato, il re consigliò loro di mettere le corde di seta ai loro strumenti, di saltare sui loro asini e di mettersi sulla strada ... e vivere della loro musica”.
Sin qui la leggenda, o forse la storia, che ci offre una suggestiva chiave di lettura sull’origine di un singolare gruppo ‘scelto’ di musicisti, sospinti verso il nomadismo clandestino e dei quali non si conosce altro; né se fossero partecipi di uno stesso agglomerato umano o di una stessa ‘casta’ fra le molte esistenti in India; né, tantomeno, quali fossero gli strumenti con i quali avrebbero rallegrato il popolo penitente. Alcuni studiosi sostengono che appartenessero al popolo dei Luri, già noti in India come eccellenti musicisti che, in seguito a questo evento presero a girovagare per le strade del mondo.
Il poeta e filosofo persiano Al-Firdusi (23) che attorno all’anno 1010 compose lo ‘Shahnamah’ o “Libro dei Re”, in cui si tratta delle vicende storico-leggendarie dell’epica persiana, ricorda che i Rom abbracciarono la vita nomade fin dalle loro origini facendo i musicisti di mestiere. Per tradizione usavano accompagnarsi con strumenti a corda sui quali cantavano e declamavano poemi alla maniera dei poeti professionisti ‘langa’ o ‘manghaniyar’ al servizio dei signori del Rajastan, anch’essi nomadi, che cantavano in ‘dari’, l’antica lingua derivata dal persiano. Sempre dal Rajastan provengono gli echi delle danze ‘kalbelya’, derivazione di ‘kali’, il colore nero tipico degli abiti indossati dalle danzatrici appartenenti al gruppo degli ‘Yogi’, essi stessi nomadi, riconosciuti maghi e incantatori di serpenti che viaggiavano a dorso di mulo accompagnati dai loro cani, ritenuti la personificazione vivente di quegli antenati ancestrali dai quali forse gli Zingari traggono origine.
Alcune testimonianze rivelano che essi furono in Persia accomunati agli Jats, un popolo che viveva ai piedi delle montagne, la cui fama di musicisti e danzatori era conosciuta in tutto il mondo antico. Si vuole fosse un popolo felice e dedito alla gioia e al divertimento, formato da abili giocolieri e saltimbanchi che sapeva suonare flauti e tamburelli, strumenti a corda e trombe d’ogni specie. I quali, in un certo momento storico, iniziato all’incirca verso il II millennio a.C., furono sottomessi dalle tribù balcaniche che invasero l’Asia Minore, allorché un flusso migratorio di grandi dimensioni, portò dalle steppe danubiane popoli di una stirpe non semita, definiti in seguito ‘Indoeuropei’, per indicare in una sola parola l’estensione del loro definitivo insediamento, sia verso l’India che verso l’area egeo – anatolica, e attraverso il Vicino Oriente, in Europa centrale e meridionale.
Questi, venuti a contatto con le preesistenti culture semitiche sul territorio, divennero in breve tempo il gruppo dominante soppiantando talora le popolazioni autoctone e, in qualche caso, fondendosi con esse, dando così il via a nuove e originali civiltà. A questo proposito cito Vladimir Propp (24), il quale scrive: “Non sono trascurabili le due grandi popolazioni degli Sciti e dei Messàgeti, almeno per quanto riguarda il nomadismo centroasiatico, poiché esse rappresentano le più antiche società nomadi suddivise nelle stirpi degli Ancati, Càtiari, Traspi, Paràlati.”
Va qui ricordato che alcune di queste popolazioni avevano fama di essere ‘indovini’ e conducevano una vita esclusivamente nomade, servendosi di carri e dediti alla lavorazione dei metalli, tra cui principalmente l’oro. Il contatto con le civiltà mesopotamiche influenzò fortemente questi popoli ma non al punto di alterare l’originalità della loro cultura improntata sulla forgia dei metalli da cui avevano ereditato il nome di ‘signori del fuoco’. Torquato Perez de Guzman (25) attribuisce la rapida evoluzione degli Indoeuropei proprio alla diffusione del ferro che, a partire dal II millennio a.C. coincise con un’epoca di grandi sconvolgimenti e trasformazioni politiche, cioè a: “..quando i famosi popoli del mare ruppero il monopolio Ittita della forgia e disseminarono ai quattro venti il ‘sapere’ fin lì tanto gelosamente custodito, dando così origine alla seconda rivoluzione mitologica, dopo quella del fuoco.”
Un’affermazione degna di considerazione, che affonda le proprie radici nella storia ed è convalidata da testimonianza e da reperti archeologici che, sebbene una recente datazione abbia rivelato una maggiore antichità, ci permette di attribuire a quei popoli uno sviluppo dell’industria estrattiva e metallurgica in senso autonomo. Paolo Bataillard (26) concede ad essi una possibile origine preistorica, rintracciando nella loro pratica dei metalli una traccia atavistica dell’età del bronzo. Più fedele al resoconto storico è la corrente migratoria che dall’Indo si è spinta nel cuore dell’Europa alla ricerca di nuove terre più doviziose e popolate, che da sempre rappresentavano il principale incentivo all’esodo, e che raggiunse le coste della Grecia e successivamente dei Balcani, dove le tribù zingare si presume abbiano sostato più a lungo.
Ciò va considerato alla luce della ricchezza di elementi lessicali medioevali e bizantini presenti nella loro attuale lingua. Ancora nell’Europa preistorica si fa riferimento a un’altra tribù originaria dell’Armenia e delle regioni intorno al Mar Nero, i Chaliby che, secondo la tradizione greca, furono i precursori della fusione e diedero il nome all’acciaio. Questi erano i progenitori dei Kemiti di Midian, una delle cui figlie sposò il profeta e legislatore ebreo Mosè, e di quel gruppo di fabbri che forgiarono le armi per le tribù nomadi dell’Arabia. Secondo la tradizione greca, trova maggior forza l’ipotesi di una possibile discendenza degli Zingari dal più antico popolo dei Pelasgi, il cui nome era associato alla metallurgia ed era conosciuto già nel 1200 a.C. in tutta l’Anatolia e nelle isole dell’Egeo.
La presenza stanziale di gruppi Zingari è confermata in Grecia, in Tracia e nel Ponto, ove li trovò nomadi e ancor più antichi lo storico Erodoto (27) attorno al 560 a.C., da cui l’assimilazione già evidenziata dell’uso di lettere alfabetiche greche all’interno del loro linguaggio. Tuttavia l’appellativo di ‘griegos’ loro attribuito è ancora oggi un arcano per quegli storici che più recentemente si sono avvicinati alla “zingarologia”. Pur non essendo determinante al fine della ricerca qui avviata, ciò rappresenta una nuova ipotesi e comunque la conferma della loro provenienza da un’area diversificata d’estremo interesse etnologico.
Altro centro di profusione della corrente migratoria è stato individuato nelle pianure valacche e moldave, da dove alcune minoranze zingare si sarebbero in seguito spinte in Russia e in Siberia. Mentre è assai probabile che gruppi più consistenti siano giunti dall’Arabia e, presumibilmente, attraverso lo stretto di Gibilterra, nella Spagna medioevale, sospinti o al seguito non meglio specificato degli eserciti Mori e Saraceni d’istanza nel Mediterraneo. Una importanta comunità, per lo più sedentarizzata, è presente in Andalusia presso il Sacro Monte di Granada, alla quale una recente statistica poco più di qualche migliaia di soggetti sono distribuite in Francia, in Italia, in Germania, nei Paesi Bassi, ai confini con la Svizzera e l’Austria, nonché in Norvegia e in Finlandia. Mentre equivalenti a poche centinaia di individui si contano nelle Americhe, nello stato del Brasile, in Australia e in Nuova Zelanda.
Sappiamo ormai per certo che gli Zingari presenti in Europa si suddividono in due gruppi fondamentali: l’uno e l’altro contrassegnati linguisticamente dai dialetti ‘vlax’ e ‘non vlax’. I primi comprendono le parlate in cui la lingua rumena prevale sulle altre europee. Appartengono al secondo gruppo quelli le cui parlate risentono in maggioranza degli influssi greci, slavi e tedeschi. Abbiamo così i Rom che parlano in prevalenza ‘vlax’ e i Sinti per i dialetti ‘non vlax’. Attualmento i nomi Rom e Manus in senso più stretto si applicano ai due principali gruppi zingari occidentalizzati esistenti in Francia: i Rom arrivati abbastanza di recente dall’Europa orientale; e i Sinti o Manouches, presenti da tempo sul territorio, in parte sedenterizzati nel sud del paese. Ai Manouches si possono accostare i Kalé della Spagna, presenti anche in Inghilterra e in Finlandia; e i SInti della Jugoslavia, Slovacchia, Polonia e dell’Italia, per i quali il vocabolo ‘manus’ significa letteralmente il ‘maschio’ e non soltanto lo zingaro in senso lato.
I Sinti si indicano generalmente con il nome delle zone di insediamento: ‘gackane’ tedeschi, ‘estrekaria’ austriaci, ‘havati’ croati, Sinti piemontesi, lombardi, marchigiani, ecc.. per alcuni di essi la parola ‘sinte’ altro non significa che ‘sundò’ (zingaro) dal verbo ‘shunava’ traducibile con ‘celebre o rinomato’. Altri lo connettono con Zincalo da ‘Sindhu’ (Indu), usato dagli Zingari in Germania, Polonia e Scandinavia. Mentre per i Rom i nomi più frequenti indicano i mestieri tipici cui si dedica il singolo gruppo di appartenenza: ‘kalderasa’ per i calderai, ‘lovara’ o addestratori e mercanti di cavalli, ‘curara’ o fabbricanti di setacci, ‘ursari’ o ammaestratori di orsi, ecc. ; a loro volta suddivisi in altrettanti clan, distinti per nome dell’antenato di discendenza, che diventa in patronimico comune.
Ben si comprende la difficoltà di addentrarsi nell’intricata questione del significato etimologico dei nomi, tuttavia la risposta più persuasiva finora fornitaci, è quella dello studioso Françoise de Vaux de Foletier (28), il quale si è confrontato con un nutrito elenco di nomi e di appellativi riferiti agli Zingari in ogni parte del mondo, e che ha permesso di conoscere e individuare geograficamente i flussi migratori delle tribù nomadi in epoca storica.
Egli scrive: “Uno dei nomi più antichi attribuito sembra ad una ‘oscura’ setta eretica, è quello degli Astingani, la cui fama di maghi e indovini si era mantenuta viva fin nella Grecia classica. In un momento storico accertato, questi fecero la loro apparizione nell’impero bizantino, dov’erano anche detti Athinganos o, secondo la pronuncia popolare, Atsinganos o anche Atsinkanos. Da cui la provenienza dei nomi: Tchinghiané in turco, Acingan o Cingan in Bulgaro, Ciganin in serbo, Cygan in polacco, Cykan in russo, Czigàni in ungherese, Cigonas in lituano, Zigeneur in olandese e tedesco, Zuyginer o Zeyginer in alsaziano, Xeginer in svizzero tedesco, Zigenar in svedese, Cingre o Cingar e Cingan in francese antico, Tsigane in francese moderno, Zingaro o Zingano in italiano, Cigano in portoghese. (..) Il latino medievale usava le forme Acinganus, Cinganus, Cingerus, mentre gli autori tedeschi del XVI secolo come Wangensil e Fritsch, collegavano Zigeuner a Zig o Zieche Cinher, oppure a Cinherziehen.”
Gli Zingari slavi, invece, si dividono in due gruppi: Daxikané e Karakhané, dei quali, quest’ultimi di religione musulmana. Entrambi i nomi stanno a significare l’ ‘errare’, cioè riferiti al nomadismo in genere ma, anche, al semplice girovagare o vagabondare, per estensione comprensibili in una realtà nomade indipendente dalla loro origine. Seppure ogni gruppo di quelli citati presenti caratteri fisici e linguistici affini ma diversi all’interno di una stessa etnia, alcuni di essi sono considerati ‘stanziali’ in Scandinavia con il nome Yénische, mentre in Scozia e in Irlanda sono conosciuti col nome Tinkers. Anche se diversi per estrazione sociale e culturale dagli altri gruppi ‘autonomi’ presenti nel resto dell’Europa, sono invece di tipica estrazione zingara quei gruppi che vanno sotto i nomi di: Lautari, Boemi, Tzigani, Gypsies, Gypsy, Gitani, tutti accomunati da uno ‘straordinario’ estro musicale, scaldati dal ‘fuoco’ interiore tipico del musicista che li rende unici, e cioè ‘vibranti di vita’.
Il nome stesso di Zingari, da cui derivano ‘zingaros’, ‘segnor’, ‘egiziani’, raccoglie tutti gli appellativi successivi coniati dal mondo occidentale per dare un nome a un popolo che apparentemente non ne possedeva uno e che, ha assunto a proprio riconoscimento il termine ‘Rom’, fino al più moderno ‘Romano nav’. Pur tuttavia Rom resta il nome che essi si diedero e col quale continuano a chiamarsi ovunque essi si trovino e a qualunque gruppo o famiglia appartengano, da cui il significato di ‘uomo’ per antonomasia. Ogni altro appellativo è da essi rifiutato perché riduttivo o, quantomeno, dispregiativo. Lo straniero, il ‘non zingaro’ è da essi chiamato ‘gorgio, gagio, busnò’, secondo una dicitura ormai sorpassata e attualmente ripristinata in ‘gagi kano nav’, dal più antico ‘gadjé’, da cui quel ‘gagì’ con cui ci sentiamo oggigiorno appellare per strada.
Più recentemente Daniell Soustre de Condat (29) elenca altri nomi tra antichi e nuovi in qualche caso illuminanti, ampliando maggiormente il campo di ricerca. Sotto il nome di Tsigani – che afferma essere il più conosciuto e usato, – egli accoglie Tsignos, Tsingani, Tsiganes, Cingan, Zigenuer,, Zigojenere, Sigoyner, Zigenare, Zingari. Cita, inoltre, gli Astingani da cui i già conosciuti Atsinganos o Atsinkanos in greco-medievale, riferendosii agli Athinganoi, che fa risalire alla setta bizantina detta degli ‘intoccabili’; da cui: Yifti, Yeflos, Giftos, Gitans, Gitanos, Gitani, Gypsies alcuni dei quali non avevamo ancora incontrati. Egli scrive, con una linearità quasi sconvolgente, che: “Oggi, possiamo affermare che la società zingara è una società pluralista. Ma è necessario, quando si afferma un concetto di pluralismo, fare una precisazione, che è quella di guardarla nel suo insieme: gli Zingari.”

Note e riferimenti bibliografici:
(prima parte)
1) Huttin Serge, ‘Civiltà misteriose’, Edizioni Mediterranee, Roma 1974
2) Roerich C. Nicholas, in McLellan A., ‘Agharti, il mondo sotterraneo’, Piemme, Casale Monferrato 1988
3) Guénon René, ‘Il Re del Mondo’, Adelphi, Milano 1977
4) Evola Julius, ‘La dottrina del risveglio’, edizioni mediterranee, Roma 1995
5) Muller Friedrich Max, in McLellan A. (op.cit.)
6) Jacolliot Louis, in McLellan A. (op.cit.)
7) Ossendowski Ferdinand, ‘Bestie, Uomini, Dèi’, Edizioni mediterranee, Roma 1972
8) Saint-Yves D’Alveydre, in D’Amico Roberto ‘Le terre del mito’, MEB Torino 1979
9) Guénon rené (op.cit.)
10) Jung Carl Gustav, ‘Il Simbolismo della Messa’ , Bollati Boringhieri, Torino 1968
11) Gaster Theodor, in Colocci A., ‘Gli Zingari. Storia di un popolo errante’, Arnaldo Forni Ed. ristampa anastatica dell’edizione del 1889
12) Eliade Mircea, ‘Storia delle credenze e delle idee religiose’, Sansoni Firenze 1979
13) De Rakelwiz Boris, ‘Egitto magico e misterioso’, Bollati Boringhier,i Torino 1961
14) Allchin B. e F.R., ‘La preistoria dell’India’, in ‘I popoli della Terra’ vol. XI, Mondadori, Milano 1974
15) Romano Augusto, ‘Musica e Psiche’, Bollati Boringhieri, Torino 1999
16) Di Stefano Giovanni, ‘La vita come musica’, Marsilio, Venezia 1991
17) Jung Carl Gustav, ‘Gli archetipi e l’inconscio collettivo’, Bollati Boringhieri, Torino 1980
18) Tettamanti Angela M., ‘Gli ultimi nomadi’, IGIS, Milano 1982
19) Predari Francesco, ‘origini e vicende degli Zingari’, Milano 1841 e in Colocci A. (op.cit)
20) ‘Popol Vuh’, Einaudi, Torino 1976
21) Spence Lewis, ‘The problem of Atlantis’, Econ Verlag, London 1976
22) Redfield james, ‘Il segreto di Shamballa’, Corbacci Ed., Milano 2000
23) Eliade Mircea (op.cit.)
24) Di Nola Alfonso M., ‘Inchiesta sul Diavolo’, Laterza. Bari 1978
25) Romano Augusto (op.cit.)
26) ‘Vangelo apocrifo di Tommaso’, in ‘vangeli gnostici’, Adelphi, Milano 1984
27) Cozannet Françoise, ‘Mythes et coutumes religieuses des tsiganes’, Pauot, Paris 1973

(seconda parte)

1) Kroeber Alfred L., ‘Antropologia’, Feltrinelli, Milano 1983
2) Netll bruno, ‘Mitologia per capire i popoli’, articolo in ‘Il Corriere Unesco’, anno XXIV n.6 – Giugno 1973
3) Geremek Bronislav (intervista), cit. in ‘Zingari’, Prometeo n.20, Dicembre 1987
4) Netll Bruno (op.cit.)
5) Sfoza-Cavalli Luigi L., articolo in ‘Il Messaggero’, Roma 14 Maggio 2000
6) Darvin Charles, ‘L’origine della specie’, Bollati Boringhieri, Torino 1967
7) Forbes R. J., ‘L’uomo fa il mondo’, Einaudi, Torino 1960
8) Amadu-Hampate Ba, ‘Kaidara’, Rusconi Ed., Milano ...
9) Muller Friedrich Max e Botey Francesco, in McLellan A. (op.cit.)
10) Furer-Haimendorf C. von, ‘I popoli del subcontinente indiano’, in ‘I popoli detta Terra’ vol. XI, Mondadori, Milano 1974
11) Ibidem
12) Allchin B. e F.R., ‘La preistoria dell’India’, in ‘I popoli della Terra’ vol.XI, Mondadori, Milano 1974
13) Furer-Haimendorf, (op.cit.)
14) Vaillant J. Alexander, ‘Histoire vraie des vrais bohémiens’, Peyot, Paris 1857, cit. in Colocci A., (op.cit.)
15) De Vaux de Foletier François, ‘Mille anni di storia degli Zingari’, jaca Book, Milano 1978
16) Bloch Jeles, ‘Les Tsiganes’, Payot, Paris 1969
17) Botey Francesco, ‘Le peuple gitan, une culture folk parmi nous’, Toulose 1971
18) De Vaux de Foletier François, (op.cit.)
19) Lafuente Modesto, in Infante Blas, ‘Origenes de lo Flamenco y Secreto del cante Jondo’, Junta de Andalucia, Consejeria de Cultura, Sevilla 1980.
20) Cimmino Franco, ‘Vita quotidiana degli Egizi’, Rusconi, Milano 1985
21) Montet Pierre, ‘Egitto eterno’, Il Saggiatore, Milano 1964
22) Hammizha ibn Hasan-el Isfalini, in Habib Hassan Touma, ‘La musica degli Arabi’, Sansoni, Firenze 1982.
23) Al-Firdusi, ‘Il libro dei Re’, in De Vaux de Foletier François, (op.cit.)
24) Propp Vladimir, ‘Canti popolari russi’, Einaudi, Torino 1976
25) De Guzman Torquato Perez, ‘Los Gitanos herreros de Sevilla’, Servicio de Publicaciones del Ayuntamiento de Sevilla, Sevilla 1982
26) Bataillard Paolo, ‘Les Tsiganes de l’age du bronze’, Payot, Paris 1876, cit. in Colocci A. (op.cit.)
27) Erodoto, ‘Storie’, Mondadori, Milano 2000
28) De Vaux de Foletier François, (op.cit.)
29) Condat daniell Soustre, ‘Rom una cultura negata’, Edizioni Città di Palermo, Plermo 1997

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