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ZYGMUNT BAUMAN: o la ‘Coscienza Liquida’

Argomento: Filosofia

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 20/10/2015 15:54:23

ZYGMUNT BAUMAN: O LA ‘COSCIENZA LIQUIDA’

«Abbandonate ogni speranza di totalità,
futura come passata,
voi che entrate nel mondo della modernità liquida».

Non c’è nulla di sconveniente né di catastrofico in questa frase coniugata su una indubbia ‘realtà’ nella quale di fatto ci conduciamo abbandonati agli eventi e agli accadimenti che accompagnano il nostro vivere quotidiano. Semmai, una sorta di subalternità cosciente alla vita stessa in contrapposizione con quanto in ‘realtà’ fluidifica nel nostro libero arbitrio e che attribuiamo alla nostra volontà. In contrasto o, se volete, in conflitto con ciò che la ‘materia pensante’ del nostro intelletto sviluppa in termini di ‘scelte’, di concezioni ‘indotte’ forse mai completamente sviscerate nella sostanza, la cui attestazione pregressa sembra aver perso l’iniziale profondità di ‘senso’.

Onde per cui oggi vivere l’istante con seducente leggerezza nel modo in cui vi adempiamo, fa sì che, «..solo i giorni contino nello spazio senza tempo, reso liquido in funzione di una presunta immortalità» cui, irragionevolmente andiamo incontro o, forse, a cui crediamo di andare incontro (?). Ma non è così. Lì dove lo spazio temporale non ha più una base su cui poggiare la materia profonda del ‘senso’, anche l’immortalità perde di senso, «..inclusa la vita»; che, dismesso il suo precipuo ruolo di protagonista dei nostri giorni, assume il volto della ‘maschera’ inerte, capace solo d’una felicità estatica di cui ci rivestiamo, raggiante perché irraggiungibile. Miraggio quindi più che essenza, assenza più che presenza, edonismo gaudente o presunzione di appariscenza più che autentica ‘forma’ dell’essere.

La metafora della ‘liquidità’ dacché Zygmunt Baumam l’ha coniata, ha marcato i nostri anni ed è entrata nel linguaggio comune per descrivere la modernità in cui viviamo: «Individualizzata, privatizzata, incerta, flessibile, vulnerabile, nella quale a una libertà senza precedenti fanno da contraltare una gioia ambigua e un desiderio impossibile da saziare», che ha determinato una svolta, solo apparentemente sconcertante, d’una presunta ‘immortalità’ cui noi tutti tendiamo. Le cause del cambiamento però sono più profonde, radicate nell’abissale trasformazione in cui la società moderna ‘opera e consolida’ se stessa nell’attuale contrapposizione di ‘similitudine e differenza’, il cui procedere ha lo scopo conseguibile del riequilibrio storico che passa dalla modernizzazione dei parametri del passato, a quelli della deregolamentazione e della privatizzazione attuali. Cioè dall’autoaffermazione dell’individuo pur sempre alla ricerca della propria felicità sfuggente, all’interno di una società resa ormai fluida e ad uno ‘stile di vita’ pù confacente.

«La società degli individui plasma l’individualità dei suoi membri e degli individui che danno forma alla società tramite le loro azioni vitali e il perseguimento di strategie plausibili e fattibili all’interno della rete socialmente costruita della loro dipendenza» – avverte Bauman – ma se la società moderna esiste è perché ha ragione di esistere in logica della sua incessante attività di individualizzazione, «..così come le attività degli individui consistono nella quotidiana riformulazione e rinegoziazione della rete degli obblighi reciproci chiamata ‘società’». Per quanto il processo di individualizzazione teorizzato da Ulrich ed Elisabeth Beck si ripresenti oggi all’attenzione sociologica (e psicologica freudiana), ‘..come un evento incessante e interminabile che ha portato alla nascita dell’individuo ‘civilizzato’ nell’opera di modernizzazione continua e incessante, compulsiva e ossessiva’, cui oggi di fatto assistiamo.

«Vivere quotidianamente con il rischio (peso) dell’autocondanna (cui siamo inconsciamente soggetti), e della disistima di sé (di cui siamo soggetti coscienti), non è questione di poco conto, ancorché si tengono gli occhi puntati esclusivamente sulla propria (singola) ‘performance’ e li si distoglie dallo ‘spazio sociale’ in cui le contraddizioni dell’esistenza individuale vengono collettivamente prodotte, (..) al fine di ridurre la complessità delle ‘cause’ della propria miseria intelligibile e renderle dunque affrontabili e suscettibilili di rimedio», alle quali vanno accluse quelle che più condizionano la ‘libertà individuale’ (il libero arbitrio), refrattaria com’è ad assumersi i rischi e le responsabilità che sempre accompagnano ogni forma reale di autonomia e autoaffermazione. «Non può essere certo (solo) questo – aggiunge Baumann – il vero significato del termine ‘libertà’, e se la libertà ‘realmente esistente’, la libertà disponibile significa davvero tutto ciò, non può essere né una garanzia di felicità né un obiettivo per cui valga la pena di lottare».

Ma una sentenza così formulata ha, in ultima analisi, la forza di un anatema che rimette in discussione quanto fin qui posto in evidenza dal ‘libero pensiero’, per cui l’effettiva ‘libertà’ consiste nell’affrancarsi dalle forze fisiche irrazionali alla più razionale ‘forza’ libertaria e individualistica che riconosce nella ‘volontà sociale’ una ‘unità indissolubile’ a cui sottomettere il proprio ‘libero arbitrio’: «Pensare è ciò che fa di noi degli esseri umani (socialmente formati), ma è l’essere umani che ci fa pensare, (..) non è qualcosa che si possa spiegare e non necessita di alcuna spegazione». Dacché l’insostituibile conferma che ha espresso Theodor W. Adorno: “Lesigenza di pensare è ciò che ci induce a pensare”, per quanto il pensiero filosofico di Leo Strauss ci induca a considerare che: “..la filosofia è la ricerca dell’eterno e immutabile ordine entro cui la storia (umana) si dipana e, alla quale, (l’essere umano) è completamente insensibile”.

Per quanto, a quella che qui può sembrare una contraddizione in termini, il libero pensatore Bauman risponde con una delle sue riflessioni più costruttive: «Forse il tempo a disposizione mi è parso troppo breve non a causa della mia ormai veneranda età, ma perché quanto più vecchi si diventa tanto più si impara che, per quanto grandi i pensieri possano sembrare, non lo saranno mai abbastanza da inglobare, e tanto meno trattenere, la munifica prodigalità dell'esperienza umana. Non è forse vero che una volta che è stato detto tutto sulle più importanti questioni della vita umana, rimangono ancora da dire le cose più importanti?» Quasi che, in ultima analisi, si volesse assecondare quanto espresso da Ludwig Wittgenstein nel dire che: “La filosofia lascerebbe tutto com’era (o come è sempre stato); il pensiero nato dalla repulsione (che oggi dimostriamo) per la disumanità della condizione umana, farebbe poco o nulla per rendere tale condizione più umana”.

Tutto ciò ancor oggi che la filosofia ci stupisce e contrasta con la ‘seducente leggerezza del nostro vivere l’istante’ a causa dell’incertezza in cui essa ci ha confinati; proprio oggi che il fluidificarsi delle certezze fin qui acquisite sembra venire meno, lasciando a noi ‘individui sostanziali della realtà liquida’ di galleggiare senza il sotegno dell’acqua. Un po’ come quegli innamorati ‘fluttuanti nell’aria’ cari a Marc Chagall che, non essendo dotati di ali, si aiutano l’un l’altro tenendosi per mano nel sovrastare i tetti e le torri delle città, e allontarsi (forse?) dalle brutture che la società dolente loro incombe. Segno della necessità di un sostegno che la filosofia seppure costantemente ci offre, allo stesso modo altrettanto ci toglie, secondo la prossimità ‘fuorviante’ degli individui cui è soggetta.

E non solo, ma ed anche, di una ricercata solidarietà nel rispetto della libertà che a volte, come esseri umani, pur ci distingue e che non sempre applichiamo in nome di una autonomia individualistica che, «..contrariamente – a ciò che si vuole – può arrecare più pene che gioia». Soprattutto quando opera in conformità con certi «..modelli e standard imposti da forti pressioni sociali (che in ultima analisi ci) risparmiano tale agonia: grazie alla monotonia e alla regolarità di condotta raccomandati, imposti e inculcati (per cui) gli esseri umani sanno quasi sempre come procedere e ben di rado vengono a trovarsi privi di adeguate direttive o finiscono in situazioni in cui occorre prendere decisioni e assumersene la responsabilità senza conoscerne le conseguenze, rendendo così ogni passo, irto di rischi e difficile da calcolare».

Di fatto oggi le ‘soggettività collettive’, «..più postulate che immaginate, potrebbero non essere altro che effimeri prodotti della commedia dell’individualità attualmente in scena anziché forze capaci di determinare e definire (tali) identità». Come anche scrive Lars Dencik: “Le affiliazioni sociali, (conformi alle soggettività collettive), più o meno ereditate, che vengono tradizionalmente attribuite agli individui come definizione di identità – razza, (..) genere, paese o luogo di nascita, famiglia e classe sociale – stanno ora (..) diventando meno importanti, diluite e alterate, nei paesi tecnologicamente ed economicamente più avanzati. Al tempo stesso si assiste a un forte desiderio e a tentativi di trovare o fondare nuovi gruppi che possano dare ai membri un senso di appartenenza e facilitare la fabbricazione di una identità”.

Tuttavia ad una richiesta di ‘libertà responsabile’ corrispondono talune ‘identità e differenze irresponsabili’ preconcettuali insite nelle ‘soggettività collettive’, che la sociologia relazionale di fatto non ha ancora evidenziate e che sono di riferimento dell’individualità politico-sociale dei soggetti che la condividono e in cui si organizzano: “..e questo secondo valori, criteri guida e modalità di gestione tali da realizzare una nuova relazione tra ‘cittadino e uomo’. (..) Si tratta dunque di un ampliamento della stessa sfera della soggettività, che va oltre la mera sfera soggettiva di una imputazione formale di diritti al soggetto, astrattamente inteso come cittadino, per allargare questa sfera alle formazioni associative cui prende parte ed a tutta la sua rete sociale, e cioè ad un insieme di ruoli collegati ai suoi bisogni … di coesione sociale”.

Ne deriva un crescente sentimento di insicurezza sulla scena contemporanea – afferma inoltre Bauman, per il quale «..l’identità è oggi come un vestito che si usa finché serve: sessuale o politica, religiosa o nazionale è precaria come tutto della nostra vita, di là dalla nostra intelligenza e immaginazione. (..) Il nostro mondo liquido-moderno è in continua trasformazione. Tutti noi – volenti o nolenti, consapevoli o no, che ci piaccia o meno – veniamo trascinati via senza posa, anche quando ci sforziamo di ‘calcolare l’incalcolabile’ o di rimanere immobili nel punto in cui ci troviamo». “Trattasi di una «grande trasformazione» – avverte Benedetto Vecchi (nella premessa a ‘Intervista sull’identità’ di Bauman), coinvolgente tutti gli ordinamenti interstatali, dalla condizione lavorativa alle soggettività collettive, al rapporto tra l’io e l’altro, alla produzione culturale e la vita quotidiana di uomini e donne.”

Tuttavia, mentre l’ormai influente sociologo ci mostra una società che respinge la stabilità e la durata di questa continua debacle, che preferisce l’apparenza alla sostanza, «..in cui il tempo si frammenta in episodi, in cui la salute diventa ‘fitness’, la massima espressione della libertà è lo ‘zapping’, dalle macerie del vecchio ordine politico bipolare sembra emergere solo un nuovo disordine mondiale e l’economia invoca la ‘deregulation’ universale, (..) le figure emblematiche che abitano questo traballante universo (di individui che siamo noi), sono il giocatore (in borsa e alla lotteria), il turista, lo sdradicato, (“Il giovane sdraiato” di Michele Serra e “L’ospite inquietante” di Umberto Galimberti), il collezionista di sensazioni, ma soprattutto, lo straniero». Il mondo, questo nostro mondo, continua così ad andare avanti, e per fortuna (dico io), il bisogno di pensare non è venuto ancora meno. Occorre però trovare delle risposte immediate, promuovere maggiore consapevolezza negli individui.

È lo stesso Bauman a fornirci quella che al dunque sembra la risposta più logica e la più scontata: «Per impedire che l’uomo diventi presto uno straniero anche a se stesso occorre forse guardare ad altre strategie di vita: nel distinguere nella sostanza e nei modi il nostro parlare dei ‘sentimenti’ (sociali: moralità pubblica e politica in Stefano Rodotà) e delle ‘passioni’ (sociali: democrazia e libertà in Erich Fromm) – ad esempio – per altri versi essenzialmente simili in quanto “Cose che abbiamo in comune” (dal titolo di un altro libro di Bauman). E delle loro conseguenze comportamentali e politiche che contano e incidono sulla qualità della coabitazione umana, non le parole che usiamo per raccontarli»; poiché – come direbbe Claude Lévi-Strauss – “..costruirsi un’identità è un lavoro da bricoleur, che crea ogni sorta di cose col materiale a disposizione”.

«Ciò tuttavia non significa – avverte Bauman – che la nostra società abbia soppresso il pensiero critico in quanto tale. Né ha reso i propri membri reticenti (e ancor meno timorosi) a dargli voce. Semmai, è vero il contrario: la nostra società – una società di ‘liberi individui’ – ha reso la critica della realtà, la disaffezione verso ‘ciò che è’ e l’eplicitazione di tale sentimento, parte al tempo stesso inevitabile e obbligatoria della vita di ogni suo singolo membro». Quella stessa che Norbert Elias ha definito: “La società che plasma l’individualità dei suoi membri e gli individui che danno forma alla società tramite le loro azioni vitali e il perseguimento di strategie plausibili e fattibili all’interno della rete socialmente costruita della loro (stessa) indipendenza”. E che Bauman concludendo ha così sintetizzato: «Per dirla in breve, il processo di ‘individualizzazione’ consiste nel trasformare ‘l’identità’ umana da una ‘cosa data’ in un ‘compito’ (una missione che ognuno è chiamato a svolgere), e nell’accollare ai singoli attori la responsabilità di assolvere, nonché delle conseguenze (anche collaterali) delle loro azioni».

«Dacché, incalza Bauman, l’unica, ma formidabile differenza tra il punto di partenza e d’arrivo di questa ampia ‘deviazione’ è che ora, alla fine del tragitto, abbiamo perso le illusioni ma non le ‘paure’. Abbiamo cercato di allontanare quest’ultime esorcizzandole senza esserci riusciti; con questo tentativo siamo riusciti soltanto ad accrescere la somma degli orrori che chiedono a gran voce di essere affrontati e allontanati». E, poiché «temiamo ciò che non siamo capaci di gestire, chiamandola ‘incapacità di comprendere’; ne viene che ciò che non siamo in grado di gestire ci è ‘ignoto’ e l’ignoto è forse quello che più ci fa paura: «La più orribile tra le paure sopraggiunte è quella di non poter evitare la paura né di poter sfuggire ad essa». Per poi aggiungere lapidario: «La paura è un altro nome che diamo al nostro essere senza difese».

Non a caso Giuseppe Galasso, in un articolo apparso sul “Corriere della Sera”, ha definito questa analisi di Bauman di non comune interesse: “minuziosa e impressionante”, in ragione del suo prevedere l’insinuarsi della ‘paura’ per effetto della ‘globalizzazione negativa’, per cui si può affermare, in aggiunta ai fattori precedentemente indicati, la ‘discontinuità’ che ha reso visibile la forza spaventosa di quella che possiamo definire come la sfera dell’ignoto, dell’incomprensibile, dell’ingestibile. “Finora – egli scrive – questa fatidica novità è stata indicata con il termine semplificativo di ‘globalizzazione’ come effetto positivo, benché non si sia tenuto conto degli aspetti negativi che vi si nascondono. (..) Una ‘globalizzazione’: incontrollata, non completata né compensata da una versione ‘positiva’ che, nel migliore dei casi, è ancora una prospettiva lontana o, secondo alcune previsioni, è già una vana speranza”.

Il carattere ‘aperto’ (‘liquido’ secondo Bauman) della nostra società, ha acquisito in questi ultimi anni un lustro nuovo in cui: «L’illegalità globale e la violenza armata si alimentano e si rafforzano reciprocamente. La globalizzazione del male e del danno si ripercuote nel rancore e nella vendetta globale». Affermazione che Karl Popper, inventore dell’espressione “globalizzazione negativa”, non avrebbe osato neanche sperare: “.. (quindi) non più prodotto prezioso, fragile di sforzi coraggiosi, faticosi di autoaffermazione, ma destino ormai irresistibile creato dalla pressione di formidabili esterne, (effetto secondario della globalizzazione negativa), vale a dire della globalizzazione altamente selettiva dei commerci e dei capitali, della sorveglianza e dell’informazione, della coercizione e delle armi – il crimine e il terrorismo, tutti fenomeni che ormai disprezzano la sovranità territoriale e non rispettano alcun confine”.

«Per la grande maggioranza degli abitanti di un mondo di modernità liquida, atteggiamenti come la preoccupazione per la coesione, l’adesione alle regole, il giudicare sulla base dei precedenti e il restare fedeli a una logica di continuità invece di fluttuare sull’onda di opportunità mutevoli e di breve durata, non sono opzioni promettenti. Se vengono adottati da qualcun altro (di rado volontariamente, se ne può star certi!), vengono prontamente bollati come sintomi di deprivazione sociale e stimmate di insuccesso nella vita, di sconfitta, di scarso valore, di inferiorità sociale. (..) La contrapposizione, in ultima analisi, (..) almeno quella che precede i pensieri e le scelte dei singoli individui, sta nei prodotti e nei sedimenti collaterali alle scelte umane che, (..) in linea di principio possono dall’uomo essere disfatti», proprio a causa di una ‘nozione senza senso’ che li trasfrorma di fatto in ‘danni collaterali’, imprevedibili quanto inaccettabili, per cui «l’identità – sarà bene esser chiari su questo punto – è un concetto fortemente contrastato».

Siamo dunque di fronte a un ulteriore paradosso della ‘modernità-liquida’ – scrive Bauman, eppure, contrariamente all’evidenza obiettiva, «..ci si sente (e in realtà lo siamo) maggiormente esposti alle minacce, più insicuri e spaventati, più inclini al panico e molto più interessati a tutto ciò che possa essere messo in relazione con la sicurezza e incolumità. (..) Tuttavia sembrano esserci vie d’uscita», anche se l’apertura mediatica del sociologo sembra andare verso una direzione univoca e imprescrittibile: «Sfuggiti a una società forzatamente aperta dalla pressione delle forze della globalizzazione negativa, il potere e la politica vanno sempre più alla deriva in direzioni opposte. La sfida fondamentale (il rischio) che questo secolo dovrà affrontare è, con ogni probabilità, quello di rimettere insieme potere e politica; e il compito che probabilmente dominerà l’agenda del secolo, sarà la ricerca di un modo per realizzare tale obiettivo. (..) La democrazia e la libertà non possono più essere assicurate soltanto in un solo paese o in un gruppo di paesi; difenderle in un mondo saturo di ingiustizia e abitato da milioni di esseri umani cui è negata la dignità corromperà inevitabilmente gli stessi valori che essa intende proteggere. Il futuro della democrazia e della libertà dev’essere messo al sicuro su scala planetaria, o non lo sarà affatto».

Non è questa l’unica avvertenza lanciata da Bauman nelle pagine intense del suo libro “Paura liquida”, che vanno lette secondo una specifica propensione nel trovare ‘soluzioni’ ai problemi che ci assillano; acciò nella speranza del ravvedimento contro la crescente ‘paura’ che i nostri comportamenti vanno disseminando e che finiscono per sradicare le nostre ‘radici’ umane, renderci orfani di quella ‘collettività’ economico-politico-religiosa che, nel giusto o nell’errato, abbiamo contribuito a formare, e che dobbiamo (c’incorre l’obbligo) continuare a migliorare. «Il secolo che viene può essere un’epoca di catastrofe definitiva – lo dicono le vicende politiche in atto e la ‘paura’ di una guerra totale che minaccia la sopravvivenza del nostro pianeta – o, che può essere un’epoca in cui si stringerà e si darà vita a un nuovo patto tra intellettuali e popolo, inteso ormai come umanità. Speriamo di poter ancora scegliere tra questi due futuri»:

«L’uomo nel suo breve soggiorno sulla terra è uguale a Dio nella sua eternità».

Che sia scongiurato il pericolo di incorrere in una qualche ‘apologia di sistema’ lo conferma una importante teoria metaetica nota come ‘critica al relativismo morale’ o come meglio specificata ‘critica morale delle società’ che tuttavia non sembra lasciare spazio ai valori centrali di alcuna società. “Se i giudizi morali si definiscono in relazione ai valori centrali di una società – scrive Nigel Warburton – nessuna critica di tali valori può servirsi di argomenti morali contro di essi, (..) per cui tutte le affermazioni etiche (morali) sono letteralmente prive di significato”. In realtà esse non esprimono alcun fatto, ma sono semplicemente espressioni di emozioni. “Siamo pertanto davanti a una realistica ‘impossibilità della argomentazione morale’ – procede Warburton – in quanto solo quando vengono formulati giudizi morali veri e propri che la discussione (in atto) si trasforma nell’espressione priva di significato emozionale. (..) Una concezione, come quella kantiana, secondo cui i giudizi morali sono validi per tutti – sono cioè impersonali –, fornisce agli individui buone ragioni per attenenrsi a un codice morale comunemente accettato”. (..) Per quanto questo argomento costituisca solo una teoria filosofica, Warburton tuttavia fornisce un’indicazione dei pericoli che incomberrebbero sulla società allorché l’ ‘emotivismo’ fosse largamente accettato, “..il che è una questione diversa da quella della sua verità”.

Nel contesto ‘liquido-moderno’ innescato dal sociologo Bauman, il pensiero metodologico rincorre la ‘paura’ e ne sviscera i numerosi aspetti, fin dalla sua origine (la paura della morte e la paura del male), alla dinamica d’uso (volontà e necessità della paura); dall’orrore dell’ingestibile (precarietà e insicurezza come derivati della paura), al terrore globale (problematicità e catastrofismo insiti nella paura); arrivando, nella sua efficace analisi, a proporre i ‘rimedi’ o, perlomeno, le precauzioni e i suggerimenti per affrontare quelle che sono le ‘paure’ più diffuse, che egli ritiene nate e alimentate dalla nostra ‘costante insicurezza’. Di fatto, nei due capitoli finali “Far affiorare le paure” e “Il pensiero contro la paura”, egli mette in evidenzia il paradosso di una «..conclusione provvisoria per chi si chieda che fare (?)».

Tuttavia lo schema cui Bauman affida le possibilità di una presumibile risoluzione delle ‘paure’ non è dimostrativo, bensì ‘conoscitivo’, in quanto discopre alla ragione quanto c’è nel substrato umano di tipo psicologico, le cui certezze sono messe a rischio dal continuo mutare delle ‘paure’ cui andiamo soggetti, anche a nostra insaputa: dal ‘millenium bag’ alla febbre ‘aviaria’ o la ‘mucca pazza’; dalla minaccia del ‘buco nell’ozono’ alla ‘sofisticazione alimentare’ o la ‘guerra batteriologica’ la cui capacità distruttiva potrebbe mettere a dura prova la sopravvivenza umana. Ma queste sono soltanto le grandi calamità, più o meno vicine che apprena denunciate ci riportano alle apocalissi bibliche ancora di là da venire. In verità, non c’è niente di ‘apocalittico’ in Bauman, se non il metterci di fronte alle nostre ‘paure’ più prossime riguardanti il presente e la nostra capacità di ‘sopravvivenza’ economico-sociale, culturale e politica prossima futura.

I riferimenti sono per lo più alle nostre ‘paure’ quotidiane: «I mezzi sono i messaggi. Se le carte di credito e i libretti di risparmio ispirano certezza nel futuro, un futuro incerto reclama a gran voce un futuro degno di fiducia. (..) Un futuro che certo arriverà e che, una volta giunto, non sarà tanto dissimile dal presente (..) che darà valore a ciò cui noi diamo valore (..) prosperando sulla speranza / aspettativa / fiducia che, grazie alla continuità tra il presente e il futuro, farà la differenza, determinerà la forma del futuro». Ciò non deve sorprendere: «..possiamo preoccuparci solo delle conseguenze indesiderabili che siamo in grado di prevedere, e soltanto queste possiamo cercare di evitare. (..) Dobbiamo tuttavia notare che la ‘calcolabilità’ (di rischio) non significa prevedibilità ciò che si calcola è solo la ‘probabilità’ che le cose vadano male e che sopraggiunga il disastro. Il calcolo delle probabilità dice qualcosa di affidabile sulla distribuzione degli effetti di un gran numero di azioni simili, ma è quasi inutile come mezzo di previsione quando lo si impiega (alquanto impropriamente) per orientarsi in una specifica impresa».

Un ossimoro che mi sento di cogliere in Bauman è senz’altro il seguente: «L’incomprensibile è diventato normale». Con ciò egli mette in luce un aspetto della ‘paura’ tutt’ora sotterraneo, scaturito dalla sindrome spaventosa della ‘catastrofe personale’ per cui si teme di essere presi ‘a bersaglio’, di essere personalmente distrutti «..per essere lasciati indietro, di essere esclusi. (..) Che simili paure siano tutt’altro che immaginarie, lo si desume dalla preminente autorità dei mezzi di comunicazione, fautori – visibili e tangibili – di una realtà che non si riesce a vedere né a toccare senza il loro aiuto. Acciò potremmo dire che la Bibbia si è ridotta al solo “Libro di Giobbe” – prosegue Bauman – mettendoci sull’avviso che tutte le favole morali (che ci vengono inculcate) in verità agiscono seminando paura. Ma, mentre le favole morali di ieri servivano a redimere le minacce che le generava “per vivere una vita senza paura”»; quelle di oggi (al contrario) sembrerebbero rinchiudere l’ ‘identità’ fra le sbarre di una gabbia provvisoria in cui la condizione umana è rimasta senza alcuna ‘eternità’ (senso) di riferimento.

Una critica a Bauman, semmai la si volesse elevare sul piano teorico, potrebbe riguardare proprio la questione metaetica della moralità articolata sul principio di ‘comunità’, in quanto formata da persone vincolate da leggi morali, di esseri razionali che scelgono di vivere nel mutuo rispetto e che più spesso sono capaci di risolvere, (o almeno dovrebbero), le dispute attraverso il negoziato e l’accordo. “Kant ci dice – rammenta Roger Scruton – che dobbiamo agire ‘basandoci sulla massima che possiamo volere come legge per tutti gli esseri razionali’; dobbiamo trattare gli esseri razionali come fini e mai solo come mezzi; dobbiamo agire in vista del ‘regno dei fini’, in cui vengano conciliati tutti gli scopi razionali. Questi principi altamente astratti (che Kant chiama ‘formali’) sono meno significativi della procedura che implicano. Le persone hanno un solo e prezioso mezzo per risolvere i loro conflitti – un mezzo precluso al resto della natura. Infatti, sono in grado di riconoscersi a vicenda come esseri liberi, che si assumono la responsabilità delle loro decisioni, e che possiedono diritti e doveri rispetto alla loro specie”.

In “Il diritto di avere diritti” - scrive Stefano Rodotà: “Il diritto individuale alla ricerca della verità attraverso le informazioni, chiarisce bene quale sia il significato della verità nelle società democratiche, che si presenta come il risultato di un processo di conoscenza aperto, che lo allontana radicalmente da quella produzione di verità ufficiali tipica dell’assolutismo politico che vuole invece escludere la discussione, il confronto, l’espressione di opinioni divergenti, le posizioni minoritarie”. Polemica a parte, si apre qui una tematica ‘altra’ sulla conoscenza come funzione della trasmissione del sapere (critico) e della formazione (al settore produttivo) e che Rodotà distingue come materia costituzionale, che sancisce: “il diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee con ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”, a sua volta ripreso dall’articolo 19 della “Dichiarazione universale dei diritti umani” emanata dall’Onu.

Tematica che ritroviamo anche in quanto affermato da Zygmunt Bauman che in “Modernità liquida” la oppone alla ‘modernità solida’ durkheimniana come atto finale: «..sotto la cui protezione trovare riparo dall’orrore della propria transitorietà». Ed è proprio la ‘transitorietà’ (della vita) – secondo il mio modesto parere – a rimettere in discussione il concetto primario di ‘bene’ inteso come entità discriminante, rifugio ultimo e santuario di una continuità che supera i limiti tracciati dalla selettività naturale, per cui ciò che è ‘bene comune della conoscenza’ porta la conseguenza inalienabile della sostenibilità futura per la ricerca, la sperimentazione, la progettazione, la promozione, i sistemi formativi, l’utilizzo delle risorse comunicative, nella prospettiva d’una fattibile economia globale. Spetta dunque ai ‘processi formativi’ contribuire a formare il know-how necessario alla conoscenza e divulgare le competenze richieste, come processo che non si esaurisce nello spazio e nel tempo dell’apprendimento tradizionale dello sviluppo individuale del ‘bene come mezzo’, bensì è attivo nel riaffermare l’importanza della conoscenza nella prospettiva del ‘bene’ come ‘fine’ ultimo del ‘libero accesso’.

Va con sé che un argomentare così fatto richiede una qualche introduzione esplicativa di ciò che finora è stato sotteso, cioè il ‘diritto alla libertà’ di pensiero, di parola, di verità intellettuale, a fronte di una deontologia che per sua natura include l’etica, la moralità, norme e regole che danno forma a una ‘conoscenza’ compiuta e definitiva, che va intesa come ‘bene assoluto’, incondizionato, creativo, formativo, improcrastinabile del benessere sociale, sotto la suprema direzione della ‘volontà’ (generale), capace da sola, di trasformare la ‘legge’ (che la governa) nell’unico spazio in cui la ‘libertà’ si concretizza. “Se non fosse così – aggiunge Roger Scruton – la ‘legge morale’ così come Kant la chiama, cesserebbe di adempiere al suo proposito, che è quello di riconciliare gli individui in una società di stranieri. (..) La legge morale ha un carattere assoluto. I diritti non possono essere calpestati arbitrariamente o soppesati in relazione a un eventuale vantaggio di ignorarli. I doveri non possono essere trascurati altrettanto arbitrariamente, o cancellati dai cattivi risultati della dovuta obbedienza”.

Pensando in questi termini, riconosciamo ogni persona come membro insostituibile e autosufficiente dell’ordine morale: “I suoi diritti, doveri e responsabilità sono cose che l’essere umano possiede in quanto persona, e solo in quanto ciò può adempiere o rinunciare ad essi, e solo lui può essere chiamato a dar conto dei doveri che ha eventualmente trascurato”. Del resto le favole morali del nostro tempo – avverte ancora Bauman – sono tendenzialmente impietose, e non promettono alcuna redenzione: «Irreparabile.. irrimediabile.. irreversibile.. irrevocabile.. senza appello.. il punto di non ritorno.. il definitivo.. l’ultimo.. la ‘fine di tutto’ Esiste uno e uno solo evento cui si possano attribuire a pieno titolo tutte queste qualificazioni nessuna esclusa, un solo evento che renda metaforico ogni altro loro impiego, l’evento che conferisce a quei termini il loro significato primario, incontaminato e non diluito».

«Quell’evento è la ‘morte'. (..) La morte incute paura per via di quella sua qualità diversa da ogni altra: la qualità di rendere ogni altra qualità non più superabile. Ogni evento che conosciamo o di cui siamo a conoscenza – ogni evento, eccetto la morte – ha un passato e un futuro. Ogni evento – eccetto la morte – reca una promessa, scritta con inchiostro indelebile anche se a caratteri piccolissimi, secondo cui la vicenda «continua». (..) Soltanto la morte significa che d’ora in poi niente accadrà più, niente potrà accadere, niente che possa piacere o dispiacere. È per questa ragione che la morte è destinata a restare incomprensibile a chi vive, e anzi non ha rivali quando si tratta di tracciare un limite realmente invalicabile per l’immaginazione umana. L’unica e la sola cosa che non possiamo e non potremo mai raffigurarci è un mondo che non contenga noi che ce lo raffiguriamo».

«La natura provvisoria di qualsivoglia identità e di qualsivoglia scelta tra l’infinita moltitudine di modelli culturali a disposizione non è stata ancora scoperta, né tantomeno inventata (..) L’idea che nulla, nella condizione umana, venga dato una volta pre tutte e senza il diritto di appellarsi ed emendare, che tutto ciò che è debba prima essere ‘fatto’ e una volta fatto possa essere modificato all’infinito, ha accompagnato l’età moderna fin dal suo inizio: in effetti, il cambiamento ossessivo e compulsivo (chiamato ora modernizzazione), ora ‘progresso’, ora ‘miglioramento, ora ‘sviluppo’ ora ‘aggiornamento’) è l’essenza del moderno (nostro) modo di essere. Cessi di essere ‘moderno’ non appena smetti di ‘modernizzare’, non appena metti giù le manie smetti di armeggiare con ciò che sei tu e ciò che è il mondo che ti sta intorno»:

«Non viviamo alla fine della storia, e nemmeno all’inizio della fine. (..) Nessuno ha un diritto di prelazione sulla storia».

«Siamo qui all’inizio di un’altra grande trasformazione: le forze globali sguinzagliate e i loro ciechi e dolorosi effetti devono essere messi sotto controllo democratico popolare e obbligati a rispettare e osservare i principi etici della coabitazione umana e della giustizia sociale. Ciò di cui, però, si può essere ragionevolmente sicuri, è che tali forme, per svolgere il ruolo che si propongono, dovranno dimostrare di essere capaci di innalzare la nostra identità a livello planetario, al livello dell’umanità. (..) La capacità di autoaffermazione dell’uomo individualizzato è (decisamente) inferiore ai requisiti necessari per conquistare una reale autocostituzione. Come ha anche osservato Leo Strauss, l’altra faccia della libertà illimitata (che ci siamo costruiti indossando la maschera) è l’irrilevanza della facoltà di scegliere che ci è data. (..) I due elementi – come si può ben comprendere – per sorte non sono comulabili, non sono aggregabili in una causa comune. (..) Potremmo dire che non sono conformati sin dall’inizio in modo tale da non disporre delle interfacce necessarie a connettersi con le altrui irresponsabilità. (..) ma ciò che di più (l’individuo) impara dall’altrui compagnia è un unico consiglio su come sopravvivere nella propria irrimediabile solitudine, e che la vita di ognuno è irta di rischi che vanno affrontati e combattuti da soli».

Nessuno intende, tuttavia, negare il significato intrinseco delle parole, tantomeno ciò è concesso alla filosofia che mette in atto le differenze in campo retorico, né le sue ripercussioni pratiche sul piano della ‘vita’ che, nella visione ‘liquida’ di Bauman espressa in “Amore liquido” vede perfino i legami affettivi come esempio di fragilità costante, una mutevole forma di ‘modernità’ che si mette e rimette in discussione: «La solitudine (nei rapporti umani) – scrive Bauman – genera insicurezza ma altrettanto fa la relazione sentimentale. In una relazione, ci si può sentire insicuri quanto senza di essa, o anche peggio. Cambiano solo i nomi che ognuno da alla propria ansia, ai propri dubbi, alle proprie paure di restare impigliati in relazioni stabili che, si teme, comportino oneri che non si vogliono né si pensa di poter sopportare».

«Oggigiorno quello delle ‘relazioni’ è l’argomento sulla bocca di tutti, ed evidentemente l’unico gioco cui valga la pena di partecipare, nonostante i noti rischi che comporta». Sta di fatto che siamo tutti adusi a confezionare amicizie, legami, aggregazioni comunitarie ecc. In realtà – prosegue Bauman – tuttavia, quasi a voler seguire la regola di Martin Heidegger, «..le cose si rivelano alla nostra coscienza solo attraverso la frustrazione che provocano – allorché si disgregano, svaniscono, tradiscono le nostre aspettative o la propria natura, oggigiorno l’attenzione dell’uomo tende a incentrarsi sulle soddisfazioni che le relazioni si spera arrechino proprio perché per qualche verso non sono state ritenute pienamente e realmente soddisfacenti; e qualora invece soddisfino appieno, si scopre spesso che il prezzo di tale appagamento è eccessivo e inaccettabile».

Non sorprende quindi che le ‘relazioni’ (fra individui) siano uno dei principali motori dell’odierno «boom delle consulenze. (..) La complessità è troppo densa, troppo ostica, troppo difficile da sbrogliare perché gli individui possano farcela da soli – sostiene Bauman – citando Platone: “Amare significa desiderare di ‘generare e procreare’, e dunque chi ama ‘quando si avvinina al bello diviene ilare, e nella sua letizia si effonde e procrea e genera’. In altre parole, non è nella brama di cose pronte per l’uso, belle e finite, che l’amore trova il proprio significato, ma nello stimolo a partecipare al divenire di tali cose. L’amore è simile alla trascendenza; non è che un altro nome per definire l’impulso creativo e in quanto tale è carico di rischi, dal momento che nessuno può mai sapere dove andrà a finire tutta la creazione.”

«Esistono fondati motivi per considerare l’amore, e in particolare lo stato di ‘innamoramento’ come una condizione – quasi per sua natura – ricorrente, soggetta a ripetesi o che addirittura solleciti ripetuti tentativi: “L’amore sembra godere di uno status diverrso rispetto agli altri eventi irripetibili ... È insito nella natura dell’amore il fatto che – come Lucano osservò duemila anni fa e Francis Bacon ripeté molti secoli dopo – esso non possa che significare il consegnarsi in ostaggio al destino”. Quella di imparare l’arte di amare è la promessa (falsa, ingannevole, ma che si spera ardentemente essere vera) di rendere l’ ‘esperienza dell’amore’ (..) simile ad offrirsi quale incognita nelle equazioni dell’altro. È questo che fa percepire l’amore come un capriccio del destino: quello strano e misterioso futuro, impossibile da predire, prevenire o evitare, accelerare o arrestare. Amare significa offrirsi a quel destino, alla più sublime di tutte le condizioni umane, una condizione in cui paura e gioia si fondono (e si equivalgono) in una miscela che non permette più ai suoi ingredienti di scindersi. E offrirsi a quel destino significa in ultima analisi, l’accettazione della libertà nell’essere: quella libertà che è incarnata nell’Altro, il compagno in amore.»

Come anche afferma Erich Fromm: “La soddisfazione, nell’amore individuale, non può essere raggiunta senza la capacità di amare il prossimo con umiltà, fede e coraggio”. Tuttavia pensatori come Fromm, Bauman, Freud, Jung, Cuomo, ma già Platone, Eraclito, Aretino, Voltaire, Schiller, Wilder, Heidegger, Hillman e tantissimi altri, non potrebbero andare oltre il significato intrinseco al ‘destino’ se non si torna a considerare ‘l’atto d’amore’ come ‘atto di fede’, in quanto ‘dono’ ricevuto in ‘assenza di costrizione’, vale a dire in ‘assenza di contratto’, di ‘coercizione’, che non richiede nulla in cambio, “tranne un appagamento personale che è uno dei momenti dell’atto di donare” (Marcel Mauss). A cui va aggiunto il reciproco ‘incondizionato’ scambio d’amore non mercificatorio, bensì naturale di un sentimento che si rinnova, che ci ritorna santificato dal ‘senso’ di libertà con cui è ricambiato. Per quanto è più il poeta ‘ante-litteram’ e non il filosofo, chiamato a restituire all’ ‘atto d’amore’ il suo significato intrinseco di ‘conflitto interiore’, impegnato permanentemente nel trovare l’equilibrio necessario nel rapporto confidenziale. Quell’autocontrollo (gratificante) che porta a superare le eventuali criticità che possono occorrere e tornare a soddisfare il piacere nel fare felice l’altra persona con reciproca ‘gratitudine’.

È questa una disposizione d’animo, ahimé oggi in disuso, che comporta affetto (che di per sé è già amore) e di cui abbiamo perso il ‘senso’ e che, altresì, va ritrovato quando si parla del ‘dono’ in quanto beneficio ricevuto. Ma ‘gratitudine’ è anche sinonimo di ‘riconoscenza’ e per questo vale indicarla alla stregua di un sentimento più intimo che lo rende indubbiamente una delle espressioni più evidenti della capacità di amare: “Forse la gratitudine è il parametro della grandezza umana” – scrive Adolfo L'Arco che la considera un sentimento positivo che rende felici ed aperti alla vita, uno stato d’animo che ci spinge ad offrire apertamente la nostra riconoscenza. Numerosi studi di ‘psicologia positiva’ hanno dimostrato che le persone orientate alla gratitudine sono più vitali, ottimiste, empatiche e sperimentano più spesso emozioni come gioia, meraviglia ecc. e che esprimere la ‘gratitudine’ non è solo la comunicazione di un sentimento, ma uno dei tratti della personalità più legati al benessere psicologico.

Un ritorno dunque alla ‘morale comune’ in cui il tema del ‘dono’ è assunto come valore sociale di ‘libero scambio’: frutto di ricerca, altruismo, fratellanza, solidarietà tra gli individui ma, ed anche, (come si è detto) di liberalità, purché animate dai più puri sentimenti. “Ma non basta constatare il fatto è necessario ricavarne un atteggiamento pratico, un precetto morale. (..) Solo opponendo la ragione al sentimento e imponendo la volontà di pace contro le improvvise follie che i popoli giungono a sostituire alla guerra, all’isolamento e alla stasi, l’alleanza” – scrive Marcel Mauss nel noto “Saggio sul dono” – restituendo ad esso il valore intrinseco di reciproco scambio d’affetto. Lo stesso significato che nell’idea di Gotthold Ephraim Lessing, è divenuto a suo tempo, (XVIII sec.), di mistica rilevanza: “Un singolo pensiero di gratitudine innalzato al cielo è la preghiera più perfetta”. E che Zygmunt Bauman, nostro contemporaneo, ha ben definito nel suo “L’arte della vita”, trasferendolo nella ‘felicità’ nel nostro mondo liquido-moderno:

«Siamo felici finché non perdiamo la speranza di essere felici in futuro. Ma la speranza può rimanere viva solo a condizione di avere davanti a sé una serie di nuove occasioni e nuovi inizi in rapida successione, la prospettiva di una catena infinita di partenze. (..) La nostra vita è un’opera d’arte, che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no.» A cui mi sento a ragione di aggiungere “che lo vogliamo o no”, facendo eco a Bauman nel dire: «Dobbiamo tentare l’impossibile». Ciò che nel contesto generale del discorso fin qui avanzato può sembrare un ossimoro il cui contrasto non è solo nelle allocuzioni usate, bensì nei concetti espressi. Tuttavia è lo stesso Bauman ha darci la dimensione esatta di ciò che egli intende in riferimento al ‘mondo-liquido’ di cui è ideatore e artefice: «È una vita emozionante e logorante: emozionante per chi ama le avventure, logorante per chi è debole di cuore.» (..) Ognuno può decidere da sé «..la coercizione a cercare la felicità nella forma praticata nella nostra società.»

Dov’è il confine tra il diritto alla felicità e l’amore? – si chiede Ivan Klìma – sostenendo che si può paragonare proprio a un’opera d’arte: “Anch’essa richiede all’artista immaginazione, grande concentrazione, la combinazione di tutti gli aspetti della personalità umana, spirito di sacrificio e libertà assoluta (?). Ma, soprattutto, come la creazione artistica, l’amore richiede azione, ossia attività e condotta non routinarie, costante attenzione alla natura intrinseca del proprio partner, sforzo per comprendere l’individualità e rispetto. Inoltre richiede tolleranza, la consapevolezza che non si possono imporre i propri punti di vista e ideali al compagno o alla compagna, né ostacolarne la felicità.” Al quale Bauman risponde: «Tracciare questo confine con precisione può essere doloroso, ma di una cosa possiamo essere certi: quel confine, ovunque sia, viene violato nel momento in cui l’atto di stringere e sciogliere legami è dichiarato moralmente indifferente e neutro, sollevando a priori gli attori dalla responsabilità delle reciproche conseguenze di ciò che fanno: da quella stessa responsabilità incondizionata che l’amore promette, nella buona e nella cattiva sorte, e che lotta per costruire e conservare».

"Ogni vita non vissuta rappresenta un potere distruttore e irresistibile che opera in modo silenzioso e spietato" – scrive Carl Gustav Jung – in un suo saggio famoso. Ecco che allora la ricerca della felicità, cui si è accennato all’inizio di questo lungo confronto d’idee, spiazza il campo da ogni sovrastruttura per lasciarci nuovamente soli a contemplare qualcosa che pensiamo non ci sia dato: «È per questo che una felicità ‘autentica, adeguata e totalizzante’ sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi: come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarsi ad esso. (..) La felicità – per richiamare la diagnosi di Kant – non è un ideale della ragione, ma dell’immaginazione.» Ciò che ci da l’esatta dimensione del valore del ‘dono d’amore’ che abbiamo ricevuto in seno a tanta ‘bellezza’; e che Franco Rella in “L’enigma della bellezza” destina altrove, in quel mondo mitico dal quale noi tutti (forse) proveniamo.

«L’amore – (e con questo riaffermo quanto già espresso da Bauman) – possiamo concludere, non promette di raggiungere facilmente la felicità e il senso. Bensì è qualcosa che richiede di essere creato e ricreato ogni giorno, ogni ora; (..) che ha bisogno di essere costantemente risuscitato e riaffermato e richiede attenzioni e cure.» E che, quantomeno, dovrebbe essere cosciente in noi, in quello spirito creativo che ci accompagna durante tutto il tempo della nostra vita, e che ci permette di scoprire come, anche in questo ‘mondo-liquido’ in cui viviamo, si annidino embrioni fecondi di abbondanza d’intenti, ricchezza di valori, prosperità d’amore, inteso come condizione più o meno stabile di soddisfazione incondizionata:

“.. onde per cui la vita è sul nascere
veritiera promessa d’amore
. . .
il dono più grande.” (G.M.)



Testi di Zygmunt Bauman utilizzati in questo saggio:

“La società dell’incertezza”, Il Mulino - 1999
“Modernità liquida”, Edit. Laterza 2002 - (ristampa 2015)
“Amore liquido”, Edit. Laterza - 2003
“Intervista sull’identità”, a cura di B. Vecchi, Edit. Laterza - 2003
“Paura liquida”, Edit. Laterza – 2006
“L’arte della vita”, Edit. Laterza - 2008
“Cose che abbiamo in comune”, Edit. Laterza – 2010

Autori citati nei testi:

Platone, Lucano, Eraclito, Aretino, Francis Bacon, Voltaire, Schiller, Verdi, Wilder, Freud, Jung, Cuomo, Ulrich ed Elisabeth Beck, Theodor W. Adorno, Leo Strauss, Claude Lévi-Strauss, Gotthold Ephraim Lessing, Ludwig Wittgenstein, Lars Dencik, Norbert Elias, Karl Popper, Martin Heidegger, James Hillman, Ivan Klìma, Adolfo L'Arco, Franco Rella.

Altri testi citati o utilizzati:

Marcel Mauss, “Saggio sul dono” - Einaudi 1965 - (ristampa 2002)
Carl G. Jung – “Opere Complete” – Boringhieri 1987
Michele Serra, “Gli sdraiati” - Feltrinelli 2013
Umberto Galimberti, “L’ospite inquietante” – Feltrinelli 2007
Nigel Warburton, “Filosofia, i grandi temi” – Il Sole 24 Ore 2007
Stefano Rodotà, “Elogio del moralismo” – Laterza 2013 e “Il diritto di avere diritti” – Laterza 2012
Erich Fromm, “Democrazia e libertà” – Ediz. Comunità 1978, “L’arte di amare”, Mondadori 1956
Giuseppe Galasso, “Gratitudine” articolo in “Corriere della Sera” del 14 feb. 2008
Stefano Scarcella Prandstraller, “La soggettività come tecnologia sociale” – Franco Angeli 2008
Roger Scruton, ‘La Moralità’ in “Guida filosofica..” – Il Sole 24 Ore 2007
Franco Rella, “L’enigma della bellezza” – la Feltrinelli 1991

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