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Banditismo e peste a Napoli:il decennio post-epidemico

Argomento: Storia

di Giovanni Aniello
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Pubblicato il 23/02/2016 14:14:18

            Il banditismo operante nel Regno di Napoli nell’immediato periodo post-epidemico non presentava più le caratteristiche che lo hanno fatto confondere, almeno fino ai moti rivoluzionari del 1647–1648, col movimento antifeudale delle rivolte contadine: due fenomeni distinti sul piano teorico ma accomunati da una contrapposizione frontale allo stato moderno con la sua struttura accentratrice, la sua gravosa fiscalità e la sua giustizia di classe.

A partire da tale data aveva mutato volto e atteggiamento e trovato accoglimento nei quadri sociali attraverso i compromessi che lo stato era disposto a stipulare e la frequente collusione e complicità con la classe feudale. Inoltre i problemi creati dalla peste e l’isolamento interno, instaurato dal governo nel tentativo di arginare il contagio, favorirono il rafforzamento della politica di sovranità locale e lo sradicamento dell’autorità statale nelle province perpetrato dalla feudalità.

La frattura tra governo centrale e funzionari periferici, l’esiguità del numero di soldati determinata dall’epidemia, la mancanza di fondi sufficienti a pagarli e la protezione della classe feudale costituirono le difficoltà più evidenti nella lotta al banditismo.

Ulteriore elemento di debolezza fu la composizione dei processi che, se procurava allo stato indubbi benefici finanziari, ne minava la credibilità. Suggerita dal barone D’Amato, responsabile della lotta al banditismo, in occasione del processo celebrato nel maggio 1657 nei confronti  del marchese di Fuscaldo per aver accolto nelle sue terre il famoso bandito Paolo Fioretti e la sua banda, si rivelò una scelta politica che diede un messaggio di sostanziale impunità al banditismo meridionale che riprese fiducia e consistenza. Lo dimostra l’imperversare a Cava delle bande di Cafari e Perilli, di quelle provenienti da Marcianise sotto la protezione del figlio di un potente feudatario locale, don Prospero Suardo, tra Maddaloni e Caserta e nel Salernitano di quelle dei fratelli Cavaselice.[1]

Per questi ultimi il barone D’Amato chiese al Collaterale l’ordine di poterli catturare vivi o morti, ma l’ingenuità dei soldati governativi e la complicità dei familiari del vicario vanificarono l’unica occasione che si presentò: catturati e trovati in possesso di molte armi, invece di essere trasferiti nelle più sicure carceri regie, i due banditi vennero tenuti nel palazzo arcivescovile custoditi da numerosi soldati a cui se ne aggiunsero altri del vicario che durante la notte li aiutarono a sopraffare e immobilizzare i soldati regi e a fuggire indisturbati.[2]

Il durissimo provvedimento del governo nei confronti dei funzionari (all’auditore e al fiscale furono tolte le piazze) non alleviò lo smacco subìto e solo grazie all’energica azione del Preside di Salerno i due banditi furono ridotti l’uno a costituirsi e l’altro a ritirarsi in una chiesa fuori provincia.[3]

Nei territori di Montefusco, Basilicata e Lucera l’azione governativa non riusciva a tenere testa alle bande di Paolo Fioretti e Carlo Petrella sulle cui teste fu posta una taglia di 5.000 ducati.

L’organico piano militare per sradicare il banditismo nel Regno, varato dal Collaterale nell’estate del 1657 dopo vari ripensamenti, ebbe come risultato solo l’arresto e la giustizia sommaria di banditi di secondaria importanza lasciando sostanzialmente immutato il fenomeno: segno evidente che la classe feudale seppe ben proteggere i più grossi nomi del banditismo meridionale che la ricambiavano con il loro utile servizio nel perpetrare abusi e violenze di ogni genere.

A nulla erano valse né le indagini accurate e dispendiose del presidente Oglioga sulla lunga trafila di delitti e illegalità commesse da don Tommaso d’Acquaviva della potente casata dei Conversano né la più rigida osservanza della prammatica sulle armi decisa in seguito ad una lunga trafila di omicidi culminata con l’assassinio del figlio del governatore e castellano di Crotone che aveva scosso fortemente l’opinione pubblica.[4]

Scarsamente incisiva si era pure dimostrata la politica di contrasto alla connivenza tra banditismo e feudalità esercitata attraverso la linea legale e la lotta armata: non avevano prodotto  risultati significativi né l’incriminazione dei signori feudali con accuse estorte con ogni mezzo né la concessione dell’indulto a complici secondari in cambio di rivelazioni sui maggiori responsabili.

Il quadro sociale restava drammatico: le autorità provinciali non erano rispettate, la gente girava per le strade armata commettendo prepotenze che restavano impunite sia per l’esiguità di soldati sia per le connivenze e i legami familiari o d’interesse tra classe feudale e burocrazia governativa.

Il processo celebrato nell’aprile 1658 nei confronti del Principe di Curti e del Duca delle Noci per una serie di attività illegali, di notevole importanza politica perché rappresentava un processo all’intera classe feudale e alla sua azione politico – sociale, si concluse con la grazia al principale imputato e a tutti i suoi complici.[5]

Questa ulteriore dimostrazione di arrendevolezza diede alla feudalità meridionale una più sfacciata e arrogante consapevolezza della propria forza né risultò efficace la decisione di estendere anche ai banditi l’indulto generale emanato nel giugno 1658 per agevolare il rientro degli esuli masanielliani dello Stato Pontificio che creavano torbidi nel Regno con le loro lettere sobillatorie.[6]

Gli ultimi mesi del 1658  furono consumati nei preparativi per la partenza del viceré conte di Castrillo a cui doveva succedere, l’11 gennaio 1659, il Peñaranda.

Il nuovo viceré ereditò il fenomeno del banditismo sostanzialmente immutato: non avevano prodotto effetti positivi né la politica antinobiliare iniziata dal Castrillo, peraltro mai perseguita con coerenza, né la riforma giudiziaria che avrebbe trasformato la nomina dei giudici della Vicaria e delle Udienze provinciali da biennale a perpetua per impedire vendette private alla scadenza del mandato né era stata minimamente intaccata l’ampia protezione della classe feudale.

Il Peñaranda affrontò il fenomeno del banditismo operando su due versanti: provò a risolvere il problema dei rifugiati nelle chiese attraverso accordi non sempre facili con le sospettose autorità ecclesiastiche e venne incontro alle richieste dei banditi di tornare nei ranghi della vita civile, facilitato dai segni di stanchezza denotata dal banditismo meridionale dopo l’esplosione del biennio 1657/’58.

Il 1659 segnò infatti la fine dell’attività di Carlo Petrella, di Pietro Strollo (detto l’Infernale) e dei fratelli Cavaselice: in giugno Petrella e l’Infernale inviarono in Collaterale la richiesta di “ridursi al servitio di Dio et devotione di S.M.” andando volontariamente a combattere con alcuni compagni in Spagna agli ordini del Principe di Venosa mentre altri 18 componenti della banda, divisi, andarono a servire nelle province del Regno; a luglio fu arrestato Ruggiero Cavaselice dietro istanza dell’abate della chiesa di S. Benedetto di Salerno perché era voluto entrare per forza, insieme ad una donna, in quella chiesa dove era rifugiato il fratello Antonio.

Dopo la pretesa dell’autorità ecclesiastica di far valere le ragioni della propria immunità con la minaccia di scomunicare l’intero tribunale se non gli fosse stato consegnato il bandito, i rapporti tra tribunale laico e autorità ecclesiastica ebbero un’improvvisa e insperata distensione  grazie all’incontro del preside di Salerno con l’arcivescovo da cui ottenne il permesso di tenerlo carcerato in suo nome evitando in tal modo la scomunica.[7]

L’assenza di documenti sul fenomeno per quattro anni sembra indicare un periodo di calma, ma a partire dal 1663 una nuova trafila di informazioni documenta la ripresa del banditismo meridionale (i delitti commessi da Francisco Albano e dalla sua banda sotto la protezione del principe di Cariati e della duchessa di Chieri, quelli commessi dai fratelli Titta e Andrea Aurinetti ad Aversa, la difficoltà dell’uditore di Salerno ad arrestare Matteo Cenara, accusato di ricatti e delitti di strada pubblica per l’immunità accordatagli dal vicario)[8] a cui il Collaterale rispose con un inasprimento delle pene: 1.000 ducati per gli “inquisiti d’archibusciate subito che sono reputati contumaci senza aspettare altra sentenza” e 6.000 ducati per i ricettatori di banditi.[9]

L’allentamento di pressione sulla nobiltà da parte del Peñaranda durante l’ultimo biennio del suo governo portò ad un’intensificazione di duelli e violenze culminate col clamoroso caso dell’assassinio di un giovane ventenne, Agostino De Fiore, tramato dal principe della Riccia, che già gli aveva rapito la moglie, ed eseguito dai suoi sicari la mattina del 3 marzo 1663 nella strada dei SS. Apostoli.

L’opinione pubblica si sdegnò, il viceré fece perseguire energicamente gli assassini e il principe della Riccia fu arrestato mentre tentava di liberare gli esecutori materiali del delitto che vennero consegnati dal governatore pontificio di Benevento ai soldati regi che li avevano inseguiti fin lì.

Nonostante la tortura di alcuni complici per provare le responsabilità di un mandante così importante, il principe poté avvalersi sia della richiesta del papa di riportare a Benevento i rei, estratti a suo avviso dal territorio pontificio a viva forza (con conseguente esplosione della questione giurisdizionale), sia della pesante pressione esercitata dalla nobiltà sul tribunale.

La moderazione usata verso il principe della Riccia, a distanza di pochi anni da quella nei confronti del duca delle Noci, fu lettaa come una nuova ammissione di impotenza governativa se il conte di Policastro, nell’autunno del 1663, fu sul punto di dar luogo ad un episodio simile e nell’estate del 1664, seppure rifugiato nella chiesa di S. Gennaro all’Olmo, riuscì a far arrestare il padre della sua amante che ostacolava la tresca, e se il conte di Celano poteva proibire, praticamente indisturbato, ai mercanti della città di concorrere alla gara per la vendita di vino alle galere regie fino a quando non avesse venduto il suo di Torre Annunziata.

I delitti (tra cui l’assassinio di un sacerdote) nell’autunno del 1665 ad opera di Francesco Iacovaccio (detto Muccione)  e della sua banda e l’imperversare del Paladino nelle campagne della provincia di Montefusco, con la sospetta protezione del principe di Acaya, nella primavera del 1667 furono gli episodi più eclatanti che convinsero il viceré a riproporre in Collaterale la necessità di intraprendere un’organica campagna di persecuzione con l’invio nelle località più colpite di un certo numero dei 3.400 soldati di fanteria e dei 300 cavalieri a disposizione.[10]

A facilitare l’azione dei banditi contribuiva anche la lontananza delle Regie Udienze dai luoghi dove più consistente si presentava il fenomeno: esemplare il caso della Basilicata dove i banditi imperversavano impuniti perché mancava a Matera il tribunale regio e, se si riusciva ad arrestarne qualcuno, si muovevano potenti protettori a presentare “istanza di remissione”.

Quando il Collaterale decise di spostare l’Udienza dalla terra d’Otranto a Vignola il provvedimento, prima di trovare attuazione concreta, dovette superare la resistenza dei vari baroni che non la volevano nelle proprie terre.

Nello stesso arco di tempo si assistette ad un’accanita lotta, tutta interna alla feudalità, tra le casate più potenti per un maggior potere economico, portata avanti con ogni mezzo, dall’intimidazione ai ricatti, e che era l’unica ad interessare il governo determinato ad evitare l’alterazione dell’equilibrio tra le forze esistenti. Lo testimoniano sia la denuncia presentata nell’estate del 1665 dal marchese di Polignano nei confronti dei Conversano accusati di averlo perseguitato per 40 anni per obbligarlo a vendere la propria terra sia  l’arresto del duca di Maddaloni accusato dal principe di S. Arcangelo di aver maltrattato alcuni suoi vassalli. Altrettanto significativa è l’ingiunzione consegnata ad alcuni componenti delle casate dei Martina e dei Conversano di presentarsi in Collaterale per appianare controversie sorte su questioni di confine e protrattesi per anni col continuo pericolo di degenerare in guerra aperta come nel tentativo, ad opera dei Conversano, di fare strage di pastori della casata dei Martina che avevano usato l’acqua di una fonte per abbeverare gli animali nella campagna di Altamura oppure quando, un anno dopo, entrambe le casate pretendevano il diritto di accesso ai parchi serrati da cui entrambe erano escluse per legge in quanto tale diritto riguardava soltanto la zona demaniale.[11]

Le problematiche relative alla lotta al banditismo riscontrate nel Regno di Napoli nel decennio post-epidemico dovettero persistere immutate anche oltre il vuoto documentario degli anni 1667 –1671 (dove si ferma questa ricerca) se i primi documenti giunti in Collaterale agli inizi del 1672 riproponevano un quadro pressoché immutato caratterizzato dalle attività delittuose di nuovi banditi (nella zona di Avellino quelle dell’Abate Cesare; in Calabria quelle di don Carlo e don Matteo Cedispoti all’ombra del Marchese d’Arena) e dalla lotta tra grosse casate feudali (il Collaterale comminò pene severe ai vassalli dei Martina e dei Mottola che avevano contravvenuto a precisi bandi vicereali andando a pascolare nei “territori serrati d’alcuni particolari della Terra delle Nuce”). [12]

 

 



[1] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol.61: 15, 16 e 30 maggio 1657; 21 giugno 1657.

[2] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol.61: 4 giugno 1657

[3] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol.61: 4 luglio 1657

[4] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol.61: 6 febbraio, 4 e 10 aprile, 7 e 25 maggio 1657.

[5] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 62: 9 aprile 1658.

[6] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 62: 12 giugno, 12 luglio e 6 settembre 1658.

[7] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 63: 9 giugno; 18, 21 e 23 luglio 1659.

[8] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 66: 21 maggio e 5 giugno 1663

[9] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 66: 3 e 5 luglio1663

[10] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale, vol. 67: 5, 13 e 24 nov. 1665; 14 febbraio 1667.

[11] Archivio di Stato di Napoli, Not. Cons. Coll. vol. 67: 4 febbraio, 8, 11 e 22 novembre 1666; 3 novembre 1667.

[12] Archivio di Stato di Napoli, Not Cons. Coll. vol. 68: 13 novembre 1671, 28 gennaio e 22 marzo 1672


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