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al testo di Luciano Tricarico
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È una piccola festa, di paese, il suono di campane, mogli sottobraccio ai mariti seguiti da adolescenti che si scrutano di sottecchi; precoci interludi di futuri matrimoni. La piazza all’ombra del campanile è addobbata a gran pavese, fili di lampadine sospese si stendono come un’intricata ragnatela, bancarelle attorno racchiudono paesani fra dolcetti, ninnoli e profumo di pietanze gustose. Sul piccolo palco un’orchestrina improvvisata, suona ballate popolari di memoria perduta. Tutti presenti col vestito buono, quello che dei giorni migliori. Il sindaco sfoggia la fascia tricolore; negli anni si è tanto ristretta per quanto lui allargato, la causa è del tessuto, ribadisce; sorridono sotto i baffi e annuiscono. Il parroco del paese, don Sante, per l’occasione srotola le maniche della tonaca, mescolandosi alla sua gente. È il più temuto, non c’è domenica senza strali infuocati. Presenti al completo, più per il sermone inquisitorio che per pura fede; burbere pecorelle, brava gente. Gioisce in cuore, figli suoi. Qualcuno viene da fuori, giovanotti dei paesi vicini, guardati di sbieco, portano guai, rubano le nostre figlie; una guerra lunga più di cent’anni a volte cruenta, senza vittime, teste rotte, teste dure. Tonio è il matto del paese (ogni paese ne ha uno, è una regola fissa) non c’è sasso che non lo conosca ne uomo né donna gli sono sfuggiti; mi dai una moneta, hai una sigaretta? Qualcuno elargisce. Il salumiere prepara un panino, ogni giorno, contro le ridondanti rimostranze della moglie, che di salami ne ha sicuramente più mangiati che venduti; viene sempre alla stessa ora. Il tabaccaio tiene in serbo un pacchetto di diana, una al giorno, lo fumerebbe nel tempo di un’ora. Spesso lo cacciano via, senza infierire. Le braghe a metà del sedere e la camicia raffazzonata, cammina da mane a sera, senza meta e senza tempo. Si narra che da bambino fosse normale di grande intelligenza, cambiò un giorno. Colpa della madre, incinta non si sa da chi; dicerie di paese. Ridono, scherzano, mangiano e bevono, bambini corrono fra le bancarelle, urlanti, in mano bastoni dolci, mele glassate, zucchero filato, faranno tardi, domani è riposo. È bello vedere la gente felice. Torno, dopo anni d’esilio errante, un continuo di case e supermercati mi accoglie, non c’è spazio fra i paesi. È cambiata anche la piazza, piastrellata, contornata da led blu; per me è astratta. Molte più bancarelle, un palco enorme, da concerto rock, un’orchestra variegata, di elementi atteggiati a star, suonano polka e mazurka, a volume altissimo; invitano gli attempati ballerini a scatenarsi nella danza. Molta, molta più gente, chi spinge, chi urla per farsi sentire, si impreca al furbo che salta la fila davanti a chioschi di specialità internazionali. Mangiano veloci, senza gusto, su isole solitarie, i bambini composti, vestiti alla moda, si guardano attorno cercando un salvagente a cui aggrapparsi. I giovani , immersi nel mondo virtuale, non cercano sguardi furtivi. Ne parroco, né sindaco, nessuno che conosca. Raccolgo risate di ubriachi; non credo che valgano. Fra i tavoli, le braghe a metà del sedere e la camicia raffazzonata; mi dai una moneta, hai una sigaretta? Eccolo il mio salvagente, gli vado incontro e l’abbraccio.
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