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al testo di Stefano Colombo
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Il bagno è il luogo più intimo delle mia casa: il punto in cui i primi momenti di coscienziosità mattutina prendono forma e l’ultimo in cui abbandono la mente razionale per poi immergermi nel riposo onirico. L’unica stanza dove posso veramente osservarmi, dove lo specchio può riflettere la mia immagine, che altresì non mi sarebbe concesso vedere. L’area in cui il mio viso è ritratto virtualmente, ma replica alla perfezione la mia vera essenza e le mie forme: posso assaporare il mio volto squadrato, dotato di una mascella imponente, i miei occhi scuri mi fissano al di là di quella superfice e io fisso loro, si interfaccia uno scambio reciproco con me stesso. Più mi guardo e più comprendo di essere corpo: testa, braccia, busto. La dimensione dello specchio è delimitata fino all’altezza del bacino, oltre non posso vedere, ne oserei abbassare lo sguardo per verificare un’esistenza che in questo luogo non si riproduce. Le mie mani si avvicinano al viso per garantirmi cura e pulizia, richieste per un’apparenza pubblica decente. Quando la mia cute spessa e dura, a causa dei calli, viene a contatto con altra mia pelle si genera un senso di vita, si sprigionano sensazioni che mi rendono consapevole della cenestesi: se non potessi vedermi allo specchio potrei comunque sentirmi presente nel mondo. Sono composto da parti anatomiche imprescindibili dal mio essere, io sono pezzi di corpo uniti fra di loro. Mani, polso, ossa, muscoli, braccia, spalle, sternocleidomastoideo, legamenti, testa, umore vitreo, retina, con cui posso osservare tutto questo e, dove non posso avere un diretto riscontro visivo, il mio cervello ha acquisito immagini da libri o da filmati attraverso i quali posso ricostruire tutto il mio essere. Il mio essere fino al bacino ovviamente, fintanto che le dimensioni dello specchio sono limitanti. Se penso di essere corpo in qualche modo io dovrò essere anche mente; ma non mi riferisco al cervello con tutte quelle rughe, con i suoi sistemi fisiologici, con l’amigdala, con l’ipotalamo e tutti gli altri pezzi, ma alludo alla sua complessità, al suo giocare con noi. L’esempio più calzante, per spiegare questa situazione, coincide con un mio piccolo vizio: il fumo. Odio l’odore del tabacco, crea fastidi ai pezzi del mio corpo, al mio naso, alla mia trachea, ai miei polmoni, ma appaga la mia mente. Lo trovo un modo fantastico per attaccar bottone, io adoro interfacciarmi con altre persone. “Scusi! Ha l’accendino per favore, l’ho dimenticato a casa” “ha una sigaretta, cortesemente? Oggi sono uscito senza!” “Anche io sono un fumatore accanito, aaaahh quante storie potrei raccontarle…”. Quando esco dal bagno è giunto il momento di separami da me stesso e immergermi nella massa, quello è il punto di rottura del mio individualismo intimo a favore di un collettivismo pubblico. Mi allaccio entrambe le scarpe, ultimo indumento da indossare in seguito alla vestizione e sinonimo dell’inizio della giornata lavorativa. Sento la necessità di stringere maggiormente il piede destro, la scarpa non calza come dovrebbe: è un fastidio abituale della mattina. Una routine che ho da troppi anni. Mi osservo finalmente al di sotto del bacino: sono pronto per uscire! La sedia a rotelle è scalpitante a pochi passi e aspetta che io prenda posto. Chiamo mia moglie per farle sapere che sono pronto… |
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