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al testo di Livia
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Barche di carta
Il mare scintillava come un pulviscolo d'argento puro sotto il sole. Aprile era dolce in quella mattina di tiepida luce, una mattina profumata di giacinti che qualcuno aveva piantato nei vasi scoloriti della baracchina del bar sulla spiaggia.
L'uomo lavorava a torso nudo, accaldato dalla fatica, gli occhi sperduti andavano ogni tanto a posarsi sulla linea convessa dell'orizzonte. La fronte, corrugata in pensieri che solcavano la sua anima, fluttuavano come vele disciolte all'aria. Occhi persi nel vento, occhi tristi. Occhi che amo da sempre.
E la sua barca, che necessitava di una mano di vernice fresca, era lì fra i tanti barattoli di smalto, vetroresine, antimuffa, barattoli di ogni colore, e pennelli dalle setole morbide e dure. E la mano. La sua mano, che nello sforzo o nella leggerezza sembrava dipingere quegli strati di legno come fossero piccoli affreschi su affreschi già noti. La sua barca custodiva parole, emozioni, pensieri; lui li portava là fin sulla cresta del mare e li lasciava liberi di godersi la brezza o di restare giù nella stiva, li trasportava nel colpo di mano della vernice spalmata, e tutto, proprio tutto, aveva un colore, una storia, un profumo.
Le nostre barche di carta sarebbero più o meno così in questo mare di illusioni. Le nostre barche sarebbero i sogni che solcano talvolta quei mari, dove tutto è concesso alla fantasia, all’amore, alla luce. ma…..
….stavo immobile , accontentandomi di guardarlo da lontano. Lo guardavo da cento anni e sentivo che l’unica cosa reale dentro un sogno senza memoria, era quella barca. Quella piccola barca piena di di un sottobosco di voci, suoni e profumi per ogni onda del mare. E che probabilmente quell’uomo avrebbe sempre avuto quegli occhi tristi e randagi, pur dipingendola di mille colori diversi. E io non ero diversa da lui.
Amavo il mio sogno. Amavo quel mare, quel tempo. Amavo l’impossibile. Lo sapevo. E lo sapevo da sempre.
(2017)
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