E’ appena iniziato il nuovo giorno quando la serratura della porta di ferro scatta nervosa lasciando aprire la porta, le quattro guardie accompagnate dal cappellano, entrano nella cella. L’uomo già sveglio li attende, in silenzio, uno sguardo beffardo fa capolino sul volto ben rasato, ma subito si spegne in una smorfia arrogante. “Andiamo” sibila fra i denti, mentre due guardie si accingono a riattraversare la porta, l’uomo e il cappellano affiancati precedono le ultime due guardie lungo gli umidi corridoi macchiati di muffa ed imprecazioni, paure e vendette. L’uomo non ha paura, la sua mente è fredda e lucida, niente affatto pentita per l’orrendo gesto commesso. Di lui avevano a lungo parlato i giornali, del suo omicidio cruento, inspiegabile, inutile, quasi, e per questo spesso accompagnato dalla parola perfetto nei titoli cubitali dei giornali. Certo, quasi perfetto medita l’uomo tra sé, il quasi svanirà davanti al plotone d’esecuzione, perfetto sarà il suo sacrificio, sa di immolarsi ai suoi astrusi principi, ma è così, morrà senza un sospiro, un lamento, senza un alito di paura a scomporre il suo volto, certamente senza pentimento. La sua inutile temerarietà cancellerà quell’infamante quasi che gli costò un lungo processo, gli insulti della folla, una detenzione tra il disprezzo generale. Ma lo dimostrerà a tutti, egli è un uomo – vero – e lo dimostrerà guardando in faccia la morte. Ora giunge sullo spiazzo in cui avranno fine i suoi giorni, il plotone è schierato, l’uomo passa in rassegna con lo sguardo i soldati che si apprestano a caricare i fucili. Ma qualcosa colpisce lo sguardo dell’uomo, un rivolo di sudore si materializza tra la sua schiena e la camicia nuova indossata per l’occasione. Mio Dio, non è possibile, mormora l’uomo, vorrebbe fuggire, rimandare quel momento. Le guardie pensano che si sia finalmente pentito, tema la morte, voglia fare un gesto estremo, chiedere in extremis la grazia sebbene sia troppo tardi. Nessuno sa cosa stia accadendo all’uomo, solo egli lo sa, il suo occhio acuto ha notato che la divisa di uno dei militi del plotone d’esecuzione ha una tasca strappata e manca anche uno dei lucidi bottoni d’ottone. Non è possibile, si ripete l’uomo, implora Dio di rimandare quel momento, una scena così perfetta, il plotone schierato in modo perfettamente simmetrico, un cielo terso, la temperatura, assolutamente perfetta, ma quel bottone mancante, una orrida macchia su di un foglio bianco, il segno che sancisce l’imperfezione della scena. L’uomo non può tollerare che la scena della sua morte ripeta quella temibile parola che l’ha perso: quasi perfetto, i proiettili escono dalle canne dei fucili e a velocità inarrestabile volano verso il suo petto, ma la sua faccia è sfigurata dall’orrore, la sua mente è disperata, la sua anima soffre per quel bottone mancante, per quella mancanza di perfezione, del suo ultimo istante terreno. Ha avuto paura, diranno, si è pentito, penseranno, nessuno saprà mai il perché di quella lacrima sul volto dell’uomo appena giustiziato.
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