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Sembianze della luce

 

In quest'ultimo lavoro Fernando Della Posta si offre in un affondo mesto (ma alla sua radice pienamente accogliente e partecipativo) nel dolore basso e rimettente della terra. L'angolazione infatti è quella di una superficie, a dispetto almeno apparentemente del titolo, in bianco e nero, di voce e di richiesta dimessa da parte di un mondo colpito e fermo nelle sue ferite, nei suoi inascoltati domini, di uomini e donne sole nella vacazione di città e di interni demistificati e smarriti nei circuiti di un tempo la cui produzione, soprattutto, non contempla appelli nel ritorno delle sue cancellazioni. Ed allora lo spazio su cui va come in deriva il verso di Della Posta ci appare nella sostanza quello- per i più forse il solo possibile- di un sottomondo, offeso ed anche come detto a tratti battuto, ma come tale, come tutte le dimensioni che sfuggono aperto e comunque libero alla trasmissione di una umanità ancora viva perché presente nella risultanza di una compassione che cerca e muove ascolto, se non amore ("una piuma data toglie una pietra"). Qui la luce, dalle crepe di un dire fermo tra instabilità delle sottrazioni ed ospitalità dei legami, prova e sa trovare un varco, quel varco di sufficienza di vita che a più lieve esserci rammenta nella reciprocità di identità confuse (di essenzialità a dirla nelle sottolineature di Luca Benassi e Giulio Greco in accompagnatura al testo). Un'essenzialità dalle cui premesse e promesse ritrovare accordo e comprensione dalle fondamenta, dal basso da un edificio, il nostro, che forse sta per sgretolarsi. Così è ben calzante il cadenzare nella sembianza questo esercizio del riaffiorare tra sterilità della perdita e incarnata evocazione, l'uomo nella sacralità e nella dignità di un riconoscimento non solo spirituale e morale ma anche politico. Questa la veste che dal buio tenta il suo tenero e rabbioso scardinamento tra densità di figure senza gloria ("morfemi senza suono") e piccoli e grandi monarca a mutare in topi la morfologia degli esseri e su cui come in Fortini non può che cadere lo strale:"Dite a quelli/ che cavalcano sicuri in superficie/che sotto di loro/ c'è sempre stato/ tutto un mondo sommerso/e che soprattutto il tempo/ sostituisce fatti a testimoni oculari.//Odiarvi odiarvi/quando a pancia piena/ scartate come fosse superflua/ogni visione ulteriore" ("Dite a quelli"). Ed allora il richiamo è a quello scarto in più rappresentato dagli outsiders, da quegli ultimi in noi, di chi stando in basso "grida più forte" deviando dalle strade battute con inerte tranquillità dagli altri ma- restando con gli altri- imparando a proposito di topi dal loro osservarli nel labirinto ("progresso è sfatare il bosco malevolo/ampliare lo spazio su cui sentirsi protetti"). Quel che fa caro il testo è a proposito di questo il tono con cui Della Posta accompagna la scrittura, impotente, dolente, a tratti desolato pur nella stizza del dettato; eppure a ragione avvolto nel carico, nella mortificazione quasi del non poter dire, del non poter altrimenti pronunciare, nella costanza però sempre del bruco a tentar di estrarre vita- e gruppo- nella luce. L'isolamento sociale, la pompa nei cui fortilizi ci si nasconde ("l'ognun per sé e Dio per tutti") non cancella infatti la morte e questi giorni di covid stanno qui a ricordarcelo come allora la letteratura, e la poesia (a proposito di outsiders) restano per raccontare (certo non nella bontà) che "tutti siamo ospiti a questo mondo/ e tutti l'un l'altro ci abitiamo" ogni gesto avendo un effetto che si propaga nel mondo ("Effetto farfalla"). "Emanciparsi dalle ancore/che nei tratti tempestosi/abbiamo gettato per metterci al riparo": da qui giocoforza è necessario ripartire sembra dirci in chiusura Fernando nella condivisione di un timore a cui non si è sottratto. Motivo altro dunque per dirgli grazie.

 

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