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al testo proposto da Roberto Maggiani
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[ Articolo pubblicato sul n. 29, settembre 2013, della rivista Poeti e Poesia ]
Richard Feynman, uno dei grandi scienziati del Novecento dice: “I poeti sostengono che la scienza tolga via la bellezza dalle stelle, ridotte a banali ammassi di gas. Non c’è nulla di banale. Anche io posso vedere le stelle nella notte deserta e sentirle. Ma vedo di meno o di più? La vastità dei cieli estende la mia immaginazione. Bloccato su questa giostra il mio piccolo occhio può catturare luce vecchia di un milione di anni. Un grande disegno di cui sono parte…” A questo pensiero si rifà Roberto Maggiani nell’introduzione al suo nuovo poema Spazio espanso, in cui gioca tutte le sue carte di poeta e di fisico, provando, ancora una volta, a coniugare la poesia con la scienza, considerate come due lenti di pari efficacia, per leggere il libro dell’universo. Volle da ragazzo intraprendere gli studi scientifici per trovare delle risposte alle proprie domande intorno al mistero del cosmo, ma scoprì ben presto che tali risposte poteva dargliele solo la poesia. È un viaggio che dura e continua dal precedente poemetto Scienza aleatoria in cui si era già posto in ascolto della natura, servendosi delle cifre e delle formule della scienza, per decodificare l’invisibile e tradurlo nel visibile, trasformando la realtà metafisica in realtà metapoetica. Maggiani sostiene che “l’uomo può osservare il mondo sia da poeta, interrogandosi sull’amore, sulla morte e persino su Dio, sia da scienziato, indagando fino a trovare in se stesso, una profonda unità tra spiritualità, sensibilità artistica e razionalità scientifica”. Da questa convinzione muove il proposito di non guardare più ad un’umanità prigioniera del pianeta Terra, che vive entro le città e precisi sistemi economici e sociali, bensì ad un’umanità che vive nell’Universo e si interroga sull’esistenza, cercando ed immaginando che anche altrove possa essersi sviluppata una vita cosciente. In definitiva Maggiani ipotizza una Cosmonità (termine da lui coniato), come comunità cosmica che include l’umanità. È il suo modo di ampliare lo spazio, di allargare gli orizzonti, di creare uno spazio espanso, quale solo può essere lo spazio della poesia, che ingloba dentro di sé, la dilatazione dell’esistente. Compie dunque un’operazione unica e originale, sostanzialmente linguistica, ma anche matematica, poiché non c’è differenza, per lui, tra le parole e le cifre, così come non c’è separazione, né contrasto, tra le parole e le immagini, infatti, questo libro è corredato di immagini fotografiche che parlano, che chiariscono, che svelano segreti, secondo la lezione della Bettarini, cara a Maggiani e da lui rispettata, come direbbe Contini, con “una lunga fedeltà”. Si legga una delle composizioni iniziali del libro, Luce:
Un sottile raggio di luce si srotola dalle cortecce degli alberi va a tremolare tra i cespugli mossi dal vento nell’atmosfera del giallo.
Segue la formula che riassume la Legge di Wienn, Y max =0,002898/T e che spiega come all’aumentare della temperatura (espressa dalla lettera T) di un corpo,decresca la lunghezza d’onda del massimo di emissione della radiazione elettromagnetica. Per altro il massimo di emissione è nella lunghezza d’onda della luce gialla. È un’arida formula in se stessa ma inserita nei versi gioca un ruolo importante nell’estensione dello spazio poetico, anche se non dice nulla al lettore sprovvisto di cognizioni scientifiche. È un piccolo esempio dello strumento-lingua, maneggiato con destrezza da chi conosce il codice matematico e vuole a tutti i costi, assimilarlo a quello poetico. In tutte le pagine del libro si avverte l’ansia di risposte crescere dietro il fervore delle domande:
Essere o non essere è il dilemma che già fu dell’Universo – ma in un istante Δt → 0 di incertezza energetica ΔE cadde nell’esistenza.
Chi lo spinse?
Qui si sta parlando del Principio di indeterminazione (ci avverte lo stesso poeta in una nota a margine), di Werner Karl Heisenberg, che cercò di capire, nell’ambito della teoria quantistica, se fosse possibile una completa determinazione di quello che accade nello spazio e nel tempo, ma non sciolse il mistero dell’ineluttabile gioco del caso. Maggiani si avventura in un terreno assai impervio, seguendo le tracce dello scienziato, tenendogli dietro con la poesia e avvertendo quel palpito in più che un poeta può provare, nell’intuire che c’è un altrove non scientifico, né fisico ma metafisico, in cui va cercata la risposta esaustiva. Ci soccorre, nell’interpretazione di questa difficile opera poetica, il sapere con certezza che l’autore è un uomo di fede, credente in Dio e quindi disposto ad accettare che la ragione ha dei limiti e che non tutto si possa comprendere. Del resto, egli è convinto che la scienza possa far scoprire non le cause prime dei fenomeni, ma il “come” avvengono, mentre la poesia possa avvicinarsi parecchio alle cause. Il libro prosegue con incursioni varie nell’area degli atomi e delle dimensioni atomiche, dei protoni e dei neutroni, riuscendo in un campo tanto arduo, a creare addirittura una fantasmagoria di colori:
Dentro il protone due quark Up e un quark Down Saldati – indivisibili. La forza di colore li confina. Tre stati distinti (cariche): rosso viola verde – Gli anti (complementari): cyan giallo magenta. Come la forza elettrica (più forte) Rosso con cyan – bianco Viola con giallo – bianco Verde con magenta – bianco.
Che cosa possiamo vedere noi poveri non scienziati, non matematici, non fisici, in questi versi? Un caleidoscopio di colori, che apre alla nostra mente immagini piacevoli e ci fa anche pensare alla straordinaria bellezza cosmica, che avvolge l’ordine preciso e grandioso del cosmo. Già Helder auspicava in una sua lirica di poter fare dell’algebra, della musica e dell’astronomia “una mappa intuitiva del mondo” e ad Helder, si volge Maggiani, citandolo, per orientarsi nel suo spazio espanso e disegnare una mappa poetica che lo guidi alla scoperta del “perché”. Così leggiamo in Antefatto universale:
Mai espandersi di cieli e terre finché – sulla multi-superficie del seme iniziale – casualità – o elettroshock divino – innesca nello spumeggiante nulla l’Universo.
S’espande il Cosmo dentro nessun luogo. Spazio-tempo circondato da sé stesso che nacque in sé e lì rimase.
Chissà dove altre fluttuanti infinità tentano d’esplodere.
Non è una farneticante ipotesi circa la formazione dell’Universo, ma un’immagine dell’esplosione improvvisa nel nulla, del creato, l’origine del Cosmo, la sua espansione iniziale, il nucleo dello spazio e del tempo “circondato da se stesso” e, accanto a tutto questo, c’è il pensiero o l’idea affascinante che in un dove ignoto, possano nascere altre “fluttuanti infinità”. La mente di Maggiani spazia, non si chiude nel mondo che lo circoscrive, valica i confini dell’Universo conosciuto e sogna che possano esistere altri universi. In un certo senso questo libro “libero”, come l’autore lo definisce, traccia il disegno e lo svolgimento della realtà universale, scientificamente percepita dagli scienziati e misteriosamente intuita dall’animo umano. Basta scorrere l’indice per accorgersi di ciò: l’imput poetico comincia da un primo piano casuale su di un piccolo foro e la riflessione si allarga su come tutto (anche questo piccolo foro) rientri nelle leggi cosmiche; quindi la poesia si lancia nell’indagine del Cosmo, dalla luce, all’atomo, dalla massa all’antimateria, al bosone di Higgs. Il pensiero va alle origini del mondo, alla vita e all’evoluzione, ai viventi. Compare la visione stupefacente dello spazio cerebrale e poi la genesi dell’Universo, il grande scoppio come antefatto universale. La mappa si sta componendo: come un paziente geografo del mistero cosmico, il poeta esplora le stelle, i pianeti e si arresta smarrito davanti al Buco nero.
È una terra luminosa dove il terrore s’inventa in piena luce ma nessuno lo subisce perché è un mondo separato e diviso in sé stesso – cresce ed il suo incremento di superficie per un bit d’informazione assorbita è calcolabile.
Qui il poeta si ferma e cede il posto al fisico che ricorre alla formula di Jacob Bekenstein per effettuare il calcolo. È evidente che il lettore non può comprendere tale formula, lo incanta piuttosto il poeta che ha saputo trasformare e rendere questo fenomeno scientifico, con un’immagine colma di stupore che, lungi dallo spaventare, attrae la mente. Lo stesso poeta nel contemplare le stelle le percepisce come “rarefatte superflue luci” e chi legge la poesia Stelle si chiede: qui chi parla, lo scienziato o l’uomo semplice con tutta la sua umanità poetica, che gli fa sollevare lo sguardo alle
Da tutta la vita osservo le stelle – rarefatte superflue luci nelle notti di città. Delle prime osservazioni ricordo l’odore del fico e del geranio – dell’erba umida e dell’aria tagliata dal freddo terso della notte – mentre lassù – piccole luminescenze nel vuoto – in apparenza vicine tra loro – erano fiamme di fornaci pulsanti – stufe per alieni nel gelo cosmico.
Si ha come la sensazione che l’autore si muova entro una doppia verità, quella della scienza che gli rivela le stelle come “fornaci pulsanti” e quella della poesia, che muta ogni irraggiungibile realtà cosmica, in una presenza più vicina e più a misura d’uomo. E questo dipende dall’ irriducibile volontà di riportare ogni esistenza planetaria, a livello umano, ce lo conferma la dichiarazione di due versi che seguono a quelli prima citati:
Come muore una stella? Come un uomo –
Nel processo cosmico di creazione e distruzione tutte le cose e tutti gli esseri sono travolti da analoghi eventi che riconducono il tutto all’uno e assimilano ogni particella esistente nella vita infinita dell’Universo. Qui il prodigio della poesia, di una poesia colta e difficile come questa, che per stabilizzare la convenzionalità di un ordine precostituito e codificato quale l’ordine universale, ne destabilizza le regole scientifiche, sostituendole con regole poetiche. Alludiamo alle cifre che si cambiano in parole, alle formule, che diventano versi e che interrompono il ritmo dei suoni, per produrre il silenzio dei numeri. L’itinerario prosegue, lo sguardo si sposta decisamente sull’uomo, sull’uguaglianza con gli altri che lo contraddistingue e sulla morte, come il fatto più naturale e ineluttabile che possa accadergli. Non manca la pietas, ma è quasi una serena rassegnazione, espressa assai bene nello Stupore di un morto davanti alla vita, lirica breve ma intensa, che fonda la speranza della continuazione della vita, sulla certezza scientifica che tutto si trasforma e nulla si distrugge. Non può a questo punto del viaggio, mancare l’incontro-scontro con Dio:
Ho imparato a evocarti dai colori e dalle forme delle cose. …………………………………… Sei come un albero che nella sua totale presenza si assenta nell’abitudine dello sguardo. ……………………………….. Ti cerco instancabilmente ed è solo per la nostalgia che ho di te che scrivo poesie.
È in questi versi tutta la cifra della fede di Maggiani, che non è fatta di certezze, ma di dubbi, non di assiomi, ma di speranze, non di possesso della verità ma di continua ricerca di essa. Quel avverbio “instancabilmente” dice molto circa tale affannosa ricerca e ancor più il termine “nostalgia” ci fa comprendere il disperato bisogno che l’uomo ha di Dio, vuoto che solo la poesia può colmare. La riflessione torna sull’Universo: L’Universo è così come lo vediamo perché noi potessimo esserci o noi ci siamo perché l’Universo è così come lo vediamo? È l’interrogativo di sempre che noi ci poniamo, credendoci ora vittime della natura ed esseri miseri e schiacciabili, ora dominatori della natura, quasi essa ci fosse stata donata perché la dominassimo. È l’interrogativo centrale nella dialettica leopardiana e Maggiani lo fa suo nella composizione intitolata L’affanno del mondo, concludendo che “ sarebbe bello evitare l’inesistenza nella morte/ o se (almeno) prima di scomparire/qualcuno potesse suggerirci – per un attimo tra i pensieri-/ la verità sul mondo”. Pure, in questo travagliato tragitto, in questa indagine così puntigliosa e puntuale, sull’Universo e sull’uomo, Maggiani, poeta di Carrara, non manca di ritornare ai suoi luoghi amati, con cuore commosso e sincera affezione; lo ritroviamo nella lirica Sulle Alpi Apuane, intento a salire, quasi in un cammino di purificazione ed emendazione, che tanto ci ricorda l’ascensione petrarchesca al Monte Ventoso:
Accompagno il silenzio con il respiro e il battito affannati dalla salita. Qui dov’è scritto sulla pietra “Noi siamo stati sopra il mondo!” corre una nuvola sale il monte – a raffiche lo scolora. Tremula l’erba come in un film senza sonoro.
È una lirica breve, intensa, ogni verso è un gradino lento verso l’alto, il silenzio iniziale che accompagna l’uomo è sintetizzato da quel “senza sonoro” finale che suggella l’ardua impresa della salita. Grande metafora dell’esistenza e del cammino di un uomo che cerca sempre di raggiungere la vetta, ma senza distaccarsi mai dalla terra che lo ospita (tremula l’erba). L’itinerario del libro è ormai giunto al termine, la visione dell’Universo si rimpicciolisce: c’è l’Universo planetario e c’è l’Universo quotidiano, che è quello che ci circonda, quello con cui ci misuriamo continuamente, che non ha bisogno di formule per essere classificato e capito, perché è lo stesso nostro corpo, che ci sorregge e ci supporta ed è anche la realtà che ci circonda:
Il mio Universo è nato in una piazza tra le note di Santa Cecilia – ha inscritti i codici e le leggi della mia nuova vita.
Il mio Universo si è espanso per un’incertezza non calcolata – come quei sorrisi rapidi e inaspettati che s’allargano sui volti – destinati ad una persona eppure evidenti a chiunque.
Il mio Universo ha un corpo non necessario ma di cui non potrei fare a meno. È come la pietra di marmo su cui sedeva – scolpita nel candore della sua forma.
Lo spazio espanso si è forse ristretto? No, ha incluso invece ogni piccolo spazio che è intorno a noi; il poeta ora stabilisce quale sia il suo Universo, dopo aver indagato con scienziati e fisici sull’Universo cosmico e ritrova il suo spazio, che è quello che conosce meglio, che include sguardi e sorrisi delle persone, in una disponibilità ammirevole al dialogo e alla compartecipazione. L’emblema di tale certezza di spazio è ancora una volta la pietra di marmo della sua Carrara, “scolpita nel candore della sua forma”. E infine, volendo fare un ultimo bilancio di questo libro dal punto di vista linguistico, diremo che la lingua di Maggiani si va sempre più rarefacendo, attivando campi semantici precisi (intorno alle parole stelle, cosmo, atomi, terra, cielo ecc.). Si articola per successive riduzioni, per omissioni, per aggiunta di spazi, tra verso e verso, per l’uso del trattino nella punteggiatura, oltre che, naturalmente, per l’inclusione di numeri, formule a corpo grafico più minuscolo, nel contesto poetico. La fine del libro ci lascia la visione candida del marmo di Carrara, che fa da specchio al libro stesso e che è il luogo proprio della poesia di Maggiani, così desideroso e assetato di immagini che testimonino, intorno a lui, la vita dell’Universo.
È spazio espanso intorno a noi e agli ovunque-punti equivalenti che dilatano in esistenza.
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