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al testo di Timothy Megaride
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L’«URLO» DI GRAZIANO GALA
«Merulana, tu si’ sporca e corrotta, ma tieni nu poeta che può tornare a scrivere». Non so se il toponimo sia un caso o un esplicito omaggio a Gadda, a quel suo inventarsi lingue pastrocchiate fortemente espressive. Graziano Gala ne segue la lezione e lo sa fare, coniando una koinè dialettale dalla forte caratterizzazione meridionale. Tuttavia, a voler leggere con attenzione il suo bel romanzo, si può agevolmente immaginare un’ambientazione non solo provinciale e paesana, ma nazionale e forsanche internazionale, a giudicare dal personaggio di Ferlinghetti, un poeta anglo-americano che vive a Merulana, ma che poco o nulla ha da spartire con l’omonimo editore e poeta della beat generation, alla quale il nostro giovane scrittore vuole forse alludere per quel suo cantare la marginalità sociale, la ferocia del Sistema o dar voce ai “fuori di testa”. Magari è Gala medesimo a celarsi dietro il più illustre e famoso poeta recentemente scomparso e, se americano non è per nascita, lo è per condizione culturale e psicologica, essendo egli transfuga della terra natia, che forse ha ripudiato per diventare cittadino di un mondo meno feudale di quello dal quale proviene, e probabilmente meno censorio. A dilatare lo spazio geografico ci pensano i due personaggi che vengono dal Norditalia, ‘a Patuana e suo marito. Il resto è un ordinario bestiario provinciale. Il protagonista e narratore di questa favola nera è Giuda Iscariota, «ca so’ io – afferma in premessa – o ammenu cusì me chiamane ‘ntra ‘stu paise». Il lettore ne conoscerà il nome anagrafico solo alla fine del suo lungo sproloquio e gli sembrerà un atto, l’unico, di giustizia nei confronti di un derelitto al quale è stato tolto tutto, finanche l’identità. Forse se ne starebbe buono e tranquillo se, malauguratamente, qualcuno non lo derubasse del suo bene più prezioso, il televisore, un vecchio Mivar panciuto con i pulsanti per cambiare canale. È dal furto del prezioso elettrodomestico che cominciano, o ricominciano, tutti i suoi guai. Oggetto apotropaico più che mezzo di intrattenimento, il televisore tiene lontano dalla sua misera casa lo spirito del defunto genitore, un uomo aduso a menar le mani, come altri in questo romanzo, anche da morto. La voce di Pippo Baudo, «ca è l’unico ca ha fatte cose buone ‘ntra ‘sta nazione», ha una funzione scaramantica e sembra proteggere il povero Giuda dalle sevizie un giorno patite, come tanti suoi coetanei, in virtù della raccapricciante massima pedagogica del bastone e la carota (Qui parcit virgae, odit filium suum), la medesima che il fascismo promosse a sistema di governo della nazione. Nel caso presente di mazzieri ce n’è più d’uno, come il lettore vedrà, e la loro funzione non sarà diversa dai famigerati predecessori del ventennio. Il fatto è che Giuda è uno strano smemorato perché, se non ricorda il suo nome e non sa dove si trovi l’amata ‘Ngiulina, mostra di avere una cultura non indifferente se usa parole attinte dal lessico colto e cita personaggi ed eventi dei quali, a rigor di logica, dovrebbe sfuggirgli la conoscenza. Ma l’efficace accessorio retorico del conio linguistico consente anche la trasgressione di dare al protagonista della storia una pregante consapevolezza di sé e della sua condizione. Che non è di miseria materiale. Giuda non denuncia la sua povertà, ma l’ingiustizia di cui è costantemente vittima. E nel nostro paese, l’Italia, se è vero che esistono fasce sociali estremamente indigenti, ciò che più cuoce è il senso di disuguaglianza e di ingiustizia che riguarda un numero enorme di connazionali ai quali è del tutto estraneo il concetto di Stato di diritto, perché non ne hanno mai sperimentato uno. Si può dimenticare un pasto saltato, non si può dimenticare un torto subito e, quando il sopruso è sistemico, ti segna nel profondo della coscienza, per sempre, e fa di te un relitto umano. Per i più, segnatamente nel meridione del paese, vige l’antico assolutismo monarchico che elargisce e concede in relazione all’assoluta fedeltà dei sudditi. Il cento per cento dei voti auspicati e ricevuti da Mammoni, ‘o Presidente, chillu ca possiede pure l’aria ca respiri, altro non è che un rapporto di assoluta sudditanza. E, siatene pure certi, il beneficio concesso in cambio della cieca fedeltà è la patente negazione del diritto di cittadinanza per il quale ogni membro della comunità è titolare di diritti soggettivi, non fruitore di elargizioni. Intanto, nel nostro paese, i processi durano un’eternità, le querele stipano di cartacce le procure e le questure, senza che abbiano un seguito giudiziario o, se lo hanno, assai spesso è a discapito del malcapitato querelante, a meno che questi non sia uno potente e danaroso in grado di saldare le salate parcelle di rinomati avvocati. No, i disgraziati non denunciano i pizzi e le tangenti, i ricatti, le calunnie e le diffamazioni, le violenze private, i furti, gli scippi, le angherie delle forze dell’ordine o gli abusi della burocrazia. Non ne verrebbero mai a capo e, se mai adissero le vie legali, avrebbero sicuramente la peggio. Il nostro sistema giudiziario è arbitrario, non suffragato dalla certezza, non dico della pena, ma della sentenza. Ed eccolo ben rappresentato dal nostro Giuda Iscariota, del povero cristo che subisce ogni tipo di violenza senza batter ciglio. Qualcuno lamenterà l’eccesso di brutalità ai danni di poveri disgraziati già ai margini della società, un povero smemorato, un ricchione, una frotta di puttane. Questo qualcuno probabilmente non legge i giornali e non sa cosa è avvenuto nella caserma Levante di Piacenza: ambigui festini, spaccio di droga e arresti illegali, pestaggi ed estorsioni ai danni di vittime che non hanno mai avuto il coraggio o la forza di denunciare. Questo qualcuno non sa com’è morto Stefano Cucchi e, giusto per non lasciare il primato dell’orrore al nostro paese, non sa come è stato massacrato e seviziato il compianto Giulio Regeni, sì, certo, non in Italia, ma in una nazione il cui sistema giudiziario non è molto distante dal nostro a giudicare dalle condizioni in cui è tenuto il povero Patrick Zaki, senza credibili capi di accusa, senza processo. Il qualcuno in questione mi sa dire di che panni vestivano i seviziatori del povero Willy Duarte Monteiro? Che genere di trogloditi erano costoro? Gala non esagera, prova solo a dare voce a chi non ce l’ha e lo fa con l’enfasi della letteratura, l’unico strumento in suo possesso. Ma, per quanto urli, lo udranno in pochi. Qui non legge più nessuno e l’analfabetismo collettivo si nutre di pregiudizio. Ponete mente al personaggio di Turi Bunna, un omosessuale costretto a travestirsi e prostituirsi. Rende i suoi servigi ai caproni di mezza Merulana, ma l’intera Merulana lo ignora e neppure si accorge della sua scomparsa. Chi lamenta la sparizione di una prostituta o di un frocio? Non sono palpitante umanità, sono stracci logori da gettar via. Nessuno riflette sulle loro pene, sulle loro traversie. In questo romanzo gli unici esseri dotati di un minimo di empatia sono un gatto e un cane. Poi una giovane donna e un ragazzo, la prima per onesta pietà, il secondo per l’ansia di verità della giovane età. Volontari, in altre parole, che rischiano in prima persona. Svolgono una funzione che dovrebbe essere pubblica e finanziata dallo stato: la tutela della comunità dagli abusi delle istituzioni, l’assistenza gratuita per coloro che non sanno come muoversi nelle faccende giudiziarie o non ne hanno i mezzi. Non intendo la difesa d’ufficio, sulla quale si potrebbe a lungo discutere; intendo un vero e proprio ufficio, dotato di personale esperto e qualificato, capace di fungere da intermediario tra i cittadini e la Legge. Che non viaggia sullo stesso binario della Giustizia e, se il legislatore, qualche volta, azionasse uno straccio di scambio, uno scambio fatto di pietà e commiserazione, forse saremmo tutti meno animali. In Italia non avremo mai un’avvocatura del popolo. Magari siamo il paese più corrotto della terra, un paese orribilmente sporco. Gli unici a prendere le nostre parti sono i poeti. È per questo che Graziano Gala urla e il suo Urlo somiglia tanto all’omologo che nel 1956 rese celebre un giovane Allen Ginsberg e portò sul banco degli imputati il suo editore, Lawrence Ferlinghetti. |
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