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Quaderni di Archeologia Fantastica - di Giorgio Mancinelli

Argomento: Antropologia

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 30/08/2025 06:12:08

QUADERNI DI ARCHEOLOGIA FANTASTICA
Una collana di scritti di antropologia, fondata su reportage di viaggi, usi e costumi, tradizioni, musica canti e danze, racconti, fiabe e miti di numerosi popoli, studiati e narrati da Giorgio Mancinelli per RAI, RSI e riviste specializzate, che potete trovare in questo sito.

Strana materia l’etnomusicologia, non soltanto perché in realtà non si studia e tantomeno si apprende, soprattutto perché più di ogni altra la si rincorre e quando se n’è afferrato il concetto, si trasforma in una sorta di vocazione, che non porta né allori né denaro, o quel successo che spesso si pensa di rincorrere e che, invece, lascia soltanto un senso di frustrazione. Perché qualunque scoperta, ogni singolo avanzamento, rimane fine a se stessa, e va ad aggiungersi alla deontologia della ricerca, nel grande libro della conoscenza. L'etnomusicologia quindi, come branca ultima dell’esperienza etnologica propriamente detta, cioè rivolta allo studio delle tradizioni musicali e vocali dei popoli, che accoglie in un unico abbraccio tutta la musica, sia popolare sia colta. E che trova la sua funzione precipua nella altrimenti detta “musicologia comparata”, in quanto, uno dei suoi fini è mettere a confronto le musiche dei popoli di tradizioni diverse, anche là dove esistono sottili e importanti differenze. Entrata di straforo a far parte delle scienze ufficiali con ramificazioni in antropologia, archeologia e sociologia, l’etnomusicologia si attesta come scienza fonetica verso la fine dell’800, a opera dell’inglese Alexander John Ellis (*),a seguito di una ricerca sulle musiche orientali, intitolata: On the Musical Scales of Various Nations, trovandosi, fin da subito, ad affrontare le ormai vecchie argomentazioni sul problema delle origini della musica, col quale si erano già cimentati molti storici fino alla metà dell‘800, nell’intento mancato di dare delle risposte.
Precedentemente, la musicologia storica aveva ampiamente compreso quanto fosse ardito presumere che un fenomeno complesso come la musica potesse avere una sola e unica radice. In seguito, però, con l'avvento di nuovi metodi d’indagine e la progressiva comprensione di quanto fossero indicativi gli eventi sociologici concomitanti a quello musicale, si era giunti a capire come la musica fosse altresì portatrice di significati e valori diversi che variavano da cultura a cultura, la cui catalogazione e comprensione, giustificava di per sé la nascita di una nuova scienza musicologica: l’etnomusicologia, appunto. Con ciò si giunse anche al ripensamento del ruolo del ricercatore come persona diversa da quella che in un secondo tempo, avrebbe catalogato e analizzato i materiali sonori catalogati, mentre ancora quasi a metà del Novecento, si dava per scontato che la raccolta di documentazione fosse “effettuata sul campo”. In primo luogo, la nuova scienza etnomusicologica mise in dubbio alcune ipotesi che fino allora avevano goduto di credito come, ad esempio: la questione delle origini che, secondo alcuni, si era generata indipendentemente dal processo evolutivo, come concezione di un fenomeno prevalentemente estetico, mentre, per altri, e secondo me più correttamente, costituiva e tutt’oggi costituisce, una pratica funzionale a varie occasioni di socialità. In secondo luogo, e per certi casi addirittura eclatante, l’esclusione tout court della musica etnica (tribale o aborigena), e da qualunque catalogazione ufficiale, non rientrando nella scala fino ad allora conosciuta.
Allo stesso modo, contro le teorie tradizionali che scorgevano la fonte della musica nella sacralità religiosa cui tendeva la natura umana, nel timore delle forze cosmiche o di eventi violenti come la morte che, di per sé, rappresentavano un mistero incomprensibile. Ciò portò a un divulgato interesse verso “i popoli senza scrittura” (*), e al ripensamento dei vecchi concetti sulla struttura della società primitiva e la sua cultura, quale si era sviluppata nel corso dei trascorsi millenni. Alla quale andava, in qualche modo, riconosciuta la titolarità di un congruo materiale d’interesse etnografico, per gran parte ancora sconosciuto, solo perché non sufficientemente studiato, e che, pure, secondo alcuni ricercatori, rappresentava la fonte di contenimento della conoscenza primordiale. Premessa necessaria questa, che ci permette fin d’ora di stabilire la data di nascita e di elaborazione della nuova scienza antropologica, che sulla scia del darwinismo dilagante, permise a E. Burnett-Tylor (*) di elaborare una propria metodologia che metteva capo al riconoscimento dell’esistenza di una “cultura primitiva” in sé, omogenea e strutturalmente diversa da quella dei popoli civilizzati, in cui affermava che: “… lo stato selvaggio è la condizione primitiva di esistenza di tutti i popoli, da cui ha preso le mosse lo sviluppo dell’umanità”, e che nel 1871, anno di pubblicazione della sua opera più importante Primitive Culture, scandalizzò a dir poco l’opinione pubblica e scientifica.
Quantunque fosse necessario un riconoscimento scientifico, questo c’era già stato, e si andava affermando come un evento oltremodo straordinario, cominciato con la pubblicazione de L’Origine della specie del 1859, con la quale C. Darwin (*), di ritorno da un viaggio durato cinque anni intorno al mondo, riconosceva l’esistenza di una forma “strutturale” primigenia che poteva attribuirsi a tutte le specie viventi, e quindi anche all’uomo e che sconvolse l’allora modo di pensare riguardo la formazione non solo della natura ma soprattutto di noi stessi e del nostro passato, arrivando a formulare la tesi dell’evoluzionismo della specie, poi sfociata, nell’evento decisivo e fortemente rivoluzionario della teoria darwiniana che tanto influenzò le scienze sociali durante tutto il Novecento. L’intuizione di questo particolare processo sembra fosse pervenuto al naturalista inglese, come egli stesso ha affermato, da più parti: da un lato dall’osservazione degli effetti della selezione praticata dall’uomo sugli animali e sulle piante per produrre razze sempre più rispondenti ai requisiti cercati; dall’altro, dalla lettura del famoso Saggio sul principio della popolazione di T. R. Malthus (*), apparso all’inizio dell’Ottocento, che sosteneva che la popolazione umana tende ad accrescersi con ritmo assai più rapido che non i mezzi di sussistenza. Questo principio esteso a tutti gli organismi suggerì a Darwin il concetto di lotta per la sopravvivenza, quindi quello di selezione naturale delle specie. Con ciò, seppure la condizione attuale di alcuni popoli extra-europei rispecchiasse la stessa fase di sviluppo culturale attraverso la quale i popoli europei erano passati qualche millennio fa, l’osservazione dei primi e la ricostruzione del passato dei secondi consentivano, (nella metodologia comparata condotta congiuntamente), di individuare la fisionomia di tale stadio evolutivo, e di risalire all’orizzonte mitico e alla concezione animistica dell’uomo primitivo.
Era pur questo un punto di partenza, che in seguito altri studiosi, benché provenienti da discipline diverse, avallassero le teorie evoluzionistiche dei loro predecessori, permettendo alla nascente scienza antropologica di fare passi enormi nell’ambito dell’investigazione e approfondimento della cultura primitiva in ogni suo aspetto, anche secondario, purché utilitaristico (Spencer, Klemm, Spengler), fino ad arrivare alla contrapposizione, come nel caso di M. Weber (*) che in Kultur, ne distinse l’originaria attività creatrice. Finanche a evidenziarne il carattere precipuamente tecnico-scientifico quale enunciato da F. Tonnies (*) che in Zivilisation, secondo uno schema che traeva origine dall’antitesi tra “comunità” e “società” in cui la nuova scienza antropologica si sviluppava, recuperava quella che era l’essenza socio-evolutiva dell’oramai abusato concetto di “cultura”. Si dovette però attendere E. Durkheim (*) per considerare la causa determinate dei fenomeni culturali nella natura degli uomini (e delle società rispettive), primaria competenza dell’antropologia che, solo così osservata e studiata, si presentava come un insieme umanamente intelligibile, facendo dell’esperienza delle religioni dei popoli, una scienza tendenzialmente sociologica.
Né mancò chi (Malinowsky, Boas, Lowie, Spengler, Mauss), in opposizione alle teorie di quei primi ricercatori, avanzasse delle altre, talvolta anche ben strutturate, che respingevano il punto di vista storico-evolutivo adottato da Burnett-Tylor. Tuttavia il loro apporto è oggigiorno ancora illuminante per ricostruire i momenti anteriori al processo di avanzamento integrato del concetto di “cultura” propriamente detta, in mancanza del quale sarebbe ben presto destinata a scomparire. Si dovrà attendere la pubblicazione nel 1934 di Patterns of Culture di R. Benedict (*) per fare ritorno alla polarizzazione dell’impostazione darwiniana, quale premessa al relativismo culturale. Cui fece seguito un dibattimento che si prolungherà – seppure con successive riprese – fino alla metà del secolo (Parsons, Mead, Dewey) e oltre, fino alla “scienza del concreto” in cui l’individuo è studiato non semplicemente come soggetto culturale ma come specie, elaborata da C. Lévi-Strauss (*).
Due sono i testi fondamentali di questo autore che hanno segnato una vera e propria svolta concettuale in ambito scientifico: Antropologia strutturale e Il pensiero selvaggio (si veda anche Totemismo oggi), con cui, attraverso un sorprendente itinerario etnologico che registra miti, riti, credenze e altri aspetti culturali, egli accantona radicalmente ogni idea di “esotismo” della cultura. Il che non vuol dire “pensiero dei selvaggi” intesi nella loro figura tradizionale, primitiva e talvolta pittoresca, e ritrova la genesi dei nostri attuali schemi logici in una sorta di “ricerca del pensiero perduto” mettendo a fuoco un attributo universale dello spirito umano, i cui termini di paragone si possono trovare e quindi “cercare” proprio nelle società cosiddette “senza scrittura” che – dice in sintesi l’autore – “… finiranno col presentarci sorprendenti somiglianze con i modi di pensare operanti nei nostri paesi, oltre che nelle forme di sapienza popolare, arcaiche o recenti”.
L’etnomusicologo di oggi, in molti casi, sente quasi la necessità di diventare un frequentatore abituale della cultura che studia, sì da interiorizzarne i valori che essa contiene, sia comportamentali sia musicali, in modo da acquisire quanto è necessario alla sua comprensione. Se quasi tutte le teorie sulle origini della musica fino a ieri concordavano nel sostenere che gli inizi della musica furono costituiti dal canto, consistente in una sorta di cantillazione della parola, o come manifestazione vocale emozionale, oggi poco importa. Di fatto, in una situazione di equilibrio tra suono e parola, parlano gli strumenti, che sia la voce, oppure un flauto, o delle maracas, tutti sono ritenuti funzionali al prolungamento dell'azione ritmica originata dal corpo umano come produttore di suono che di linguaggio musicale, misurato sulla riproduzione dei suoni che sono in natura. E da cui la “musica” ha mosso i suoi primi passi nello sviluppo di un corrispettivo concetto di “cultura”, inteso come riconoscimento di forme organizzative sociali e di costume, anche di quei popoli tradizionalmente denominati “primitivi” che oggi rivendicano la propria autonomia culturale.
È però, il solo concetto di “cultura”, ancora in grado di assolvere il compito di giustificare l’autonomia della scienza antropologica? Per rispondere a tale interrogativo occorre tener ben presente che la crisi dell’antropologia, come anche dell’etnologia e delle scienze limitrofe, non differisce dalla crisi cui va incontro la cultura propriamente detta, almeno così come la stiamo vivendo oggi non è soltanto una crisi di metodo di ricerca. A un secolo dalla sua formazione, essa ha visto, infatti, scomparire il proprio oggetto originario – cioè la scomparsa delle società primitive – sotto l’urto della civiltà industriale e delle sue tecniche produttive, sotto la stimolo del processo di unificazione del mercato economico e commerciale su scala mondiale. Ma, piuttosto che andare a cercarne le cause, potremmo forse andare alla ricerca delle colpe, e anche lì finiremmo per ritrovarci a dover fare un “mea culpa” vergognoso e senz’altro poco dignitoso, sempre che la dignità abbia ancora un valore interscambiabile.
Oggi possiamo con certezza affermare che, il concetto di “cultura” come s’intende nel linguaggio comune, ha valicato i limiti disciplinari dell’antropologia, propriamente detta e delle stesse scienze sociali, per assumere una portata forse più “filosofica” ancor che scientifica, che ci permette di riconoscere l’esistenza di “altri” ambiti culturali rispetto ai quali è illegittima, oltre che illusoria, ogni presunzione di superiorità. Pertanto, in questo momento storico di degrado e indegnità, andare alla ricerca delle origini e delle tradizioni di una cultura in via di estinzione, non vuol dire riaffermare concetti polverosi se non addirittura obsoleti, quasi che la cultura abbia perduto la sua importanza, quanto invece dare significato di non lasciar cadere nel vuoto l’insegnamento ricevuto dal passato, quanto farsi parte integrante della nostra prospettiva storica e, soprattutto, dell’epoca in cui viviamo.
Per ottemperare a ciò dobbiamo riprendere il discorso dall’inizio, a quanto cioè è detto nel libro della Genesi (Antico Testamento), che: «In principio Dio creò il Cielo e la Terra, ora la Terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque». Ebbene tutto ciò ci lascia all’oscuro su quanto, accadde prima del principio, perlomeno, non in un senso per noi comprensibile, tale da riuscire difficile afferrare l’idea che possa esserci stato un principio e che un giorno probabilmente ci sarà una fine. Possiamo però immaginare che qualcuno debba esserselo chiesto fin dai primordi, altrimenti non si troverebbero così tanti miti e leggende sulla creazione del mondo, il cosmo e le costellazioni, sparsi nelle tradizioni orali di molti “popoli senza scrittura”, tra quanti ne sopravvivono sulla faccia della terra. Grazie alla ricerca antropologica, infatti, è oggi possibile rilevare in modo particolareggiato, il sostrato comune di alcune popolazioni stanziali, tra quelle organizzate in comunità, fra cui primeggiano quelle autoctone dell’Amazzonia, alle quali rivolgo questa mia investigazione, solo in parte svolta sul campo, con l’intento di far conoscere e rivalutare un patrimonio etnologico e culturale di forte impatto ambientale che, altrimenti, rischia di scomparire.
Affinché sia fin d’ora ben comprensibile, la ragione che mi spinge in questa ricerca, e richiamo qui l’attenzione sulle grandi emergenze ambientali dell’intero pianeta, proposte nei vertici internazionali (Summit di Stoccolma 1972, Rio de Janeiro 1992, Johannesburg 2002, Kyoto 2005) (*), trova risposta nel porre l’attenzione di come e quanto, la questione ambientale richieda una forte sensibilizzazione delle coscienze e di un’educazione degli individui, quale premessa irrinunciabile per un nuovo approccio verso le risorse naturali, compatibile con la lunga durata e con la crescita economica dell’attuale società. Onde affrontare i nodi concettuali legati al problema ambientale con una riflessione sulle linee teoriche della programmazione, quali: cultura ecologica, globalizzazione, sviluppo sostenibile, con apertura alla conoscenza e alla sensibilità verso una “cultura dell’ambiente” in cui rientri anche una riflessione sul tema dei diritti umani, prima che il clima e la vita stessa dell’uomo, sia irrimediabilmente modificato sulla faccia della terra.
Investigazione la mia, che si spinge a voler riconoscere agli Indios dell’Amazzonia la capacità di un sodalizio pieno con quella natura che ha permesso loro di sopravvivere all’interno di una realtà certamente più “ecologica” che quella cui noi andiamo alla ricerca, e che solo il buonsenso, a furia di avvertimenti, sarà in grado di tracciare sulla base delle fonti disponibili. Sono della convinzione che solo avendo il pieno controllo di “noi stessi” e del “mondo in cui viviamo”, potremo cambiare, un giorno, il quadro catastrofico che ci si prospetta davanti, e restituire all’umanità intera quella certezza di “vita” che, con l’adesione a nuove regole di realizzazione esistenziale, sapremo infondere all’ecosistema. Ovviamente per fare ciò bisogna prima che ci conosciamo, o comunque, lasciatemelo dire, seppure con un pizzico di nichilismo, che ci ricordiamo degli “altri”, tutti quelli che prima di noi hanno riconosciuto alla natura, il suo carattere primario di sostentamento alla sopravvivenza delle specie.
È quindi sulla scia di questa mia convinzione che mi sono spinto a oltrepassare le barriere che mi si ponevano davanti, a cominciare da quella linguistica, per approdare infine alla ricognizione di un territorio straordinariamente meraviglioso, quanto incredibilmente impraticabile e ostile per chi, come me, ostenta origini diverse, nonostante la mia propensione al viaggio e all’avventura. Sono altresì certo, e questa volta mantengo viva la speranza, che la ragione in fine sopravverrà sul miope egoismo dei governi e degli stati, così come sull’avidità e la cupidigia delle multinazionali che continuano imperterrite a sfruttare le risorse naturali, già abbondantemente sottratte al mantenimento degli equilibri, e contribuiscono con i loro veleni alla contaminazione dell’intero pianeta. Non a caso la maggiore consapevolezza che, l’incessante sottrazione delle risorse naturali da parte dell’uomo per far fronte alle proprie esigenze di sostentamento e di sviluppo non possa durare all’infinito, è stata rivolta all’attenzione mondiale con relativo successo.
Ciò è avvenuto in occasione di due fondamentali incontri, a cominciare da quello del lontano Summit di Stoccolma nel 1972, con la Dichiarazione sull’ambiente umano, e da quello successivo di Rio de Janeiro del 1992, titolato Summit della Terra, nel quale si denunciava l’esigenza di dover correre ai ripari per salvare il pianeta da una possibile catastrofe annunciata, con grosse implicazioni di carattere ambientale. Non in ultimi i successivi Summit di Roma 1996 (Agenda 21), sul piano del consumo critico sociale ed economico; UE 1993 e 2001 (Piani d’azione), altresì rivolti a una maggiore efficienza nell’uso delle nuove tecnologie e lo sviluppo delle energie alternative, quali: eolica, solare, ecc. rispetto alla ricaduta che tutto ciò ha poi sul sociale. E sugli aspetti culturali, quali l’educazione ambientale, il rispetto della sopravvivenza di popolazioni stanziali (si pensi alle etnie dell’Amazzonia), che vanno oltre i limiti della nostra conoscenza, inoltre, al riguardo di un maggiore controllo demografico che di vincolo paesaggistico, al fine di superare e ampliare la consueta accezione del concetto di sviluppo sostenibile, inteso come cooperazione solidale e protezione delle risorse agricole e alimentari.
Di conseguenza, dover conservare l’habitat naturale necessario alla sopravvivenza di molte specie animali, è prioritario nella scelta di politiche ambientali che attribuiscano maggiori responsabilità per chi attiva fattori d’inquinamento troppo spesso devastanti, che mettono a repentaglio la sopravvivenza stessa della specie umana, alcuni dei quali già attivi in modo incontrovertibile. Come, ad esempio, la concentrazione di gas nocivi nell’atmosfera (biossido di carbonio), le cui proiezioni dell’andamento climatico si ripercuoteranno sul pianeta almeno fino al 2100, secondo la previsione del “Protocollo di Kyoto 2005” (*); che anche ostacolino il costante saccheggio del capitale naturale, quali: aria, mari, fiumi, laghi, foreste, flora, fauna, territorio, almeno fino a quando non sarà prodotto dall’uomo un capitale di valore equivalente basato sul rendimento sostenibile. E cioè, come scrivono Tizzi-Marchettini (*), “che la velocità di prelievo sia almeno pari alla velocità di rigenerazione dell’ambiente”, nell’intento di dare così una risposta a quanti auspicano il raggiungimento di un equilibrio davvero sostenibile, capace di salvaguardare il destino dell’umanità, “… affinché le future generazioni possano avere almeno le stesse opportunità che la nostra generazione ha avuto”.
Vale qui la pena di soffermarsi a una qualche riflessione su almeno il primo dei 26 principi che compongono l’ormai nota Dichiarazione sull’ambiente umano del Summit di Stoccolma (già citato), in cui si dice che: “L’uomo ha un diritto fondamentale alla libertà, all’eguaglianza e a condizioni di vita soddisfacenti, in un ambiente che gli consenta di vivere nella dignità e nel benessere, ed è altamente responsabile della protezione e del miglioramento dell’ambiente davanti alle generazioni future. Per questo le politiche che promuovono l’apartheid, la segregazione razziale, la discriminazione, il colonialismo ed altre forme di oppressione e di dominanza straniera, vanno condannate ed eliminate”, nel cui documento finale, è inoltre riconfermato il principio che non solo l’ambiente necessita di essere salvaguardato ma, con esso, la crescita civile per la sopravvivenza di tutto il genere umano. Che dire, se poi continuiamo a ignorare chi siamo? Se continuiamo a chiederci quale futuro, ci aspetta?
È mia intenzione, infine, ricordare quanti, studiosi del folklore, etnologi, antropologi, sociologi musicologi, semplici scrittori e quant’altri che negli anni, in qualche modo, hanno contribuito alla mia formazione di ricercatore. In primis il Centro Nazionale di Studi di Musica Popolare (*), nella persona di Diego Carpitella (*); l’Istituto di Studi Musicali Comparati - Fondazione Cini, nella persona di Alain Danielou (*); e inoltre Leydi (*), De Martino, De Mauro, Di Nola, Pasolini, Mila, Tabucchi, Colocci, Netl, De Simone (*). E anche Fraser, Lomax, Sacks, Eliade, Schneider, De Vaux, Brailoiu, Lizts, Guenon, Chatwin, Lorca, Paniagua, e i tanti altri di cui ora mi sfuggono i nomi, che mi hanno insegnato, educato e meravigliato con le loro scoperte, con i loro scritti, i discorsi sull’importanza della musica popolare e, soprattutto, con l’aver dato corpo, attraverso registrazioni fonografiche, a quella letteratura, per lo più sconosciuta che, in qualche modo, riaffiora sempre in superficie. Nell’impossibilità di citare tutti quanti, fra discografici, produttori e tecnici del suono, che in passato, hanno collaborato alle trasmissioni radiofoniche da me redatte per la RAI (*), la RSI (Radio della Svizzera Italiana) (*), e Radio Vaticana (*), il cui utile apporto è in parte riportato in queste pagine, sebbene con intento diverso, e che, in certo qual modo, mi permette oggi di divulgare la mia personale “avventura musicale”, a tutti vanno il mio ringraziamento e la mia stima.

Ed è sulla scia di tutti costoro che mi hanno insegnato ad amare la musica nella sua essenza, con le sue sfumature, i suoi colori, i suoi ricordi del passato, che più sento il dovere di trasmettere alle giovani generazioni il “messaggio” da me ricevuto, affinché non tutto infine vada perduto. E che pure torno su una citazione azzardata, quella stessa che ha risvegliato in me il grande senso di responsabilità che mi porterei dietro, se lasciassi cadere nel dimenticatoio quanto ho fin qui appreso, senza restituirlo alla sua universalità. Come pure è nell’Antico Testamento: “Non sta a voi completare l’opera, ma non per ciò siete liberi di astenervene”.

Note:
(*) Alexander John Ellis “On the Musical Scales of Various Nations” - HTML transcription of the article on the Journal of the Society of Arts – London 1885
(*) Darwin “L’origine della specie” - Newton Compton 2007
(*) E. Burnett-Tylor “Primitive Culture: Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, Language, Art and Custom, 1871 - “Anthropology: an Introduction to the Study of Man and Civilization, 1881” -
(*) Ibidem
(*) Max Weber “Studi critici sulla logica delle scienze e della cultura”, 1906
(*) F. Tonnies “Zivilisation“ ………………….
(*) Ruth Benedict “Modelli di cultura”- Laterza - 2010
(*) Lévi-Strauss “Antropologia strutturale”, “Il pensiero selvaggio”- Il Saggiatore 1992
(*) H. C. Puech “Storia delle religioni: I popoli senza scrittura vol.II” – Laterza Bari 1978
(*) Summit vari………………………………..
(*) Summit di Kyoto ………………………….
(*) Summit di Stoccolma …………………….
(*) E.Tizzi-N. Marchettini “Cos’è lo sviluppo sostenibile” – Donzelli 1999
(*) Ibidem
(*) Curt Sacks “La musica del mondo antico” – Sansoni Ed. Firenze 1981
(*) Augusto Romano “Musica e psiche” – Bollati Boringhieri – Torino 1999
(*) G. Mancinelli – R. M. Caballero “Futuro ambientale e Sviluppo sostenibile” – Università degli Studi “La Sapienza” – tesi di laurea in “Scienze della Comunicazione” Roma
(*) G.Mancinelli “Musica Zingara: testimonianze etniche della cultura europea” – MEF – Firenze Atheneum 2006
(*) G.Mancinelli “Miti di sabbia: racconti perduti del Sahara” - ilmiolibro.it 2010 – Terra Incognita – Rivista on-line 2011
(*) G.Mancinelli “Maschere Rituali” …………………………
(*) Studi Musicali Comparati - Fondazioni Cini –“Attestato” Venezia …………..
(*) R. Leydi - G. Mancinelli “L’Albero di Canto” (inedito) - DAMS Bologna - Italy
(*) R. De Simone – G. Mancinelli presentazione “La Tradizione in Campania” – EMI collana discografica 1979
(*) A. Danielou - J. Cloarec - G. Mancinelli “Musical Atlas” – UNESCO-EMI collana discografica.
(*) G. Mancinelli – RAI Due – RAI Tre: “Folkoncerto”, “Maschere Rituali”, “Cantarballando di Regione in Regione”,
(*) G. Mancinelli - RSI: “Itinerari Folkloristici”
(*) G. Mancinelli - Radio Vaticana, Studio “A”: “Natale vuol dire..”, “Pasqua, tempo di resurrezione”, “Viaggio in Italia”

(continua)



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