Pubblicato il 31/08/2025 02:59:00
Aguas de Amazonas (origini e tradizioni di una cultura in via di estinzione)
Prolegomeni al viaggio.
Prima di stabilire un qualsiasi itinerario ho la pessima abitudine di pormi alcune domande sulla ponderabilità della mia decisione e, ancor prima dei soliti interrogativi: come, dove e quando, mi chiedo sempre, perché? Perché ho scelto gli Indios dell’Amazzonia mi sembra di averlo spiegato ampliamente nell’introduzione, mentre invece non mi sono ancora dato una risposta per ciò che riguarda il concetto di “cultura originaria” e quello di “cultura primitiva” alla base delle conoscenze e dei parametri sociologici che le contraddistingue. Nel linguaggio comune, la differenza essenziale fra le due forme, sta nelle dimensioni “tribali” (quantità delle persone che ne fanno parte); nella forma di coesione (sussistenza di diverse tribù che vivono nello stesso posto); nonché nell’efficacia delle diverse forme di comunicazione paritetiche. Nel caso specifico, attribuibili alle diverse etnie che vivono nella riserva equatoriale dello Xingu e zone limitrofe, lì dove la foresta amazzonica si espande ai corsi dei numerosi fiumi che s’intersecano sul territorio fino a lambire gli stati del Perù, dell’Ecuador, del Venezuela e più ampiamente quello dell’odierno Brasile. Qui, il concetto di cultura, vale a dire quello stesso elaborato dall’odierna scienza antropologica, intenta a riconoscere il valore delle forme di organizzazione sociale e dei costumi dei popoli, anche di quelli tradizionalmente definiti “primitivi”, coincide in larga misura con la forma “strutturale” delle società tribali di riferimento, che si basa sul ricostituito interesse verso quei popoli “senza scrittura” che oggi rivendicano la propria autonomia. Popoli di grande interesse etnologico, che possiedono un vastissimo materiale etnografico accumulato nel corso dei secoli, e in parte ancora sconosciuto, perché non sufficientemente studiato, alla cui raccolta hanno contribuito studiosi di più note discipline a decorrere dalla metà dell’Ottocento, Nient’altro che un punto di vista storico-evolutivo di tipo illuminista ma che lo condusse a individuare nell’organizzazione sociale primitiva, la fase originaria di sviluppo dell’umanità, una fase che, secondo Tylor, si presentava con caratteri piuttosto uniformi o analoghi presso tutti i popoli. Ma, mentre per la cultura illuministica lo stato selvaggio si configurava come uno stato fondamentalmente asociale (verso i gruppi etnici diversi), Tylor attribuiva a esso una forma peculiare di organizzazione, che era poi, come per Darwin, nient’altro che l’organizzazione della società primitiva posta in luce dalle grandi opere antropologiche del passato. Difatti, il suo sforzo metodologico era diretto soprattutto a elaborare i procedimenti mediante i quali pervenire alla determinazione delle caratteristiche della cultura primitiva: da una parte lo studio comparativo dei costumi dei popoli ancora rimasti allo stadio selvaggio, come le tribù indigene africane, amerindie e australiane; dall’altra, lo studio delle sopravvivenze di una fase culturale anteriore che era possibile rintracciare nei costumi dei popoli civilizzati. Va da sé che la condizione attuale di alcuni popoli extra-europei rispecchiava la stessa fase di sviluppo culturale attraverso la quale i popoli europei erano passati qualche millennio prima, tuttavia, allo sguardo della nuova metodologia comparata condotta congiuntamente, l’osservazione dei primi e la ricostruzione del passato dei secondi consentivano, di individuare la fisionomia di tale stadio evolutivo, nonché di risalire all’orizzonte mitico e alla concezione animistica dell’uomo primitivo. Era pur questo un punto di partenza rivoluzionario, che altri studiosi, in seguito, avallarono e che permise alla nascente scienza antropologica di fare passi enormi nella direzione giusta. Soprattutto perché, operando in campi molto diversi dall’antropologia, poterono investigare e approfondire ogni aspetto, anche secondario, nonché utilitaristico della cultura primitiva (Spencer, Klemm, Spengler), fino ad arrivare alla contrapposizione, come nel caso di Weber (*) che in Kultur, ne distinse l’originaria attività creatrice. Finanche a rilevare il carattere puramente tecnico-scientifico che F. Tonnies (*) enunciò in Zivilisation, secondo uno schema che traeva origine dall’antitesi tra “comunità” e “società” in cui, la nuova scienza antropologica, si sviluppava trovando la propria essenza nell’oramai abusato concetto di “cultura”. Né mancò chi (Malinowsky, Boas, Lowie, Spengler, Mauss ), più o meno in opposizione alle teorie scientifiche di quei pionieri, ne avanzassero delle altre, talvolta ben strutturate che respingevano il punto di vista storico-evolutivo adottato da Tylor. Tuttavia il loro apporto è oggigiorno ancora illuminante per ricostruire i momenti anteriori del processo di avanzamento integrato della cultura propriamente detta, senza il quale sarebbe ben presto destinata a scomparire. Si dovrà attendere la pubblicazione nel 1934 di Patterns of Culture di Ruth Benedict (*) per tornare alla polarizzazione dell’impostazione darwiniana come premessa al relativismo culturale, con l’avvio di un dibattimento che si prolungherà – seppure con successive riprese – fino alla metà del secolo (Parsons, Mead, Dewey) e oltre, e che introdurrà la “scienza del concreto”: in cui l’individuo è studiato non semplicemente come soggetto culturale ma come specie antropologica sociale, elaborata da Lévi-Strauss (*). Due sono i testi fondamentali di questo autore che hanno segnato una vera e propria svolta concettuale: Il pensiero selvaggio del 1962 e Antropologia strutturale del 1966 (si veda anche Il totemismo oggi), con cui, attraverso un sorprendente itinerario etnologico, che registra miti, riti, credenze e altri aspetti culturali, l’autore accantona radicalmente ogni idea di “esotismo” della cultura, che non vuol dire “pensiero dei selvaggi” intesi nella loro figura tradizionale, primitiva, talvolta pittoresca, e ritrova la genesi dei nostri attuali schemi logici in una sorta di “ricerca del pensiero perduto” mettendo a fuoco un attributo universale dello spirito umano, i cui termini di paragone si possono trovare e quindi “cercare” proprio nelle società cosiddette “senza scrittura” che – dice in sintesi l’autore – “… finiranno col presentarci sorprendenti somiglianze coi modi di pensare operanti nei nostri paesi, oltre che nelle forme di sapienza popolare, arcaiche o recenti”. È però il solo concetto di cultura ancora in grado di assolvere il compito di giustificare l’autonomia della scienza antropologica? Per rispondere a tale interrogativo occorre tener ben presente che la crisi dell’antropologia, come anche dell’etnologia e delle scienze limitrofe, non differisce dalla crisi cui va incontro la “cultura” propriamente detta, almeno così come noi la stiamo vivendo oggi, non è soltanto una crisi di metodo di ricerca. A un secolo dalla sua formazione, essa ha visto infatti scomparire il proprio oggetto originario – cioè la scomparsa delle società primitive sotto l’urto della civiltà industriale e delle sue tecniche produttive, sotto la spinta del processo di unificazione del mercato economico e commerciale su scala mondiale. Ma piuttosto che andare a ricercarne le cause, potremmo forse andare alla ricerca delle colpe, e anche lì finiremmo per ritrovarci a dover fare un “mea culpa” vergognoso e senz’altro poco dignitoso, sempre che la dignità abbia ancora un valore interscambiabile. Assai poco si tiene conto di un autore, o meglio di uno scienziato e del suo “alter ego” che sono Sigmund Freud (*) con L’interpretazione dei sogni del 1900; e C.G. Jung (*) con Gli archetipi e l’inconscio collettivo del 1934/1954, le cui teorie (che sembrerebbero l’una consequenziale all’altra, tali da potersi rappresentare con un simbolo che si rincorre, del tipo Yin e Yang), hanno in parte stravolto, invero molto in profondità, le coscienze scientifiche e i modi di pensare delle ultime generazioni del secolo fino ai giorni nostri. Un’opera soprattutto va qui presa in considerazione, si tratta di Totem e tabù, del 1913, in cui Freud analizza un aspetto psichico e comunque antropologico nei “primitivi” (in questo caso si tratta degli aborigeni australiani), in cui il totem (*) ricopre un ruolo analogo all’immagine del (dio) padre, centro di sentimenti ambivalenti di odio e amore, che appunto sfocia nella religiosità. Come oggetto di venerazione il totem restituisce al padre l’affetto (e il rispetto dovuto) dei figli, mentre il tabù (*) lo difende dai loro impulsi aggressivi. Niente di così complicato quanto invece affascinante e suggestivo, se si tiene conto che nella nostra mente si sviluppa qualcosa come il sogno, la cui accezione di totem sta alla religione come tabù sta a religare, cioè “unire in una complessa relazione gli elementi emotivamente più significativi che nel mondo interno (la psiche) dell’individuo hanno acquisito un significato sacrale” (*), che ripercorre le tappe di un’indagine svolta sul sogno e sulla sua interpretazione e che si presta per esplorare le radici più profonde della storia dell’umanità. “In un certo senso possiamo pensare alla storia dell’umanità come a un continuo e costante lavoro sul sogno, come a una ininterrotta trasformazione del latente nel manifesto, del nascosto nel rivelato” (*), come a ciò che nei “primitivi” della Foresta Amazzonica, appare come evento che risente della loro visione del mondo e della natura che li circonda, della loro mentalità prelogica, dominata dalla magia e da una logica bivalente simmetrica e asimmetrica. Incominciamo quindi a conoscerci, magari, e perché no, attraverso la musicologica comparata rivolta alla realtà etnica di popolazioni originali, come appunto, quella degli Indios dell’Amazzonia, con l’ausilio del mezzo comunicativo, universalmente riconosciuto che è la magica comunicativa della musica. Non un mezzo qualunque, casuale, discordante, bensì che dimostra tutta la sua capacità di evocare emozioni, addirittura superiore, in molti casi, a quella della parola scritta o delle arti visive, e che ci permette di riscoprire, pur nell’apparente arcaicità di un modo di vivere e pensare lontani dai nostri, quell’autenticità d’impostazione sociale diversa che può senz’altro essere d’aiuto nella così tanto auspicata comprensione tra i popoli e del mondo in cui viviamo. Scrive Curt Sacks (*), che “La musica, immateriale e labile (almeno per quanto riguarda le origini) dà forma a un’esperienza che può essere e sarà in parte rivissuta dalle nuove generazioni nonostante i limiti posti dalla concezione primitiva, come la lotta titanica dell’uomo per stabilire saldamente le sue leggi nella natura e per darle forza ed efficacia tali da esprimere quanto gli uomini sentono: disperazione e gioia, amore, timore e speranza”. Cui fa eco Augusto Romano (*): “Da sempre la musica è considerata un ponte tra il mondo che noi abitiamo e il regno dell’invisibile, la cui realtà misteriosa e sfuggente è impossibile trascrivere nei termini del linguaggio discorsivo. È l’albero che nell’orecchio sorge (Rilke), le cui radici affondano nelle regioni oscure e caotiche della psiche e le cui chiome toccano i cieli intatti dello spirito”. Realtà questa, che mi permette ancora una volta di affermare un principio fondamentale in cui davvero credo: “È nello scoprire il fascino profondo della musica che l’infinita ricerca di noi stessi si amplia di nuovi importanti capitoli che vanno ad aggiungersi a quella “storia universale” che noi tutti stiamo scrivendo” (*). Quanto ci aspetta in seguito, è dunque un’avventura di viaggio, alla ricerca di miti e leggende, per lo più di tipo animistico, che ritroviamo sparse nelle credenze e nelle tradizioni oralmente tramandate da numerosi gruppi presenti sul territorio, e riferite a un “tempo senza memoria” lontanissimo, o forse dimenticato. Una sorta di “nostalgia delle origini” maturata all’interno di un processo rituale assai variegato e una simbologia complessa, che dischiude a noi (esseri civilizzati e sempre più globalizzati), un mondo in parte sconosciuto che non si presta a essere raccontato con le parole. Semmai attraverso l’iniziazione sciamanica, o forse nell’uso arcaico delle maschere rituali, altresì narrato in musica, e che assume qui il significato di voler recuperare quella “eccellenza di stile di vita” che noi, post-moderni, non solo disconosciamo, ma che abbiamo definitivamente perduto. Un mondo di suoni fonosimbolici, di vocaboli onomatopeici, imitativi dei versi animali che qui trovano il loro habitat naturale, considerati i dominatori assoluti della grande Foresta Amazzonica che da sempre li accoglie. Racconti e narrazioni quindi, appartenenti alle diverse etnie tribali qui idealmente riunite a formare un unico tipo antropologico che ho cercato di ridefinire dentro un determinato rapporto sociale che li accomuna. Così, come precedentemente da me svolto per i popoli di etnia Rom (*), e successivamente per i nomadi del Sahara (*), più che una ricerca, questa, vuole essere una ricognizione di quanto rimane di una cultura in via di estinzione, quella appunto degli Indios dell’Amazzonia. Non solo incentrata sul fatto musicale, bensì rappresentata dalla fabbricazione di capanne e villaggi, di strumenti e utensili, di canoe e ceramiche, da tatuaggio e body-art, con particolare riferimento all’utilizzo delle maschere rituali (*) destinate ad assicurare loro la sopravvivenza animistica ad alti livelli trascendentali. Abituati come sono a credere solo alle esperienze che possono fare attraverso i sensi, i “primitivi” tendono a trasferire il fantastico del sogno nel reale e a conferire alle metafore cui ogni sogno si affida un significato concreto. Ecco che le forze mistiche da cui si sentono permeati da ogni parte vengono a inserirsi così nella realtà individuale e sociale cui aderiscono fin dalla loro nascita. È così che nel loro fantasticare, il sogno di esseri soprannaturali, meglio ancora connaturati con la natura che li circonda, quel mondo visibile e al tempo stesso invisibile, si confondono, per assumere nella rappresentazione, ad esempio della musica o di una danza, ancor più di un travestimento o di una maschera, un’assoluta concretezza. Tuttavia ciò non sarebbe stato così, e noi vivremmo ancora nell’ignoranza, se non fosse che l’importanza dei concetti di “archetipo” e di “inconscio collettivo” elaborati da Jung attraverso più approfondite ricerche umanistiche, non ci avessero illuminato la mente sulla concretezza dell’esperienza psicoanalitica, portata alla nostra conoscenza e posta all’origine delle cose e dei fatti. Oggi, possiamo indubbiamente affermare che, il concetto di “cultura” come lo si intende nel linguaggio comune, ha valicato i limiti disciplinari dell’antropologia propriamente detta e delle stesse scienze sociali, per assumere una portata “filosofica” forse più ancora che scientifica, che ci permette di riconoscere l’esistenza di “altri” ambiti culturali rispetto ai quali è illegittima, oltre che illusoria, ogni presunzione di superiorità. Pertanto al momento andare alla ricerca delle origini e delle tradizioni di una cultura in via di estinzione, non significa voler riaffermare concetti polverosi se non addirittura obsoleti, quasi che la cultura abbia perduto la sua importanza, quanto di non lasciar cadere nel vuoto l’insegnamento ricevuto dal passato quale parte integrante della nostra prospettiva storica e, soprattutto, dell’epoca in cui viviamo.
Note: (*) T. R. Malthus “Saggio sul principio della popolazione” – Einaudi 1977 (*) S. Freud “L’interpretazione dei sogni” - “Totem e tabù”- Newton Compton 2010 (*) C.G. Jung Gli archetipi e l’inconscio collettivo – Bollati Boringhieri 1997 (*) totem: In antropologia, un totem è un'entità naturale o soprannaturale, che ha un significato simbolico particolare per una singola persona o clan o tribù, e al quale ci si sente legati per tutta la vita. In alcune correnti pagane, si usa "evocare" all'occorrenza dentro di sé il Totem di un animale (per es.: in una situazione pericolosa si evoca l'animale Totem del Lupo) al fine di incorporare le caratteristiche più istintuali e utili alla situazione che sono proprie di quell'animale. In alcuni culti sciamanici, il totemismo si avvicina al concetto di "possessione volontaria" poiché i praticanti di queste discipline antiche e primitive entrano in un contatto così profondo con lo "spirito" dell'animale Totem da esserne "soggiogate", prendendone persino alcuni atteggiamenti ed abitudini oltre che, come si suppone, le loro abilità. (*) tabù: In una società umana un tabù è una forte proibizione (o interdizione), relativa ad una certa area di comportamenti e consuetudini, dichiarata "sacra e proibita". Infrangere un tabù è solitamente considerata cosa ripugnante e degna di biasimo da parte della comunità. Il termine è derivato dalla lingua di Tonga ed è presente in numerose culture polinesiane. In queste culture un tabù (o tapu, kapu) ha anche significati religiosi. Il termine tabù (tapu) appartiene allo stesso ambiente culturale che ci ha fornito il termine mana. Quando una certa azione o abitudine è classificata come tabù, essa viene proibita, vengono istituite proibizioni e interdizioni riguardanti la sfera di attività che la riguardano. Alcune di esse sono sanzionate dalla legge con pene severe, altre provocano imbarazzo, vergogna e sono oggetto di insulti. Non esistono tabù universali, cioè presenti in tutte le società, ma alcuni (come il tabù dell'incesto) si ritrovano nella maggior parte di esse. I tabù possono avere varie funzioni e spesso accade che essi rimangano in effetto anche quando i motivi originali che li avevano ispirati non sussistono più. Per questo motivo alcuni sostengono che i tabù aiutano a scoprire la storia di una società quando non ci sono altri documenti a testimoniarla. I tabù a volte sono talmente forti da coprire anche le stesse discussioni che li riguardano, col risultato che, a volte, in queste discussioni, invece di nominarli esplicitamente, si ricorre a termini edulcorati (eufemismi) oppure alla semplice sostituzione del termine con altro più o meno equivalente. Marvin Harris, esponente di spicco del materialismo culturale, si è sforzato di spiegare la genesi dei tabù come diretta conseguenza delle condizioni ambientali ed economiche delle società nel cui ambito essi si sviluppano. Anche Sigmund Freud ha dato un contributo all'analisi dell'influenza dei tabù sul comportamento umano, mettendo l'accento sulla forte componente motivazionale inconscia che porta a considerare necessaria una certa proibizione. In questa sua visione, descritta nella collezione di saggi Totem e Tabù, Freud ipotizza un nesso fra i comportamenti "proibiti" e la "santificazione" di oggetti e simboli appartenenti a determinati gruppi di soggetti fra di loro affini. (*) M. Mancia “Il sogno come religione della mente” - Laterza 1987
Leyenda antes, (o del mito de la creación).
In principio regnava nell’universo l’oscurità, perché non vi erano né il sole né il giorno. Quando albeggiava, era come una notte di luna. Eppure, nei tempi dell’oscurità, già esisteva Yaya, il nostro Gran Padre Iddio. Egli, nostro padre, creò l’uomo, plasmando la sua forma con la terra. perché tutti avessero il gran dono dell’esistenza, plasmò la creta e generò i runas (i futuri Indios); li fece eretti e sul loro capo soffiò l’alito divino, così essi divennero esseri pensanti. L’uomo modellato da Dio, nostro Padre, viveva, camminava, pensava e parlava. Vi era anche un demonio, il supay, il quale, per imitare Dio, prese anch’egli della terra e tentò di modellarla. Ma invece del runa, formò una wangana. Più volte rinnovò i tentativi, il supay, ma tutti fallirono. Nostro Padre Iddio invece così fece: mise della terra in un recipiente e lo chiuse con del cotone. Poi: “Apri!” disse al figlio. Il figlio lo aprì e ne uscirono tanti omettini, “migliaia di verdi creature dai lunghi capelli”, piccoli ma vivi, dotati del giudizio, che parlavano e camminavano. Così, avvenne la creazione dei runas, i primi esseri viventi,e di alcune razze animali che per prime si mostrarono alla vista uscendo dall’acqua, e che presero a camminare sopra la Terra.
Alcune specie umane dimoravano già vicino ai grandi fiumi della foresta amazzonica, e lì vivevano indisturbati sotto la protezione di Yaya (il Sole), e di Killa (la Luna) e delle altre stelle, cacciando, pescando, coltivando e raccogliendo i frutti selvatici che una natura generosa produceva per loro. Probabilmente generati da quegli stessi vegetali che crescevano copiosi e che avevano dato luogo al “grande verde” delle origini, i runas erano strettamente legati agli elementi vitali della natura, quali la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco, e ai supremi “spiriti” che loro stessi avevano creato. Molto tempo prima della loro comparsa c’era soltanto Yaya (il Sole), divinità suprema che aveva generato la Pacha Mama (la Terra) con un semplice soffio, scagliandola nell’infinito ove dimora. Questa scivolò nello spazio come nebulosa infuocata e continuò a bruciare fino a che il dio Tuono ordinò che vi cadessero sopra mille anni di pioggia che la sommersero completamente, confinando il dio Fuoco dalla cresta allagata della Terra e penetrando nelle sue viscere, dove risiede in eterno. E poiché la Terra era così diventata molto fredda, il dio Tuono chiese al Sole di tornare a illuminarla e riscaldarla di tanto in tanto, dando inizio così alla successione del giorno e della notte. Dacché i fiumi e i laghi si colmarono di pesci e nacquero i primi vegetali che ben presto si trasformarono in molteplici piante e una gran quantità di fiori dalle forme variegate e moltissimi colori. Le piante e gli alberi tutt’intorno si riempirono di uccelli dalle piume variopinte e di scimmie barbute che insieme facevano un’indicibile gazzarra; e coccodrilli, api, ragni, serpenti, iguane, tartarughe, tapiri, giaguari e un numero esorbitante di farfalle colorate che s’inoltrarono a cercare riparo nella folta vegetazione che cresceva a dismisura sopra la linea dell’orizzonte, offuscando, talvolta, l’azzurro del cielo e i raggi del Sole imperioso. Poi, all’improvviso, i giorni si fecero scuri, e le notti nella foresta divennero fredde. Il dio Tuono era tornato, irato non si sa per quale motivo, apparentemente senza una ragione, con tuoni che esplodevano uno dopo l’altro e che spaccavano il cielo facendolo precipitare verso il basso. Il diluvio che ne seguì, sconvolse ogni cosa, i grandi fiumi e i laghi, i mari e gli oceani, per cui i pesci si nascosero nelle profondità lontane degli abissi. Distrusse gli uomini e le cose, l’intera foresta e la selvaggina, fino a spegnere tutti i colori, fino a raccogliere in un unico frastuono, tutti i suoni, nell’urlo infuriato dell’uragano. Fu così che gli Indios sopravvissuti alle ansie apocalittiche, divennero i protagonisti di un’avventura umana che, attraversando il luogo impervio e inaccessibile della foresta, s’incamminarono attraverso il cuore verde del mondo: “la terra dove non si muore”.
Dal diario di viaggio: 23/24/25 Giugno 1986.
È appena terminata la stagione delle piogge e i grandi fiumi che attraversano l’Amazzonia sembrano aver rallentato la folle corsa che fin dal mio arrivo mi aveva impressionato per l’eccezionale portata d’acqua, il cui rombo sommesso, sembrava infuriare spaventosamente. Quasi che la “grande anaconda verde” – così gli Indios chiamano il Rio delle Amazzoni – stesse per uscire dall’alveo primordiale in cui è confinata, per inondare la terra che la circonda, e volesse strappare, con la sua furia impetuosa, la folta vegetazione della foresta e travolgere ogni essere vivente, umano e animale che incontri sul suo cammino, apparentemente senza fine. Il rumore emesso dall’enorme massa d’acqua in movimento sovrasta quello del piccolo battello a motore sul quale viaggiamo, dal nome surrealistico quanto fatuo, la Estrella de Azul che, solo più tardi, avrei scoperto essere riferito ad altro nome con cui gli Indios sono appellati, “il popolo delle stelle”. Il battello quasi arranca da sembrare, in certi momenti, fermo nel mezzo della massa d’acqua che si oppone alla ferrea volontà dell’imbarcazione, ostinata più che mai, a risalire la corrente. Tutt’attorno, i luoghi sono quelli sconosciuti e certamente straordinari che attraversano la più grande distesa verde del mondo, ricca di colori vivacissimi che esplodono improvvisi, e di richiami melodiosi di uccelli e di versi di animali sommessi, nascosti alla vista, che altrettanto fulminei irrompono nel silenzio come grida. Una natura lussureggiante che erompe dagli argini e si getta nell’acqua di un colore verde smeraldo in cui si sprigiona tutta la forza del creato che, secondo la profondità del fondale e alla pendenza scoscesa del fiume, trascina tutto con sé, fino a diventare una sorta di via maestra verso l’ignoto. Qui il silenzio, se si esclude il rombo sommesso del fiume, è profondo, quasi che neppure l’aria abbia consistenza alcuna, tale da procurare fastidio finanche il solo voltare la pagina del quaderno dove appunto le mie impressioni di viaggio, e tutte le altre cose “meravigliose” che fanno di questa mia “avventura” un prezioso riassunto di quello che d’ora in avanti vado a descrivere. Dove anche quelli che sono i racconti e i particolari usi che apprendo oralmente, e che Horacio, la guida del gruppo di cui faccio parte, traduce per noi direttamente dal racconto diretto di alcuni Indios più anziani, che incontriamo durante una prima sosta in un villaggio costiero, e che accoglie un numero esiguo di indigeni per lo più appartenenti a tribù diverse, sopravvissuti allo sterminio programmato, che li ha ridotti a poche migliaia, e costretti alle ristrettezze di una vita di stenti, all’interno della riserva del Parco Nazionale dello Xingu, cosiddetto dall’altro grande fiume che s’inoltra nella foresta amazzonica. Si tratta di racconti mitici riguardanti la cosmogonia amazzonica, in cui si narra di luoghi che potrebbero essere o, essere stati reali, da qualche altra parte, in un altro tempo, forse lontano, molto lontano dalla civiltà di cui tutti noi “altri” facciamo parte. E di figure e personaggi fantastici, di eroi semi divini, animali della foresta e spiriti buoni e malvagi significativi delle inquietudini, delle speranze e dei terrori che albergano nell’animo di queste popolazioni tribali che pure, conservano un patrimonio culturale molto considerevole, da ritenersi solo per certi aspetti “primitivo”, quanto dettato invece dall’esigenza primaria della sopravvivenza delle specie.
Leyenda secunda, (o del agua y del fuego).
All’origine dei tempi, il mondo fu distrutto dal fuoco, un cataclisma spaventoso, tutta la foresta era infuocata… iri… iri… iri... Tutto bruciò e nel mondo rimase solo cenere. Cercando disperatamente di salvarsi, alcuni runas (gli uomini) si trasformarono in cervi, in armadilli, in lombrichi, in vacche della selva. L’armadillo-runa si nascose sotto terra, mail suo guscio fu lambito dal fuoco; ed è per questo che oggi il dorso degli armadilli è nero e durissimo… iri… iri… iri... Chundaruku, il cervo-runa, vedendo avanzare la linea del fuoco che distruggeva tutto, si arrampicò svelto su una palma impregnata d’acqua più delle altre e che per questo non sarebbe bruciata facilmente. Pertanto la tagliò e la usò come barriera contro il fuoco, riuscendo così, a lasciarsi il fuoco alle spalle, ma le sue zampe non furono risparmiate e sono tutt’ora nere… iri… iri… iri... Altri runas si trasformarono in lombrichi, molti di essi riuscirono a salvarsi, ma la maggior parte di loro perì. Solo dopo questo grande cataclisma Yaya creò altri uomini e fece loro dono del fuoco. Dal niente lo trasse, e il prezioso dono scaturì dal suo pensiero e dalla sua forza nella pietra focaia… iri… iri… iri... È questa conosciuta leggenda dai contenuti fantastici, che fa dell’Indios un detentore del messaggio ancestrale della natura, di cui gran parte è andato perduto nell’attraversamento dei millenni, ma la cui scomparsa , almeno di quel poco che ne rimane, è costantemente minacciata. “Quando si tralascia la conoscenza di ciò ch’è stato, quello che rimane è solo un grande vuoto e un senso d’infinita tristezza” – recita un canto di anonimo tribale, che Horacio ci riporta, lasciandoci intendere che è raccolto nella saggezza dei semplici il senso di questa come di altre fiabe che ci aiutano a penetrare la mentalità genuina quasi primordiale degli Indios, così lontana dalla nostra. E che forse, proprio per questo, più vicina a quelle verità fondamentali che solo uno studio approfondito (e comparato) può restituire alla conoscenza, che ci permette di capire dove l’uomo moderno, ha sbagliato in passato e continua a sbagliare oggi, nell’ignorare un tale patrimonio ambientale e culturale, senza aver compreso che ne vale la sua stessa sopravvivenza. In un'altra ancora è detto, che: Molto tempo dopo Yaya pensò di fare un fiume e lo progettò in maniera che da una parte l’acqua fluisse verso il basso e dall’altra verso l’alto. Nel mezzo vi sarebbe stato un vortice. Così, senza alcuno sforzo, i runas avrebbero potuto viaggiare verso l’alto o verso il basso, a seconda del lato che sceglievano. Però il piano non riuscì come essi volevano: sopra, infatti, vi era la sorgente del fiume e da lì tutte le acque fluivano verso il basso. Il racconto di questa breve “fola” spiega, molto semplicemente, difficoltoso in altro modo che non sia un linguaggio infantile, la combinazione della “creazione” di due fiumi che, scaturiti da una stessa sorgente, si dirigono su due versanti diversi, e con la quale si vuole qui significare la possibilità di scegliere la via più consona al proprio destino. Un modo poetico di interpretare quelle che sono le “vie” possibili e infinite del cielo, cui le “grandi via d’acqua” per corrispondenza con la mentalità indigena, da sempre segnano una “via” da seguire, un inizio ma non la fine. Ritenuti i discendenti di popolazioni autoctone precolombiane, gli Indios superstiti abitatori della foresta amazzonica, hanno mantenuto consuetudini e costumi del tutto distinte da quelle della moderna popolazione brasiliana, proveniente dall’Africa e dall’Europa e stabilitasi sul territorio in epoche più recenti, dando luogo a una sorta di gruppo etnico multirazziale. Si ritiene che la popolazione amazzonica si sia consolidata sull’attuale territorio, in successive epoche diverse risalenti fino a 14.000 anni fa. Tra le testimonianze più antiche vi sono alcuni manufatti in pietra, come armi e utensili dalle forme assai raffinate, risalenti a epoca precolombiana. Non sono mai oggetti grandi e non superano i 50 centimetri di lunghezza che rappresentano pesci, uccelli in riposo o in volo, e altri animali noti, come armadilli, tartarughe, rane, coccodrilli e pappagalli, imitati con sapienza dall’osservazione della natura. Spesso si sono trovate asce a forma di luna crescente con l’impugnatura riccamente ornata. Altre testimonianze hanno valore sia documentario che artistico, e riguardano le iscrizioni rupestri che si possono vedere in diverse zone del territorio, in particolare sulle rocce e nelle grotte vicine alle vallate dei grandi fiumi. Si tratta di iscrizioni incise sulla pietra grezza tra i cui colori predomina il rosso sanguigno, spesso dipinte su superfici precedentemente levigate e che, a volte, indicano la presenza nei dintorni di sorgenti d’acqua, o di particolari animali. I segni impressi sono per lo più simboli commemorativi, o forse di significato religioso, le cui linee essenziali si ritrovano non di rado nelle pitture eseguite dagli Indios sul proprio corpo, nei tessuti come nelle ceramiche di loro produzione.
Dal diario di viaggio: 26/27 Giugno 1986.
Il tempo scorre assai lento e durante la navigazione ci ritroviamo spesso in balìa di spaventosi gorghi formati dalle acque dei tanti affluenti che si mescolano a quelle del Rio delle Amazzoni e che trovano in esso il loro condottiero audace, che le spinge alla conquista dell’Oceano. Un ostacolo, quello determinato dal tempo, che in questi luoghi sembra non aver ragione di essere, per il semplice motivo che alla fin fine i giorni sull’acqua sembrano tutti uguali, “persi nell’infinito verde”, alla ricerca di un possibile orizzonte che non si vede, forse solo perché non c’è. Capita invece di chiedermi se oltre quell’interminabile via d’acqua e quell’insormontabile vegetazione, il resto del mondo, che pure conosco, continua a esistere, oppure …? E se c’è, dove? Come pure, se lo scorcio di cielo che appare tra una riva e l’altra sia reale, e non sia invece lo spazio bianco di una tela che, per una qualche ragione che non conosco, si colori delle sfumature dell’azzurro e del verde abbagliante, come di riflessi di un incanto dorato che si trova e si perde nella luce accecante del giorno? E ancora, che fosse proprio a causa della durata incommensurabile del tempo, che in passato marchiò a fuoco gli occhi dei Conquistadores spinti nella ricerca furibonda di un Eldorado che forse avevano soltanto sognato nel segreto della mente, a farli impazzire? Tempo, dunque, colpevole e consapevole delle domande che, in mancanza di un orizzonte visibile, vengono a porsi come semplici interrogativi sull’infinito o l’onnipotenza di Dio, quando desideriamo comprendere lo spazio intorno a noi, il fluttuare delle ore, dei giorni e delle notti, dei mesi e degli anni, come se fossero minuscoli granelli di sabbia, o gocce di rugiada. Per dirla con William Blake (*), quando si vuole comprimere “… un mondo e un cielo in un fiore selvatico, tenere l’Infinito sul palmo della mano, e l’Eternità in un ora”. Tanto più grande è il potere che ci arroghiamo, tanto più ci sentiamo capaci di far accadere cose impossibili, come spesso è narrato nelle fiabe amazzoniche che qui propongo, come una sorta di narrazione cantilenante che gli Indios verosimilmente inventano per intrattenere i bambini e non solo, e che spesso parlano di eventi straordinari che hanno come protagonisti i diversi animali della foresta. Infatti, in quasi tutti i popoli amazzonici è diffusa la credenza che la creazione degli animali e delle piante abbia preceduto quella umana e che, pertanto, gli uomini discendano da essi. L’anima, Aya, è essenza indefinita, e si presenta come divinità del raccolto, insegna ai runas a seminare e a coltivare, dona loro la manioca e il banano, alla base della dieta amazzonica. Interpretata in senso dualistico, nasce dalla credenza che il corpo e l’anima del runa appartengono non solo a lui, ma anche a un animale della foresta, e che tutto ciò che concerne la vita di quest’ultimo influisce sulla vita dell’uomo, compresa la morte. Esiste un’altra credenza indigena secondo la quale certi animali posseggono il mama (potere magico) e ci si appropria di tale potere uccidendoli e ingerendoli nelle porzioni rituali o indossandone parti come amuleti; nella cerimonia di puma-tukuna, per fare in modo che gli yachak gli stregoni, divengano fieri come il puma, si sfregano i denti e gli occhi dell’iniziato con polveri di denti dell’animale e peperoncino e gli si fa bere una sostanza segreta (pumayuyu-tabaco, puma-piripiri). In questo modo nella foresta la sua anima crescerà nel corpo di un puma e che, alla morte dello stregone, continuerà a vivere nel corpo dell’animale, spaventandolo e mangiando gli uomini. È così che i miti e i racconti del Napo (abitanti delle rive del fiume) esprimono una lotta perenne tra spiriti-animali-uomini-morte e trovano un senso nelle difficili condizioni di vita della foresta, dove l’uomo è soggetto al rischio quotidiano di distruzione.
Leyenda tercera (o de los animales).
Nel fiume Napo, in un luogo chiamato Macao, esisteva fino a poco tempo fa un gran mulinello. Molti runas vi erano spariti in maniera improvvisa, senza che nessuno avesse potuto sapere qualcosa di loro: i loro corpi non erano affiorati dal fondo del fiume né erano approdati a riva. Sembra che vivesse sul colle vicino al mulinello, nel punto più alto, un gran pappagallo Macao dalle piume rosso fuoco: questi sorvegliava attentamente il fiume e quando avvistava qualche canoa da lontano, lanciandosi dal colle, si tuffava nel mezzo del vortice. Le acque gli si chiudevano dietro e, quando arrivava il pescatore, il vortice si apriva tra spaventosi ruggiti, facendo apparire un boa gigantesco che lo divorava. Un giorno il boa scomparve e non è rimasta traccia del pappagallo Macao. Ha lasciato solo il suo nome in ricordo dei rivieraschi morti. Un altro giorno, un runa che risaliva il fiume Maranon si capovolse con la sua canoa e venne mangiato da un boa chiamato Porahua. Quando l’uomo arrivò nel ventre del boa, vide molti animali: wangane, cervi, ogni sorta di uccelli e di pesci. Gli animali che dimoravano lì da più tempo avevano perso il pelo, mentre gli ultimi arrivati lo conservavano ancora lucente. Dentro vi era buio: tutto era scuro come nella selva. Il cuore del boa pulsava, nel mezzo del ventre, legato con una fune. Due uccelli, un passero e una gazza, dissero all’uomo: “Tu hai frecce e faretra, fratello, tu sei un runa. Se apri il fianco del boa Porahua, vi entrerà l’acqua del fiume e noi tutti affogheremo. Ma se fai un coltello con il bambù della faretra, potrai tagliate la fune che gli lega il cuore”. L’uomo allora fece un coltello molto affilato. La gazza e il passero salirono fin sopra e si posero nella bocca del boa per guardare fuori e dirigere le operazioni: videro che si stava avvicinando alla riva. Quando sentirono il ventre del serpente strisciare sulla rena, avvisarono l’uomo che tagliò la fune che legava il cuore del boa e gli aprì poi il fianco. Tutti gli animali ne uscirono: molti correndo, altri più lentamente, fiacchi e mezzi pelati. Si racconta che all’interno della foresta, lungo il Rio delle Amazzoni, abita da tempi immemorabili il Curupira, uno strano genio, nano un po’ deforme e con i piedi a rovescio, che è il nume tutelare dell’immenso verde e l’autore di strani sortilegi. Può capitare infatti che, inoltrandosi nella foresta, all’improvviso tutto si confonda nel labirinto della vegetazione: dovunque alberi, muraglie vegetali, fantasmi evocati dai riflessi della luce e il ricomporsi continuo di nuovi arabeschi nel regno della perenne metamorfosi. La maledizione del Curupira, a questo punto, non perdona …
Dal diario di viaggio: 28 Giugno 1986.
Le leggende appena narrate rappresentano, in modo evidente, la proiezione simbolica di una lotta costante con l’ambiente, in quello che è ritenuto il più grandioso scenario d’acque e di foreste che esista sulla terra, l’Amazzonia. Oltre sette milioni di chilometri quadrati che racchiudono i due terzi di tutte le foreste tropicali del globo; concepito come un unico interrotto fiume lungo più di seimila chilometri, che con i suoi 1.100 affluenti forma il più grande bacino idrografico del mondo e scarica nell’Atlantico il 20 per cento delle acque dolci di tutto il pianeta. Decine di migliaia di specie animali e vegetali, molte ancora sconosciute, che rappresentano la testimonianza più concreta del nostro passato ancestrale. Ce n’è abbastanza per concludere, con Euclides da Cunha, che l’Amazzonia rappresenta davvero «l’ultima pagina ancora da scrivere della Genesi biblica». Qui infatti la natura continua a sprigionare, con energia creativa continua, primordiali forme di vita che si accumulano caoticamente, e meravigliosamente, fino a rendere impossibile qualsiasi organizzazione (esplicita e mentale), a dar vita a una realtà talmente “eccessiva” da originare spontaneamente, nel corso del tempo, la scintilla della trasfigurazione mitica. Così quando la pororoca, l’onda di marea alta alcuni metri, risale con il suo rombo assordante il corso del grande fiume, gli Indios parlano di Ipupiara e del Cobra Grande, gli spiriti del fiume che si agitano nella loro dimora acquatica, mentre geni e divinità diverse abitano l’interno della foresta, là dove, protetto dal folto della vegetazione, l’uirapuru eleva il suo melodioso canto alla felicità. Horacio è alle prese con alcuni Indios che abitano sulla costa, e sta cercando di concordare con essi di farci da guida nell’attraversamento dell’impervia palude equatoriale che si allarga nel tratto di foresta in cui il Rio Negro si immette nel Rio delle Amazzoni. Non c’è ragione di temere alcunché – dice – poiché le acque basse e meno turbolente di alcune vie d’acqua non rappresentano un pericolo, e per di più, si possono fare delle bellissime fotografie alle iguane che arrampicate sugli alberi s’adagiano agli ultimi raggi di sole. Ci trasferiamo sulle loro ubàs (canoe), così leggere che sembrano fatte di carta, e che gli Indios, uno per ogni imbarcazione, manovrano in piedi usando un solo remo, lentamente ma con destrezza, conducendole in silenzio attraverso un labirinto di arbusti e grossi tronchi che spuntano dall’acqua, facendo attenzione a non prenderci contro. Ed è proprio in questo silenzio arcano che la foresta sprigiona tutto il suo incantesimo arboreo e vegetale, che bulbi dalle dimensioni mai viste e fiori dai colori straordinari, sbucano improvvisi entro uno spazio esiguo; che il fogliame assume dimensioni inimmaginabili e s’arrampica sui fusti degli alberi, cui gli ibiscus cangianti fanno da corona. L’Indio-runa che mi fa da guida, m’indica due iguane assopite al sole, sono enormi, magnifiche nella loro regalità … quasi appartengano al regno delle fiabe, quel mondo estremo che ci conduce dove l’eventuale impossibile e il probabile sono entrambi aspetti di una realtà/irrealtà sospesa nel colore dorato e trasparente del cielo che s’inchina al tramonto. Ferma la canoa! – chiedo al runa che penso comprenda la mia lingua – e lui lo fa, si siede sulla prua della canoa mentre io mi sollevo in piedi con entrambi gli occhi nel quadrante della Yashica - Matic pronto a scattare la mia foto ricordo, neppure che un obiettivo possa vedere più dei miei occhi incantati davanti allo spettacolo incredibile che mi offre la natura. Ce l’ho entrambe nella medesima inquadratura, sto per scattare la foto che il click s’inceppa, quando avverto dietro la mia testa e nell’orecchio scivolare dell’acqua che non è stata smossa, impossibile che fosse così vicina. Tutto accade in un istante, con la coda dell’occhio vedo un tronco robusto su cui l’acqua scivola silenziosa, il boa Porahua (anaconda) è lì, emerso fuori dalla palude, pronto a stringermi nelle sue spire e trascinarmi nell’acqua torbida. Ho uno scatto istantaneo, come il click mancato della macchina fotografica che lancio verso l’alto con un grido, e poiché ce l’avevo legata al collo, mi ritorna sullo stomaco facendomi piegare in due sulla canoa. Il grido disumano, improvviso, risuona d’intorno come una nota acuta fuori del pentagramma, che gli animali e gli spiriti della foresta, colgono come un avvertimento di pericolo e subito s’allontanano. Finanche il boa Porahua, allorché il runa audace in bilico sulla canoa lo colpisce con il remo, si lascia cadere con un tonfo assordante nell’acqua e scompare. Ho appena il tempo di riprendermi che Horacio, sopraggiunto dietro di noi, mi consola dicendo che se fossi caduto in acqua avrei forse corso un altro pericolo più tremendo ancora, quello di finire in pasto ai famelici pirànas, in cerca di acque meno profonde e turbolente, ove depositare le loro uova. Che anch’io sia incappato nella maledizione del Curupira?, arrivato a questo punto mi è cominciato a sorgere qualche dubbio … Dal ché si può ben comprendere la risposta che pure è racchiusa nel messaggio stesso. Due sono i modi di come si può affrontare un viaggio nella foresta amazzonica: uno esclusivamente pratico, che si presenta difficoltoso e oltremodo pericoloso se non si ha la possibilità di farsi guidare da un esperto conoscitore dei molti pericoli in cui si può incorrere, come: attacchi di animali, morsi di serpenti, punture d’insetti sconosciuti, febbri insane ecc., sfidando inoltre la possibilità di aggressioni feroci da parte di tribù agguerrite che fanno uso di frecce avvelenate col curaro, e per ciò che è rappresentato dalla quasi impossibilità di avere contatti diretti (del resto vietati dai vari stati) con gli Indios autoctoni delle regioni equatoriali più interne e quindi inavvicinabili. Il secondo modo, decisamente più insano, di fregarsene di tutto quanto è stato detto e quindi astratto, di affrontare l’impenetrabilità degli idiomi parlati, e avvicinarsi al loro modo di essere “primitivi”, schivi dei pericoli che la foresta può rappresentare e che vivono in stretto rapporto con la natura che li circonda. Andare alla ricerca, cioè, di quel “paradiso perduto” presente nella cultura di molti popoli, memori di un diluvio che li ha spazzati via e condannati a sopravvivere. Fino a quando?
Dal diario di viaggio: 29/30 Giugno 1986.
Costretti a nascondersi nei meandri più remoti della foresta e a vivere con rassegnazione all’interno delle riserve istituite dai karajana, come essi appellano i colonizzatori bianchi e in genere gli occidentali, gli Indios hanno subito a tutt’oggi, una decimazione sistematica da parte dei governi (e delle multinazionali) che si spartiscono il territorio amazzonico quasi senza interruzione dai tempi della Conquista, e tuttora, a seguito del taglio della grande arteria Transamazzonica che coinvolge una vasta regione, che va dal Perù, alla Colombia, al Venezuela, al Brasile, i cui governi, dopo l’assoggettamento occidentale, iniziato e mai terminato, sono tornati alla ribalta per l’importanza ch’essi ricoprono nell’ecosistema mondiale, e che permettono oggi, lo sfruttamento dei cospicui giacimenti minerari e l’estrazione del caucciù, vera e propria ricchezza del territorio.
Una recente stima, tuttavia molto approssimativa, ha rilevato la presenza di ingenti gruppi Indios allo stato nomade presenti lungo i corsi dei fiumi Xingu in territorio brasiliano e, dell’Orinoco in quello venezuelano, nonché di altri gruppi più esigui quali i: Karajà, Javahé, Juruna, Kraho, Tukuna, Shukarramae, Suyà, e molti altri ancora isolati nelle valli più interne, che vivono in condizioni pressoché precarie, lontani gli uni dagli altri, mantenendo scarsissimi contatti col mondo esterno e che, tuttavia, non mancano di occasioni di conflitto cariche di un’ostilità non soltanto micidiale e selvaggia, ma addirittura incessante. È questo il caso degli Yanoama dell’Orinoco, una popolazione eccezionalmente bellicosa e feroce, che ha permesso, ai ricercatori che vi si sono introdotti, un’occasione preziosa di poter studiare il fenomeno della violenza allo stato spontaneo. Tale che, se un gruppo, raramente formato di più di 200 persone, non riesce a trovare nessun indizio evidente di attacco da parte di un altro villaggio, escogita ragioni più sottili per contrattaccare ugualmente, per esempio, lamentandosi del fatto che il villaggio avversario ha provocato, mediante fatture stregonesche, malattie e accidenti vari ai propri abitanti. Ogni villaggio costituisce un’entità politicamente indipendente, costantemente suscettibile di essere attaccata per ragioni diverse da uno qualsiasi dei suoi numerosi vicini, e che vanno dal furto di cibo, all’adulterio, all’offesa di mancanza di coraggio di qualcuno, ogni gruppo cerca continuamente di esibire la propria forza e ostentare la propria ferocia cercando di ispirare paura nei propri nemici. Tuttavia, poiché la situazione politica continuamente tesa è foriera di discordie, i combattimenti tra singoli rientrano a far parte integrante del quotidiano e, seppure lo stato di guerra cambia secondo i tempi e i luoghi, le circostanze sono ben definite e chiare per tutti. Attualmente però, il grande dramma degli Yanoama dell’Orinoco che fanno paura, sembra essere scemato in atteggiamenti più vicini al vivere pacifico, anche a causa dei sopravvenuti problemi sociali e ambientali che si trovano ad affrontare, sia per le difficoltà legate alla sopravvivenza, portate dall’inquinamento e dai batteri che infieriscono sul loro stato di salute; sia dovute allo sfruttamento energetico perpetrato dalle multinazionali, interessate all’approvvigionamento del legname e quant’altro derivato dalla deforestazione, già causa dello depauperamento del territorio, che vede molte piante morire, molte delle quali già estinte, e che, non in ultimo, toglie agli Indios raccoglitori, quel sostentamento che la foresta fornisce loro. Fatti questi che minacciano, inesorabilmente, anche la sopravvivenza di migliaia di animali che in essa vivono e che si trovano ad affrontare sempre nuove difficoltà di conservazione, cosa questa, che arreca danni irreparabili all’equilibrio biologico che comprende anche tutti noi.
Leyenda cuarta, (o del espirito natural).
All’inizio dei tempi accanto al dio Yaya, nostro Padre, vi era anche Yaya-Apustulu. Alcuni dicono che ce ne fosse uno, altri, due, altri ancora quattro o sei. Non si sa con certezza quanti fossero. A quei tempi Yaya-Apustulu andava in giro per il mondo; si dice che fosse veloce come il vento. Era quasi un dio, quasi come nostro Padre Yaya. Vi sono molti racconti che parlano di lui. Io ho sentito raccontare di due Yaya-Apustuli, che si resero visibili sulla nostra terra: erano due fratelli. Ascesero al cielo dopo aver insegnato ogni sorta di lavori ai runas della selva: forse ora sono con dio. Gli Yaya-Apustulu vissero all’inizio del mondo ai tempi di Killa, la luna; conoscevano tutti i tipi di alberi della foresta, soprattutto il cedro, chiamato “Albero Sacro”. Dal cedro si fabbricavano le immagini intagliate, dette “santi” forse perché il cedro fu benedetto dal dio, che decretò: “Questo è l’albero di Dio”. Le immagini di legno che gli Apustuli fabbricavano perché ci si ricordasse di Dio, oggi non ci sono più sulla terra: tutto è andato perduto. Allora vi erano anche gli spiriti o supays. Contro di loro gli Apustuli lottarono perché non dominassero su Dio. Li fecero fuggire molto lontano, in modo che vivessero appartati nella foresta. Alcuni di essi appaiono ancora come serpenti, scimmie o altri animali selvatici e, se li uccidiamo, incorriamo in gravi pericoli o moriamo. Molto tempo dopo aver generato il popolo dei runas, Yaya disse: “Che farò adesso? Procurerò il cibo per nutrire il mio popolo; creerò il nutriente frutto del piwayo”. Deciso quest, creò una quantità di frutti commestibili: il piwayo e tanti altri, perché tutti avessero di che nutrirsi. Alla vista di tutto ciò, il supay, invidioso, tentò di imitarlo. Ma dai suoi tentativi uscivano solo palme wiririma, muru-muru, cioè piante spinose e prive di frutti commestibili. È infatti colpa dei dèmoni se vi sono spine nella selva. Un Apustulu volle provarci, ma non riuscì a fare che la chambira, un altro riuscì a creare solo chontilla e un altro ancora kuri-kiwa. Queste palme producono anch’esse dei frutti del tipo piwayo. Tutti questi spiriti, che all’inizio erano degli aiutanti di Yaya, non avevano però i divini poteri del dio e solo in parte riuscivano a imitarlo. Solo Yaya poteva fare tutto quello che voleva. Un giorno Yaya se ne andava appoggiandosi a un bastone, che aveva ricavato dal legno di manioca , canna da zucchero, e si soffermò a guardare come la gente era in difficoltà. Andava in giro aiutando chiunque avesse bisogno e facendo tutto a vantaggio del popolo dei runas. Da questo arbusto nodoso tagliò dei pezzi che poi consegnava ai runas. “Prova a seminare questo, figlio – diceva – e mettilo nel mezzo del tuo campo”. Il runa lo seminava e il giorno dopo, di buon mattino, il campo appariva già pieno di frutti maturi, pronti per essere mangiati. Yaya stesso andava in giro seminando manioca e la pianta del piripiri, che serve per controllare le piogge e ha molti altri poteri magici. Per questo, quando seminiamo, ancora diciamo: “ Yaya, nostro padre, fai crescere la manioca sui nostri terreni! Ordina alla mia piccola pianta di crescere!”. Quando, nel momento della semina, pronunciamo queste parole, la pianta cresce bene e in abbondanza.
Dal diario di viaggio: 1/2 Luglio 1986.
Oggi entriamo per la prima volta in un vero villaggio Tukuna, accolti dai runas con molti sorrisi ma che comunque nascondono una certa diffidenza. Al contrario dei più giovani che accennano a quelli che sembrano dei saluti di convenienza, le donne e i guerrieri della tribù ci osservano in silenzio, come fossimo nuovi animali di una razza che non conoscono, e che forse si aspettano di cacciare. I due anziani che ci vengono incontro, e che potrebbero avere da cento a mille anni, parlano con le guide indie, loro simili, o al massimo si rivolgono a Horacio che, essendo di pelle più scura della nostra, anche se ai loro occhi non può essere paragonato ai karajana, ma che si fa capire nella loro lingua. Noto che le abitazioni sono disposte in cerchio e differiscono tra loro per forme e misure, e ciò – spiega Horacio – avviene a seconda delle esigenze sociali, difensive, igieniche e religiose di ogni tribù o addirittura di ogni singolo gruppo linguistico. Il tipo di abitazione, oca o maloca, di un dato gruppo è il risultato di una lunga tradizione e dell’esperienza di vita in un determinato luogo, entrata a contatto con un terreno, un clima e una natura specifici. Il linguaggio parlato dagli Indios amazzonici si fa risalire a quattro principali gruppi linguistici: Tupì, Aruak, Karib e Macro-Ge. Ognuno di questi comprende varie lingue e la loro influenza è presente nel portoghese parlato oggi in Brasile, specie nei nomi degli animali in genere, delle piante e degli oggetti domestici. All’interno di ogni tribù i gruppi di parentela dipendono dalle regole relative alla discendenza che possono riassumersi in tre gruppi principali: regole basate sulla discendenza patrilineare, cioè sul fatto che si considerano parenti solo coloro che hanno legami di sangue col proprio padre; regole basate sulla discendenza matrilineare che classificano come parenti solo quanti hanno legami di sangue con la madre; regole basate sulla discendenza bilaterale che riconoscono la parentela con i consanguinei di entrambi i genitori. Queste differenti regole dipendono dall’idea che un determinato gruppo tribale ha nella riproduzione biologica: secondo alcuni infatti il ruolo predominante nel concepimento spetta alla donna, secondo altri all’uomo e secondo altri ancora a tutti e due. Anche per quanto riguarda il matrimonio le regole variano da tribù a tribù. In alcuni gruppi ad esempio è permessa la poligamia, ovvero un uomo può sposare varie donne contemporaneamente, in altri è permessa la poliandria, cioè una donna può sposare più uomini allo stesso tempo, altri gruppi ancora permettono soltanto la monogamia e infine ci sono casi in cui un gruppo di uomini sposa un gruppo di donne e viceversa. Uomini e donne si suddividono il lavoro in parti uguali, ma dedicandosi ad attività nettamente distinte per gli uni e per le altre. I primi cacciano, pescano, puliscono il terreno, raccolgono il miele, preparano la cera utile ai lavori artigianali, si tengono sempre pronti per eventuali combattimenti. Le donne piantano la mandioca, il grano, le patate, il cotone, le spezie, le piante medicinali, raccolgono i frutti selvatici e spesso i lavori riservati a un sesso sono tabù, cioè sono severamente proibiti, per l’altro.
(continua)
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