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Roma in fabula - Cronaca di città

Argomento: Letteratura

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 08/09/2025 04:44:49

ROMA IN FABULA: Cronaca di città. un libro di Giorgio Mancinelli

VADE MECUM

Il mosaico dei sampietrini bagnati dopo il temporale dona alla bella piazza umbertina, intitolata a Vittorio Emanuele II, la patina smaltata della pietra dura, incastonata nella tenue luce dei lampioni accesi. La restituisce, per così dire, alle brume del crepuscolo, in cui le nuvole giocano a rincorrersi dentro le gore acquitrinose. A poco a poco le ombre della sera, nascoste sotto i porticati, tornano a impossessarsi del tempo per l’intero arco delle rimaste ore, fino a quando, ombre mobili più cupe e più profonde delle altre, finiscono per avvolgere ogni cosa. Rimasta vuota, dopo le affollate ore del mercato, la piazza tutta sembra inabissarsi dentro le pozzanghere, e tremola quando la ruota di un ultimo carro l’affetta prepotente. «Le case, che je stanno a pochi passi, guardeno come drento a ‘no specchio le crepatura sopra ar muro vecchio che mostrano le grinze de li sassi» (1).
Tremano le arcate a tutto sesto e le robuste colonne allineate sotto al parapetto di travertino, le mensole come le ampie cornici delle finestre, tremola la luna come per dispetto. Quel che del resto capita al viandante che frettoloso dopo aver messo il piede in un pantano, tosto affonda, e tutto gli si confonde dentro l’immagine dello specchio, spaventato non poco della sua stessa sorte. Dicono a Roma: «Senza ragione, tanto ce se sà, che chi er piede inzuppa ner bagnato, o è straniero, o è minchione. (..) Der resto quanno piove sarvognuno, è meijo de sta’ ariparato, ché manco a fallo apposta ner serciato ce stà ‘sto monno arivortato» (2).
Finanche l’elegante cancellata del giardino, appartenuto un tempo ai Palombara, scompare nell’occhio cupo della notte per far posto all’enigma della Porta Arcana che un doppio Bes, “guardiano dell’orizzonte”, mantiene nel segreto della fronte:

EST OPUS OCCULTUM
VIRI SOPHI APERIRE TERRAM
UT GERMINET SALUTEM PRO POPULO (3)

L’ordine dei simboli esoterici scolpiti sugli stipiti e la traversa nulla lascia intendere al profano, mentre lancia l’invito di ermetica memoria a “colui che sa” di elevare lo spirito sommesso e a portare la Grande Opera a compimento.
Quand’ecco, all’improvviso, s’ode un rumore di ruote di legno e il calpestio di zoccoli sull’acciottolato. È quello d’una carrozza che si ferma appena sul nitrito furente del cavallo, la cui briglia il vetturino ha pressoché tirato. Ne discende la figura elegante di una dama d’altri tempi, incappucciata in un ampio mantello nero. Ha il volto nascosto da un elegante velo, e con passo affrettato, attraversa il cancello lasciato socchiuso del giardino. Giunta che è davanti alla Porta Arcana, accende due piccoli lumi e li depone ai piedi dei Bes dall’orrendo aspetto: – “colui che le profonde tenebre scruta, demone e signore dell’occulto” – poi si appiattisce col corpo contro la parete terrosa del fondo poggiandovi la fronte. Dunque, levate le sue bianche mani verso il cielo, le fa scorrere più volte dall’alto verso il basso, sovrapponendole in modo contrapposto e congiunto sopra gli stipiti di marmo, quasi le fosse richiesta la ripetizione incrociata d’ogni segno. O meglio, quasi che l’imposizione delle sue mani abbia il potere di mettere in moto in tutta segretezza, la formula occulta che intercorre tra un simbolo e l’altro, che le permette infine di spalancare quella Porta Arcana, dietro la quale, un tempo, maghi e alchimisti di gran fama, predisponevano atanor ed alambicchi, alfine di attivare dall’umile piombo la sua trasmutazione in oro.
La luna affacciatasi appena per un istante tra le nuvole che scorrazzano tumultuose nel cielo notturno, illumina il biancore delle dure pietre sulle quali trasfigura l’opale evanescenza delle mani della bella signora. Poi il buio più completo nasconde l’intera sua figura agli occhi di chi “non è in grado di vedere”, allorché la Dama Nera (così era chiamata), scompare attraverso la Porta arcana, senza lasciare di sé più traccia alcuna. L’anziano vetturino non rimane ad attendere il suo ritorno e s’avvia per una strada traversa facendo stridere il cerchio delle ruote sul selciato mentre la carrozza si dilegua nel groviglio della città antica. Un labirinto d’intrighi e complotti, di congiure e cospirazioni, di storie folli e oscure, solo appena assopite, “galleggiante” sopra le rovine del passato, il cui fasto sontuoso è inseparabile dall’alone di eternità, dall’idea stessa della bellezza pensata e vissuta dentro vaste cornici monumentali tra parchi e giardini di verzura, fontane che cantano e obelischi che svettano verso il cielo, superando le facciate delle basiliche ombrose, delle cupole silenziose, delle terrazze e delle balconate che si rincorrono all’interno di un’unica imponente scenografia.
Quella Roma due volte imperiale, feudale e papalina, romanica e rinascimentale, manieristica e barocca, sopravvissuta ai secoli, attraverso la compresenza e la sovrapposizione dei suoi molteplici aspetti, elaborata e accresciuta nelle tele e nelle immagini dei molti artisti che l’hanno immortalata, nelle penne dei poeti che l’hanno inneggiata, fino ai tanti cantori spontanei, colti e di strada, che hanno saputo cogliere il fiore del suo vernacolare prosaico e scanzonato.
Sebbene un’altra Roma, che per contrasto possiamo dire “sommersa”, attende ancora d’essere narrata, meno conosciuta e meno fotografata, capace di una facezia pungente e villana ad ogni angolo di strada Talvolta ironica e beffarda, talaltra bonaria e sorniona, ludica e trasognata, che pur chiede d’essere evocata dal ceppo della tradizione annosa che sempre si rinnova e che qui assume forme imprevedibili di grande fantasia, consapevole al tempo stesso di appartenere alla storia e al mito che ne rivendicano la sorte. Quella «Roma santa, Roma del diavolo!», per dirla con Annibal Caro, a cui certo non manca l’originalità: «la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni, ed una sorta di gusto artistico naturale, tutto ciò insomma che la riguarda e ritiene essere un’impronta che la distingue da qualunque altro popolo» (4). E le cui “visioni”, come sospese nell’aura di un incantesimo, indugiano assorte entro uno stupore magico e arcano.
L’indomani, in un clima luminoso e un ambiente apparentemente florido e felice, si svolge nella medesima Piazza il mercato. I banchi carichi di ortaggi, di frutti saporosi, di pesci, di masserizie e stracci colorati, attendono gli avventori d’ogni dove accolti dai richiami dei venditori: “venite gente! ciò ’r pesce che me scappa ‘nda le mane”, “ciò l’ova calle ‘de jurnata! ”, “ciò la fava de Roma er pisello ‘de fora!” (5), e non senza un ché d’umoristico e di villano. La verdurara all’angolo della strada, finita che ha la mercanzia mi chiede di aiutarla ad attraversar la strada. Quando, nel ringraziarmi, trattiene a sé la mano e guardandomi negli occhi mi dice: “ched’è che stai cercanno?, no, nun me lo dì, te sei perso dietro a quarchid’una, e nun la poi trovà?!”.
E si, la Dama Nera, azzardo io. E lei: “eh ariconsolete, dietro de quella, persa che hai la strada, perderai puro la testa! Vedi io nun’zò gnente, però posso datte ‘n consijo, così, da madre a fijo, lassala perde!”. “Ma quarchiduno che ce lo sà lo poi trovà in un sito, detto der Cristo tignoso, là ‘ppe quella strada. Và, nun te poi sbajà!”, e con un gesto della mano mi indica l’adiacente via. Detto fatto leggo l’indicazione che di Napoleone III porta il nome, quando vedo un certo numero di persone ch’entrano ed escono da un portone. Tre belle donne, di quelle che proprio attraggono l’attenzione, che stanno ferme all’angolo di un Bar, s’avviano nella mia stessa direzione.
Nel mentre che queste si salutano e si abbracciano, una di loro perde un orecchino. Io lo raccolgo e faccio invano il gesto di restituirlo. Esse m’ignorano ed entrano frettolose nel portone. Entro anch’io e mi ritrovo ultimo di un gran numero di persone che stanno in attesa d’una qualche chiamata che ignoro. Cerco di vedere dove mai siano andate, quando, guardandomi d’intorno, comprendo che in mezzo a quella folla sia vano ogni tentativo di trovarle. “Er Cristo tignoso”, dico ad alta voce, ed uno dei presenti risponde a sua volta: “Si,er Monte de’ li Pegni o come dicheno qua er Monte de’ Pietà!”. Sì che in molti sembrano piuttosto nobili, o quantomeno benestanti e pochi in verità hanno l’aria d’esser poveracci! – dico tra me. Ma più mi guardo intorno e meno capisco tutta quella gente “che ce sta affà?”, ché nessuno, di quanti affollano l’androne, sembra bisognoso “de’ pietà”.
“Psst! Psst! Chi cerchi? Cerchi quarchiduno?”, mi fa da vicino un galoppino.
“No”, dico io, son qua a curiosare”.
“Si cerchi quarche cosa da comprà, le mejo vetrine stanno di là!”, dice.
“Oh, benintesi, si ch’ai intenzione de comprà, t’hai da rivorge a mene”.
“Tante grazie”.
Mi avvio lungo un corridoio stretto dove in alcune teche illuminate sono in mostra gioielli incredibilmente belli. Penso tra me: “davvero degni di Re e di Regine”. Allorquando una vecchia, neppure m’avesse letto nel pensiero, avvicinatasi ripete: “degni de Re e de Regine!”. “Quello ad esempio - aggiunge indicando uno splendido orecchino di smeraldo blu uguale a quello che io tengo nella mano chiusa, all’interno della tasca - è appartenuto un tempo a ‘na gran zignora”.
“In molti in verità vengheno a vedello, ma nessuno ha mai pensato de comprallo veramente, perché arisurta scompagnato. Che se ne fa uno d’un orecchino scompagnato?, gnente! E pe’ giunta blu come la notte. Come l’occhi della Dama Nera che ammalia e inganna, e che nottetempo se trasforma in una strega, oppure nel diavolo che l’accompagna”. Dice sorridendo ironica, come per dire che la sa lunga assai sulla questione, e io non esito a chiederle ulteriori informazioni.
“Io nun so gnente, proprio gnente!”, risponde rabbuiandosi in viso.
“E nun vojo avecce a che fa co’. . .”
“Con?”, chiedo.
“Coi misteri de sta città”
“Quali misteri?”
“Quelli della città notturna!”
Scopro così dell’esistenza di una Roma “altra” che s’infrange ogni notte contro lo smalto del suo cielo, e che trascende la realtà entro un alone di mistero. Una città che richiama a sé cronache e leggende d’altri tempi, ancor viva di aneddoti curiosi e rievocazioni, quasi a voler dare un senso all’antica consapevolezza che la vuole distratta e sempiterna. E quello che poco prima era stato non più che un vago sentore, adesso trova in me un’appagata corrispondenza. Comprendo che la gente comune, i cosiddetti “romani” dei vicoli e delle piazze, sanno ogni cosa, conoscono ogni segreto anfratto, della città come della vita, ma che tutto e niente al dunque può essere narrato. L’esistenza di una certa Roma segreta ad esempio, il cui nome occulto, quello che gli antichi aruspici vollero restasse rigorosamente sconosciuto, è rimasto nel chiuso nei Libri Sibillini e pressoché scomparso, come qualcosa di torbido e funesto, di cui i romani, fatti per vivere come le loro statue mirabili in una pacata e superiore autonomia, non vogliono immischiarsene, per continuare a dormire nell’anelito di un sonno pago e primordiale, come sopra un magnifico sepolcreto.
Dunque “… c’è una città nascosta, sotterranea, in cui si può accedere nottetempo attraverso i luoghi del mistero”, mi dice la vecchia allungando la mano per la dovuta ricompensa. Ma quando vede che stento nel tirar fuori la moneta dalla tasca ripete stentorea: “No io non so’ gnente, ma proprio gnente!”, e fa per andare via. Solo dopo averle dato del denaro, si ferma guardinga, volgendo lo sguardo più volte, di qua e di là, come per accertarsi di non essere vista, o forse, sentita.
“Lei non la vede mai nisuno. Solo di tanto in tanto, una o due volte all'anno nelle notti scure, si precipita con la sua carrozza trainata da bei cavalli dall’occhi de foco, attraversa li cancelli spalancati der giardino fino alla Porta Arcana e poi scompare attraverso er muro. Se dice pure che ‘na volta un giovinotto romano, invaghitosi di Lei, cercò di fermarla durante la corsa, e che nella lotta furente intrapresa coi cavalli, la carrozza je se ribartò addosso, lasciornolo sul serciato”.
“Poveraccio!, lo trovorno steso senza vita. Era un giovine più che bello e tutta Roma lo piagnette ar funerale. Un bel giorno un Principe romano, insignito da Sua Santità er Papa de portà la “sedia gestatoria”, promise ‘na ricompensa a chi j’avrebbe ariportato l’orecchino ch’aveva perso la bella signora, e quando l’indomani un garzone del mercato lo portò al Monte di Pietà l’arrestorno e imprigionorno pe’ quer reato che lui nun aveva commesso. Nisuno più in verità si presentò mai con l’altro orecchino in mano, da allora".
Le chiedo quanto tempo è passato da allora.“Eh!, tanto, fijo mio, adesso nun me lo ricordo. Vedi, ancora oggi chiunque ariporti ‘no orecchino come quello pò esse imprigionato. A meno che. . .”. A meno che?, chiedo io, non va direttamente da quel nobile zignore. “Ma prima dovresti avé l’orecchino, diss’ella, ce l’hai? Se no, potrei sempre vendettelo io. Però te costerà più d’en quatrino. Quanto sei disposto a pagà?”. Non saprei, le dico, e mi soffermo a pensare fra me che gli orecchini a questo punto sono almeno tre.
“Chi era dunque quell’illustre Nobiluomo, quando è vissuto?”
“Ve l’ho già detto. Nun ce voijo avè a che fà”
“Non voijo avè a che fà coi misteri de sta città!”
“Posso sortanto divve che. . .”
S’interrompe e mi porge nuovamente la mano, e solo dopo aver ricevuta la ricompensa, riprende a parlare non senza loquacità: “Lei – dice, riferendosi alla Dama Nera – un tempo c’ebbe ‘na visione. Ma prima ha da sapé che nei giardini di Villa Torlonia, appena fuori le mura, c’è un Tempio pagano, murato, nascosto alla vista dalla vegetazione. Una Porta segreta conduce nella cripta dov’ella si reca di nascosto a pregare una certa divinità egizia. Ecco, è li che ha avuta la visione”.
“Suo padre, che non voleva ch’ella si dedicasse a certe cose, un giorno l’ha fatta murare viva in quer Tempio, dov’è rimasta nun s’ò pe’ quanto tempo. Solo un cocchiere, rimastole fedele, ancora la va a prenne nottetempo e la porta in carrozza, di qua o di là, secondo dove Lei vole, in giro per la città. C’è chi l’ha vista attraversà Ponte Sisto con la bruma, chi fermà la carrozza in Piazza Navona, ma il più delle vorte s’ode sul selciato il rumore stridulo de le rote e un’ ombra nera passa veloce illuminata dar chiarore de la luna”.
“Di che visione si tratta?”
“Oh Signore!” – esclama la vecchia, facendosi poi il Segno della Croce.
“Nun me lo fate dì!”
“Ve prego, nun me lo fate dì: Diavolerie!”
“Diavolerie?”
“Sì, diavolerie!”

Villa Torlonia chiusa da tempo per lavori di restauro non lascia entrare nessuno, ma il guardiano dietro compenso, ascoltatomi per qualche minuto, afferma che non sa niente di tutta quella storia: “La Dama Nera?!, una carrozza?!, un Tempio?! Tutte fandonie inventate dalla gente!. Quella sì che ne ha di fantasia”. Tuttavia mi lascia entrare, con la raccomandazione di essere di ritorno prima che faccia buio, “alle sette in punto io chiudo il cancello e vado via”. Lungo i viali alberati mi vengono incontro pini marittimi, palme frondose, magnolie, siepi d’alloro, di mirto, boschetti di bambù, e un cinguettare vivace fatto di richiami e di note accentate. Non c’è nulla di sinistro nell’edificio in cima all’ampia scalinata, un rifacimento neoclassico con colonne sulla facciata e un bel frontone in terracotta che riproduce scene prese dalla mitologia. Più bello ancora mi sembra l’obelisco, “vero o falso, chi sa?”, poggiato su una massiccia base ornamentale.
Inizialmente non mi rendo conto che la Villa, inglobata nel complesso urbano della città moderna, è in realtà costruita su di un pendio che, dal piano stradale della Via Nomentana da luogo ad avvallamenti e promontori, a spiazzi ricoperti di prato e sempreverdi.
Alcuni edifici compositi e abitazioni, di un’eleganza contenuta o forse solo compassata, occupano luoghi solitari nascosti tra la verzura dove si respira un senso d'armoniosa quiete. Non v’è sfarzo nelle linee architettoniche delle costruzioni, che risultano anzi rigorose, pur entro una loro composita eleganza. Ogni edificio propone un diverso discorso strutturale, che asseconda l’ambientazione “naturale” del parco tutt’intorno. Qua e là finti ruderi ed architravi, finestre chiuse, portoni sbarrati, un ampio giardino d’inverno devastato, nicchie vuote e statue decapitate, che lasciano intravedere come più che il tempo, i danni che si riscontrano l’hanno prodotti l’incuria e l’abbandono.
“No!, li non si può entrare!”. Mi sento dire alle spalle,
“Perché?”, chiedo, mentre cerco di sbirciare attraverso l’impalcatura.
“È pericoloso!”
“Pericoloso in che senso?”, chiedo ancor più incuriosito.
“Pericolo di crolli?”
“Pericolo, in generale!” – aggiunge quello.
In realtà di cartelli con su scritto “pericolo” ne ho visti diversi, disseminati un po’ d’ovunque, ma danno più il senso di “vietato entrare” che di reale pericolo. Gli chiedo cosa c’è di tanto pericoloso in quegli edifici, all’apparenza massicci e solidi come fortezze che hanno retto all’assalto d’una masnada agguerrita.
“Qui, sono state decise le sorti della nazione, vi sono anni di storia patria, e ancor più testimonianze antiche, anzi antichissime. Quella, ad esempio, è la Casa delle Civette, con quelle finestre grandi come occhi di civette appostate” – mi dice, mentre toglie la catena dall’impalcatura che ne impedisce lo sguardo. Vedo solo resti carbonizzati, muri anneriti, e i vuoti occhi lasciati dalle finestre divelte.
“Ecco, guardi, non c’è più niente, hanno portato via tutto prima che le appiccassero il fuoco, le piastrelle dei rivestimenti, i pavimenti in cotto, i marmi pregiati dei caminetti, le mensole, le vetrate Liberty. Eh! se erano belle. Venivo a vederle tutte le sere al tramonto, quando i Signori erano via”.
“Perché lei stava qui quando la Villa era ancora abitata?” .
“Si, certo. Ero il guardiano di Sua Eccellenza. L’ultimo. Prima che la Villa fosse ceduta e abbandonata ai vandali. Così l’hanno ridotta in pochissimo tempo. Così come lei la vede”.
“Vedo che la stanno restaurando?”
“Ma cosa vuole che restaurino, dovrebbero chiuderla invece. Per sempre!
Non è posto questo da tenere aperto al pubblico”.
“Perché?”, chiedo non nascondendo la mia curiosità.
“Non è storia da raccontare questa. È buia, oscura come la notte senza luna che si spinge nei sotterranei della Villa, e s’inoltra nei meandri dell’al di là in cui non v’è storia, ma il vuoto che s’apre improvvisamente sotto i nostri passi”.
“Io penso invece che la morte sia il termine di una forma della vita che rinasce altrove, sotto altre forme. Qualcuno ha detto che bisogna apprendere a considerare questa opportunità come un momento della vita”.
“Ha veduto quelle piccole grotte laggiù, con i gradini e le grate nel giardino?”
“Si certo, le ho viste!”
“Quelle sono Catacombe!”
“Catacombe cristiane, qui?”
“Nessuno lo sa! Venga, venga a vederle coi suoi occhi. Un luogo di culto che si snoda come un labirinto sotto questa città. Vi sono stanze segrete, affrescate dai primi cristiani o forse ebrei, con i simboli della morte e della risurrezione. Luogo in cui in molti hanno vissuto per secoli nascosti alla luce del sole, cercando nella sapienza degli antichi la “verità” da spiegare al mondo. Un luogo “santo” e “occulto” al tempo stesso, in cui si mescolavano alla preghiera le pratiche magiche e l’alchimia, il sacro col profano. Qui si facevano stregonerie con le ossa dei morti!”
Lo seguo per le scale che conducono nel sottosuolo. Il custode apre un piccolo cancello che stride in modo da far accapponare la pelle, e accesa una torcia, mi conduce attraverso un basso cunicolo dentro una stanza affrescata. Le decorazioni alle pareti sono lineari e ripetono in senso cromatico le linee della volta e delle nicchie con qua e là alcuni simboli floreali riconducibili all’ulivo e alla palma. Non ci sono però scene né figure umane o antropomorfe rappresentate. Ma non ho molto tempo per guardarmi intorno poiché il guardiano si allontana con la torcia per uno stretto corridoio. Sento appena la sua voce che m’invita a proseguire, quand’ecco un’ombra mi appare improvvisamente così vicina che per un istante credo di avercela addosso. Mi sfiora un poco e un improvviso gelo mi percorre le membra. “Guardiano!”, grido con tutta la voce che ho in gola, ed esco di corsa urtando con la testa contro l’arco della porta. L’aria tiepida e la luce del tramonto mi riconciliano con l’esterno. Il guardiano tarda a uscire e il tempo che rimango in attesa mi sembra lunghissimo. Infine giunge e con diniego mi dice di essersi sbagliato sul mio conto.
“Pensavo avesse un po’ più di fegato. Che è venuto a fare qui? Chi l’ha mandata? Adesso se ne vada, sono le sette e devo chiudere il cancello! Su!, se ne vada!, buonasera!”.
“Ma, il Tempio murato?”, gli chiedo voltandomi mentre esco. Ma già di lui non v’è più traccia.
Penso fra me di poter fare un altro tentativo l’indomani, poi dopo qualche attimo di riflessione mi chiedo: perché aspettare quando la curiosità è ormai un fatto impellente? Il muro di cinta si presenta troppo alto per essere scalato, tuttavia noto la possibilità di entrare nella Villa attraverso una casetta che s’affaccia su una strada adiacente e che mi sembra di più facile accesso. Entro in un androne che doveva essere servito un tempo da rimessa, sebbene i solchi sull’erba lascino pensare a un uso corrente. Percorro il breve tratto di prato calpestato dalle ruote e mi fermo, quando odo dei passi farsi vicini. Poi il nulla. Più in là, quasi nascosta dalla vegetazione, vedo una carrozza apparentemente in disuso. “Una carrozza nera come quella della Dama”, penso, quando mi accorgo che l’ora del tramonto tinge il cielo d’un rosso purpureo, intenso. Di li a poco le ombre proiettate degli alberi animano il parco di un che di sinistro. Mi chiedo: “Dove cercare il Tempio?”.
Mi convinco ad aspettare il chiarore della luna prima di muovermi attraverso il parco, alfine di facilitarmi nella ricerca, ché il biancore della pietra dev’essere certamente più visibile in mezzo al verde incupito dall’ombra. Mi fermo sul prato da cui godo della bellissima vista dello spiazzo delineato di un ex galoppatoio.
Faccio per attraversarlo, quando un cavallo nero, uscito di corsa dalla penombra, s’impenna davanti a me e scuote la sua fulva criniera impedendomi il passo. Nitrisce alzandosi sulle zampe posteriori e cerca di colpirmi. Ho appena il tempo di gettarmi in terra e rotolare su di un fianco per evitare il duro colpo che la bestia sferra sulla nuda terra, sollevando una nuvola di polvere. Quindi si allontana al galoppo, lasciandomi più che spaventato. Lo seguo con lo sguardo fin che posso attraverso il folto ombroso degli alberi, e mi avvio nella sua stessa direzione fino all’estremo limite del parco.
Quasi ricoperte dalla vegetazione, intravvedo le colonne nascoste di un Tempio. Appena una sorta di portico e nient’altro, una grata in ferro arrugginita ne ostacola l’accesso. Quando finalmente riesco ad attraversare la rete di recinzione, trovo nient’altro che un muro, inaccessibile, insormontabile. Come di un’abside chiusa, interdetta allo sguardo, in cui ciò ch’era appartenuto al sacro fa ormai parte del segreto che in essa si cela. Non v’è soluzione di continuità nell’architrave, nessun sancta sanctorum al quale avere accesso. Tuttavia rimane un luogo chiuso, oscurato alla conoscenza, che lascia spazio alle ipotesi, ai riferimenti, al rifugio dalle proprie angosce, in cui infine si prospetta l’assoluta vanità del presente, l’origine e il termine d’una scoperta.
Un “qui e ora” colmo di domande che restano senza risposte, di fantasmi senza avvenire, di storie non raccontate. Come una sorta di labirinto che posso ricondurre alla mia sola curiosità, a ciò che forse vado cercando, al mio stesso scrivere senza via d’uscita. Forse ciò che cerco è tutto qui – mi dico – davanti a me, nascosto dietro quel muro e non vedo alcun modo per abbatterlo. Odo di nuovo il nitrire feroce del cavallo dietro di me e quando mi volto solleva le zampe anteriori e sferra gli zoccoli contro il muro senza tuttavia scalfirlo.
È forse un invito a fare altrettanto? – mi chiedo. O forse mi rivela una qualche presenza che s’aggira dietro quella parete? La Dama Nera? Le nubi adombrano la luna e un buio pesto inonda il parco di un cupo presentimento, quando infine la bestia scrolla più volte la testa scarmigliando la sua folta criniera e si allontana da me e da quel luogo. Anch’io fuggo in preda al panico, senza voltarmi indietro, ripromettendomi di ritentare un’altra volta, ma senza convinzione. In fondo, penso, i misteri hanno ragione del proprio essere in funzione della nostra curiosità di svelarli, e tali dovrebbero restare se ciò può servire allo spirito per elevarsi fino ad essi. Non è così che inseguendo i fantasmi evanescenti della nostra mente raggiungeremo un giorno la soglia dell’eternità?
Le strade notturne poco affollate non mi danno alcun sollievo. Dovunque vedo ombre adunate nascondersi e riapparire nell’incedere delle nubi sul volto della luna. Mi riprendo un poco quando, attraversata Porta Pia, finalmente incontro un posto di ristoro, l’unico aperto a quell’ora.
“Una birra gelata, per favore, presto!”
“Non è questa un’ora in cui avere fretta!”, mi risponde l’uomo dietro il bancone.
“La prego, ho molta sete!”
“Lei non ha sete, ha paura, è bianco come il “Cencio della Veronica!”
“Cos’è, un indovinello?”
“No, è semplicemente un modo di dire. Sta forse scappando?”
“No! E semmai da chi?”
“Dalla realtà! Sa, non mi meraviglierei, prima o poi tutti scappiamo da qualcosa. Dopo un po’ che si è a Roma tutti scappano volentieri. Perché lei sta scappando. Non lo dica a me” – aggiunge bonario. “Io ciò l’occhio. Perché lei è straniero, vero?”
“Le ho parlato forse in un‘altra lingua che non è l’italiano?”
“Parlerà pure bene l’italiano ma rimane il fatto che lei non è di qua, ed è certamente straniero in questa città, altrimenti non avrebbe tanta fretta. Ecco la sua birra ma beva piano, è gelata.”
Poco dopo riprende quello che ormai era un soliloquio, o forse solo uno sproloquio: “Vede, è facile perdersi quando non si sa dove si sta andando. Lei si è certamente smarrito. Come dire, s’è perso nei meandri di questa città per molti versi oscura. Dal punto di vista delle sue credenze, intendo, con la sua storia, la sua fede millenaria, con i suoi falsi idoli mai del tutto abbandonati, le superstizioni, la sua cultura a buon mercato, la grandezza della sua arte, il suo popolo multilingue e colorato che s’adopera nel cercare nei fasti del passato qualcosa che l’avvicini di più all’eternità.”
Lei crede davvero a quello che sta dicendo?
“Scherza, vero? Qui Papi, Imperatori, Re e Regine, artisti insigni, personaggi illustri e ciarlatani, le cui opere da sole danno forma a una “summa” sostanzialmente compiuta che basterebbe, rievocando le singole figure, a ricostruire non solo la storia dell’arte e del papato, di regni e di nazioni, ma quella del formarsi e del diffondersi nel mondo della civiltà europea, dalle cui sponde si dipartirono i fiumi della conoscenza umana.”
Si certo, com’è che si dice: “Un popolo di santi, di poeti, di navigatori, di . .
“È nel divenire dei “grandi”, conoscere la grandezza e perdersi. Giunsero fra i molti gli architetti Bramante e Rossellino, il Peruzzi e i Sangallo, il Della Porta e il Vignola, che in qualche modo si persero nel labirinto invisibile della grandezza di Roma, nelle cui trame, le più estreme esperienze si toccano, in modo che il moto dell’uno si ricollega per vie difformi a quello dell’altro, e la parola “universalità” riceve il suo senso precipuo, nella complessiva articolazione umana . . . ”.
Dopo una breve pausa di silenzio, riprende stentoreo: “Dalla toscana Firenze, sono venuti Masaccio, per il Giubileo del quattrocentoventicinque, e si è perso sembra dentro un lupanare. Da Urbino giunse Raffaello detto “il gentile”, che diede alla pittura del suo tempo un nuovo stimolo di luce e la possanza della storia. Venne da Arezzo il grande Michelangelo che tanto diede all’arte “fino a raggiungere l’eterno oblio”. Dalla lombarda Bergamo venne il Merisi detto Il Caravaggio, capace di cose sublimi, e che si macchiò, si dice, di turpitudini e bassezze. Dalla vicina Napoli, giunse il Bernini, che superò i limiti stessi imposti dalla materia e diede alla decadente Roma del tempo un impulso nuovo, un proprio stile, che la rese “bella” dentro la straordinaria cornice del “barocco”. A Roma giunse il Canova dalla serenissima Venezia, colui che recuperò dal marmo quell’ideale di bellezza, che solo l’arte ha avuto il potere di
far rivivere. Ma anche lui si perse infine, nel puro diaframma di un’arte funeraria che non era più vita, che non era ancora morte”.
“Accipicchia! - esclamai meravigliato - quale conoscenza!”.
“E non finisce qui, potrei andare avanti per delle ore. Ma non voglio annoiarla. Talvolta approfitto dell’interlocutore così tanto per dire. Sa, a quest’ora non c’è più nessuno in giro”.
“L’ascolto volentieri”.
“Giunsero qui frate Bruno detto “l’eretico” che fu dato alle fiamme, “l’impostore” Cagliostro che fu murato vivo dentro Castel Sant’Angelo, e l’Aretino “il lussurioso” celebre per le sue “pasquinate”, le satire feroci contro il governo pontificio. Fu qui che il Sant’Uffizio decretò la condanna contro il Galilei ‹‹ ..che s’aveva in cielo come un suo gran feudo, pago tuttavia di governarlo da una celletta di locanda o di giardino›› (6). E l’autorevole Burckhardt che vide in Roma il centro dell’arte del Rinascimento. Provenienti da tutta Europa giunsero seduttori e cortigiani, e una masnada di pellegrini e accattoni che una volta messo piede a Roma “sarvo ognuno, nun se n’agnedero più”.”
“E m’immagino anche tanti scrittori e poeti a non finire?”
“Scherza vero? L’Ariosto, Tasso, Rabelais, Byron, Keats, Shelley, Goethe, Stendhall, Haine, ed altri, in cerca di linfa per le loro idee. Vennero il giovane Mozart, e Berlioz, solo per citarne alcuni, che in qualche modo trovarono qui la loro grandezza e si persero nelle infinite brame di questa città, magnifica e assurda insieme”.
“Complimenti, una così forbita lezione non l’ho ricevuta neppure alle superiori!” - dico io.
“Che vuole?, io a Roma ce so’ nato. È certo non la cambierei co’ nisun’ antro sito. Roma per me rimane il centro del mondo. Nel millenovecentosessanta, per parlare di tempi più recenti, quando a Roma ci furono le Olimpiadi, allora sì che se ne videro tanti, tutt’insieme. “La dolce vita” di Fellini, era già esplosa, e Roma per altra via, era tornata a far parlare di sé l’intero mondo. Allora era ‘na gran festa, tutti i giorni. Uno la sentiva, la respirava, era nell’aria. Sembrava che tutti accorressero a rimirarla. E Roma ce stava, tutta imbrilloccata, che se specchiava dentro la fontana, che se faceva arivortà come ‘na puttana”.
“Roma, caput mundi!” – azzardo a dire.
“Non molto tempo fa, è passato pure Zev. Lo conosce Zev non è vero? Chi non lo conosce? S’è fermato qui a parlare con me. Proprio lui, che da quand’era ragazzino faceva sempre lo stesso sogno, di una città sotterranea che starebbe proprio qui, sotto i nostri piedi, da sempre. Un “fazzoletto” di terra dove regna
il “non-sense”, disse, e che io interpretai come una sorta di paese del Carnevale. “No, disse lui, non a Carnevale, prima della fine dell’inverno!”. Sebbene io non riuscissi a capire, perché mai un posto così dovesse trovarsi proprio alle soglie dell’inferno?”.
“Zev?”, chiedo con voce sostenuta.
“Ssst!, non così forte, potrebbero svegliarsi!”
“Chi?”, chiedo io.
“Ma gli abitanti della città sotterranea, che di Zev hanno fatto il loro anfitrione. Sembra, ma non potrei giurarci, che l’abbiano chiamato in sogno e lui abbia accettato a una condizione: di non essere disturbato allorch’egli dorme. Così gli abitanti della città sotterranea, hanno pensato bene di riposare, tutti quanti nelle stesse ore in cui soavemente dorme il lor Signore. Ricordo ancora il giorno in cui entrò da quella porta, stava cercando una strada, io la per là non lo riconobbi. Non sapevo neppure che faccia avesse, come potevo riconoscerlo? Mi chiese sottovoce se conoscevo dove fosse “Via del Sogno””.
“Davvero dice c’è qui una Via del Sogno?”
“Infatti, je diss’io: Caro signore, perché era già anziano, canuto e bianco, mi dispiace, ma non conosco nessuna via con questo nome. Ora deve sapere che io qui ci sono nato, si nun la conoscevo io la via, nun la poteva conosce nisuno. Poi, chissà comm’è comme nun è, mi venne in mente d’indirizzarlo a una fantesca che abitava nel cortile del palazzo. Lei de’ sogni se ne sarebbe dovuta ‘ntende, in vita sua aveva allevato più de cento regazzini. Fu così che lo accompagnai nell’androne e lui cortesemente mi ringraziò. Lo vidi ripassare più tardi con un bambinetto che lo teneva per mano. Ma dove fosse diretto non saprei. Del resto perché avrei dovuto chiederglielo, io non sogno mai”.
“Zev, chi è?”
“Ma come chi è? Ma scherza, è un grande artista! Se non lo sa lei che ha studiato, me meraviglio.”
“E ora dov’è?”, chiedo così, disinteressatamente.
“Ah, non saprei! Sembra si sia stabilito nella sua reggia nel cuore di Trastevere. Gli stranieri si fermano tutti là. Chissà cosa ci sarà mai, là?”
“Una reggia? In Trastevere?”, dico, non nascondendo una certa perplessità.
“E sì! trovò infine la via che cercava e vi ha insediato una reggia fatta di conchiglie, di smalti, di vetri colorati, con giardini di delizie, ove si banchetta e si fa musica, si danza la gagliarda, si “chiacchiera” e si gioca a bazzica. Finanche si va a tavola con la Cabala e i Tarocchi. Fatto è che ogni giorno qualcuno dice di essere stato ospite di Zev, che è un padrone di casa prodigo e cordiale, che sa cosa vuol dire mangiar bene e ancor meglio bere. Che ama e si circonda solo di ciò ch’è bello, che la sua arte “favoleggiante”, così l’hanno definita in molti, è il punto di congiunzione tra la realtà e il sogno. Una sorta di favola vivente in cui gli esseri umani, gli animali, gli oggetti, la vegetazione, ogni cosa insomma, possiede una propria vitalità, una propria utopia. Parlando dei suoi sudditi, qualcuno li ha definiti esseri insoliti e straordinari, eppure così umani da sembrà quasi veri. Per non dire poi degli animali “fantastici” che popolano i suoi giardini: liocorni, bruchi parlanti, farfalle gelose, pesci giocolieri, serpenti ubriaconi, e chi più ne ha più ne metta. Ma, attenzione!, io non è che credo a tutte queste cose. È che io sto qua e spesso capita qualcuno che ha voglia di parlare e io, se non ho da fare, li ascolto volentieri. Anche per me, capisce, deve passare in qualche modo la giornata”.
“Ma lei sa qualcosa di più a riguardo . . . ?”.
“Vede, personalmente io non so niente”, dice, lasciando chiaramente intendere che qualcosa sapeva, e neanche poco.
“Forse con questi …”, faccio il gesto di allungargli del denaro.
“Vorrei solo che non si voglia offendermi! Ma a buon intenditor poche parole”, dice e se li caccia in tasca furtivo.
“Deve sapere che nottetempo in molti sentono scavare nel sottosuolo, e c’è chi dice che l’Architetto ha fatto costruire una torre dalle parti di Porta Garibaldi, che sta estendendo il suo regno pure alle vie adiacenti. Un vero e proprio labirinto, che attraversa i Ninfei abbandonati, i Mitrei nascosti, i Templi sprofondati, la Casa di Nerone. Quella sì ch’è un autentico centro dell’occulto. E che si spinge, nelle viscere di Roma infino ai Mercati Traiani, ai Fori, alle Carceri famose, fin sotto l’Isola Tiberina. Dico, sempre per sentito dire, che sfruttando l’opera imponente della Cloaca Massima, ha steso una fitta rete viabile che dalla necropoli dell’Appia Antica congiunge il sottosuolo delle principali basiliche fino ai sotterranei del Vaticano. E li. . .! chi vuole capir capisca: c’è ‘na voragine grande come ché, con un fuoco che non si spegne mai, e che dicono sia la bocca dell’Inferno.”
“Ma lei scherza, davvero c’è …?”
“Io dico, anzi qualcuno dice, che lì ce sò le fiamme della Biblioteca d’Alessandria che arde ancora dall’antichità. Certuni affermano, stando a quanto m’è stato riportato, che lì ce so centinaia de diavoli che gettano nel fuoco i libri del “sapere” dell’intera umanità, e che questi ardono senza bruciarsi mai. Altri invece pensano, che la voragine si riconduca con la Torre di Babele, e che per questo Roma è sempre piena di stranieri che parlano le lingue più disparate. Io, detto tra noi, credo che così nun possa esse. ‘Na sola cosa è certa, che neanche a farlo apposta, questi vengono tutti qui, e qui se laveno la crosta”.
Che storia è mai questa, ha dell’incredibile? Dico fra me. Una reggia sotterranea, un labirinto invisibile, dove cercarli? La guida della città presenta un groviglio di stradine, viuzze ad angolo, vicoli ciechi, talune così piccole e strette che non hanno neppure il nome segnato sulla carta. La guida mostra edifici che incorporano ruderi, colonnati, cornicioni, capitelli abbandonati, basiliche e catacombe, splendidi resti di monumenti antichi, ma nient’altro, niente di niente.
“Esiste, per caso, una mappa del sottosuolo?”, chiedo l’indomani al libraio di Via del Pellegrino.
“Si certo, esistono stampe di luoghi pressoché sconosciuti o scomparsi come, ad esempio, le Carceri del Piranesi, e anche acquerelli della Roma Sparita di A. Roesler Franz”, e molto acutamente mi fa rilevare:
“Non è forse una sorta di città nascosta anche quella?, fatta com’è di immagini, di memorie, di luoghi invisibili, seppure reinventati, talvolta, secondo l’estro di questo o quel pittore. E che per altro, nessuno oggi sarebbe in grado di dire se siano in realtà mai esistiti. Per farsene un’idea dovrebbe farsi un ripasso della Storia attraverso l’occhio attento e colto del Gregorovius e degli scrittori latini: Orazio, Tertulliano, Cicerone; ed anche Ovidio, Seneca, Quintiliano e se non l’ha ancora fatto, legga la Vita dei Cesari di Svetonio, La Vita quotidiana a Roma di Carcopino, Vita Romana di Paoli, o quella Roma che fu del Belli, di Trilussa, di Pascarella e perché no di Zanazzo. Osservare ad esempio le belle tavole del Pinelli sul costume e le tradizioni popolari. Non è certo sui banchi di scuola che si impara ad amare Roma”.
“E dove?”
“In giro!, per la strada, passeggiando, osservando, ascoltando, vagando per le Osterie, i Caffè, i Mercatini rionali, le Chiese. Roma la si ama o la si odia, non si può restarle indifferenti. Allora t’accorgi che Roma è tante altre cose:
«È come ‘na tavola imbandita ricca d’ogni ben di Dio, odorosa de mille e più sapori, infiorata de mille e più colori. È come una bella donna prosperosa degna d’esse chiamata madre d’ogni gente, che a braccia aperte accoglie il santo, il profugo, il pellegrino. È come un letto de mille piazze e più, grande come lo spiazzo d’un giardino, ‘ndove ariposa le membra stanche dar viaggio der destino» (7).
Trovo bella la sua poesia nata come dice “dar core”, trascritta a mano su di un foglio, e insieme ad essa faccio scorta di un certo numero di libri che con il “dovuto sconto”, come pure dice, spendo una fortuna. Tra i tanti c’è un libro sui Fasti di Arcella, uno sullo Spettacolo Romano di Verdone, una bella edizione de Le Carceri del Piranesi, tre volumetti di Curiosità Romane di Maes, un Labirinto Romano di De Mattei, Le Feste di Roma Antica di Vaccai e persino un Bestiario, di Cattabiani - Cespeda Fuentes. Le visionarie labirintiche incisioni del Piranesi, rappresentano per me l’unica scenografia possibile al “tema delle rovine” su cui da sempre lavoro, e in cui affondo gli occhi, nell’illusione prospettica d’una città immaginata, finita tragicamente e altrettanto tragicamente rinata dal suo profondo oscuro passato, senza tuttavia riuscire a vedere la luce, all’interno di un sogno in cui la bellezza, insidiata dal terrore della morte, sempre in agguato, finisce per dar luogo alla migliore rappresentazione di se stessa. Un unico grande labirinto che si estende dal mondo estremo della suburra ai confini della spiritualità eterna:
"Il resto so quinte di teatro, scale e passerelle, corde, carrucole e catene, terribilmente destinate a rimanere malgrado il loro essere e restar sospese, come il destino sopra la testa d’ogni umano. Non v’era speranza d’uscire vivo da quelle Carceri oscure, ché più si saliva e più la terra sprofondava, al punto che aggiungere altre scale, sarebbe risultato vano". (8)
Sento la necessità di spingermi fuori, all’aria aperta, per rivedere l’azzurro cielo intenso della vita, raccogliere qua e là ora un sonetto colto, ora uno stornello di strada, ora uno strillo durante una partita alla pallacorda, capaci di ritemprare l’anima stanca. “Ma ancor de più, vale accaparrasse un’indurgenza”, dice il venditore di “santini” accanto al colonnato di San Pietro. “Saglì e scenne ppiù vvorte da le Scale, o passà pe’ la Porta Santa”, ma pe’ ffa questo je tocca da ‘spettà er ‘ggiubbileo“.

TRIA SUNT MIRABILIA
DEUS ET HOMO MATER ET VIRGO
TRINUS ET UNUS (9)

“Tre, dice costui, so le cose mirabbili der monno: Iddio, l’ommo, la madre. Tre, nell’unicità der Tutto. Io, per esempio, co ‘na mano porgo li “santini” e so timorato de Iddio. Coll’antra alliscio er corno pe sta ‘mpace coi Santi e cor Demonio. Der resto, male nun fà, paura nun avè!. Ma quanno è notte a la jurnata, la parte mia l’ho fatta. Quer che po’ succede doppo poco me ne ‘mporta. Me dispiace pe’ ll’antri se nun se la sò guadambiata. Come se dice ?, chi vò Cristo se lo prega!”. “De ‘na cosa sola posso ‘nnà sicuro, che a nisuno manco de rispetto, sia esso er Diavolo o sia er Padreterno! ”.
“Il Diavolo?”, domando assai perplesso.
“In persona!, dice questo, ad ogni angolo di strada ce n’è uno, n’è testimone Domineddio, fin da quanno scapporno da’ la Rotonna, durante la consacrazione de questa a chiesa cristiana. Cosa che costrinse i “poveri diavoli” che da quer tempo ce s’ereno anniscosti drento a centinara, a scappà fora de la cuppola a scapicollo. Manco fussino presi da la mammana. Me canzoni, ecchì ce sarebbe voluto aesse? Li diavoli che stavano abbarbicati drento in de le nicchie de’ la vorta, ner vedè le porte spalancate e segnate cor segno de’ la Croce, com’era inevitabile che fusse, se la presero e fecero ‘na cagnara che superò de tono er Gloria! Puro la gente, le guardie papaline, li preti, la plebaccia der suburbio, tutti scapporno via. E ce arimase solo er Papa, che stanno lì in preghiera ‘nginocchiato, manco s’accorse che la processione s’era dispersa pe’ la strada”.
“Ma lei davvero crede a questa storia? Crede veramente al Diavolo?”.
“Forse vi credevano i romani di una volta, oggi nessuno crede più a tali fantasiose diavolerie”.
“O c’è ancora qualcuno che ci crede?”, chiedo io, non immaginando neppure di accendere la sua suscettibilità.
“Amico mio, sò li fatti che conteno, no le chiacchiere! Nisuno ce vorebbe crede’, però nun se ne po’ fa ammeno. A Roma tutti lo sanno presempio che er Colosseo è un luogo preferito da li diavoli. Che fori mura c’è un posto ‘ndo questi hanno innalzato un trono a Satana in persona, chiamonnolo la Sedia der Diavolo. Nun dico fesserie, lo trova puro sull’elenco der telefono, ne la cartina de le Paggine Gialle, nun se po’ sbajà. Vedrà che a la fine me darà raggione! Nun ce se crede, ma quarchid’uno à pure chiacchierato, che proprio qua, in questo grande Tempio della cristianità, se riuniscono angeli e diavoli e fanno come un carnevale sur sagrato dell’antico tempio de San Pietro. Che coperti della sola nudità s’accoppiano fra danze, lazzi e cazzi, e che s’ammascherano da ommini ragno, da donne fungo, da pipistrello e da serpente, da coccodrillo e da maiale, da topi e vermi e da farfalle colorate, fra tanta scempiaggine e crudertà! Io nun lo riesco a ‘mmaginà, però c’è chi sostiene che sia vero. Dicheno de persone che se riuniscono in certi posti, diciamo “particolari”, e aspetteno anche tutta la notte che quarchiduno li fà entrà. Ma nisuno sà quanno, come, chi? Dicheno puro, che tarvorta l’annunceno in codice sopra a li giornali. ‘na sorta de appuntamento che nisuno sà. De trovasse de qua o de là a certi orari.
Aho!, ma lo sai mantenè un segreto? – gli bastò che annuissi – allora stamme a sentì, mo te ricconto come agnede che un giorno ce annai pur io”.
Mi rendo conto che non c’è più verso di fermarlo, e infatti prosegue. “Mo io, avevo letto un annuncio “strano”, che diceva de vedesse a Porta San Pancrazio. Quanno s’ò arivato lì, nun c’era quasi nisuno, poi, tutto d’en tratto è arivata ‘nzacco de gente, “strana” puro quella, però vestita bene, che sembrava che nun se conosceva. Oh!, comm’è comme nun è, a un certo punto, de tutta quella folla nun c’era più nisuno. Mo io nun sò e nun posso mette mano ar foco, però quelli ereno stati tutti inghiottiti drento ar muro. Nun lo voijo dì, poesse che me so distratto! ‘mmbè lassamo perde ‘vvà! Però te voio fa un rigalo, ttiè, pijate ‘sto “santino”, te porta bene e te protegge da ogni evenienza. Perché si tante vorte ce volessi annà, e nun te lo consijo, ai da sapè che te potrebbero chiede puro l’anima. Allora si nun ci’ai un santo da pregà, sò cazzi amari. Perchè in fonno in fonno, quanno sa’cche fa’ cor Diavolo, nun se po’ mai sapè. Tiè pialo, fanno dieci sordi”.
“Ma non ha detto che me lo regalava?”
“Ah! Certo, eccomme nò, er Santo te lo arigalo, ma la giornata mia passata a lavorà, quarchid’uno me l’à pure da pagà! Amico mio spesso più che la stima, è la convenienza che ce consija da fa’ la riverenza”.
Or io l’intesi, non me ne faccio un vanto, aveva scambiato qualche parolina al verso di Trilussa, che avevo ascoltato la mattina dalla viva voce dell’autore su un nastro registrato, dal titolo La strada è lunga. E in quella voce, quella inconfondibile d’un poeta, faceva ritorno come un ricordo prezioso, la traccia sonora di una realtà scomparsa, d’un’altra Roma che non conoscevo:

La strada è lunga, ma er deppiù l’ho fatto:
so dov’arivo e nun me pijo pena.
Ciò er core in pace e l’anima serena der savio che s’ammaschera da matto.
Se me frulla un pensiero che me scoccia me fermo a beve e chiedo aiuto ar vino:
poi me la canto e seguito er cammino cor destino drento la saccoccia.(10)

Che le parole del poeta non siano vane è cosa risaputa, ma a Roma il vernacolo si presta a far da tramite nel sottile gioco della realtà e dell’illusione. Che, nel fare appello all’esperienza si veste spesso di colori, per dire che “s’ammaschera” d’emozioni nuove e pur sempre antiche, di sentimenti accorati, di sofferenze come di tribolazioni. E anziché piangere, spesso se la ride del quotidiano con sberleffo, come di’ che “nun se la pija”, quasi fosse burla. Che nella realtà, “addiriviene ‘na filosofia”.
“D’esempi ce ne sò a mijara”, dice l’ambulante con la chitarra in mano che girando va per le osterie. “Prenni Ghetanaccio er burattinaro, e Gigi er bullo che ner Fattaccio veste li panni dell’assassino corto da la gelosia, e quell’antro detto er Rugantino innamorato dell’amore, e quer Marchese der Grillo che pe’ ammazzà la noia se ne’nventa una ‘gni matina. E Petrolini, quel tragicomico signore della scena. Si nun so maschere quelle, che sò? Che nell’affrontà le controversie de la sorte so capaci de fa no sberleffo puro in faccia a la morte. Ma a riccontalle tutte ce ne vo’, nun basteno millanni, e io s’ò troppo vecchio, nun me arimane tanto tempo, da stà co’voi s’intenne. Ma si m’offrite un bicchier de vino magari ve canto ‘na canzone, o se preferite ‘no stornello. De quelli co lo scrocchio, nati se sa sotto ar cuppolone, che nel far l’ariverenza a quarchiduno, infin je danno der minchione. Annamo va, che dopo la bevuta, s’accenne la favella e la lingua se sa và ‘ndo và. Oste portece ‘nantra canna che aricomincia a ccantà er Sor Capanna”.
Quando che annuncia: “Fiore de fico”.

Fiore de fico,
me sa che de stornelli ne sai poco,
perciò sta’ attent’a quer che mo te dico.
. . .
Si moro e pregh’iddio arinasco,
vamm’a ccercà ‘n paese che io dico
ndove se voti com’a Roma er fiasco.
. . .
Mescete amichi er vino bionno,
che drentro a ‘sta boccia trovi er bonumore
che canta l’inni e t’imbandiera er còre.
. . .
Fior d’ amaranti
cantamo dell’avvenir i bei concenti
che già semo ‘mbriachi tutti quanti. (11)

Nel frattempo che ascolto e bevo in allegra compagnia, un po’ di gente si è fatta attorno. Ognuno, che conosce la canzone, aggiunge una strofa in rima e tutti insieme poi ripetono cantando il ritornello. Neanche a dirlo, pensando che io fossi della compagnia, m’invitano a unirmi a loro. E pur se dico d’essere alquanto stonato, questi dicono: “E cche je ffà? Nun c’è mica bbisogno de sapè cantà! Continua a bbeve ‘sto vinello e vedrai che poi t’arintona l’aritornello!”.
“Chi nun beve in compagnia, se sà, er Diavolo se lo porta via!, dice un compagno di bevute seduto al tavolino. Non ch’io lo conosca, ma la compagnia come si sa, accomuna tutti in allegria. “E quanno se tratta de fasse ‘n goccettino, er Santo passa e tte fà l’occhiolino. Che ssi ppe’ caso te lo fossi scordato, te dice de fatte ‘n bicchiere anco pe lui, pe aricordasse de te quanno va a pregà”. Poi dice: “Salute!”, e via tutto d’un fiato, manda giù un ultimo “goccettino”, e aggiunge: “eccome disse er falegname sulla sega, tira a campà e chissene frega! Ma aspetta t’ho da riccontà ‘na cosa. Mo io me ne stavo tranquillo a beve drento a ‘na fraschetta, quanno sarv’ognuno me s’avvicina ‘na vecchietta de cent’anni, o forse ‘ppiù, brutta quanto la fame. Perché si nu’ l’avete conosciuta, la fame è proprio brutta. E con fa’ elegante voleva venneme li fiori. Mo io, pe nun ddì ‘na fandonia, ja risposi: no, grazzie nonnè! Si proprio volete quarche cosa, ve posso offrì ‘n goccetto! E quella nun so fece aripetè ddu vorte. E fra un bicchiere e n’antro se mise a riccontà ‘na storia”.
“Robba da nun crede. Mo io, che nun ciavevo niente da fa, la stetti a sentì. Si pure tu la voi sentì, avvicina la ‘ssedia ar tavolino che mò te la ricconto. Però, come se dice, hai da ordinà armeno ‘na bevuta de bon vino. Perchè vedi, le storie, chiamamole così pe’ discorenno, se ascortano mejo si uno, come di’, s’è ariscallato, e che c’è mejo der vino p’ariscallà la lingua cor palato, e hai da vede poi come favella, je dà ‘nder sù e ‘nder giù, come la fava a ‘na regazza bella. Perchè, sarv’ognuno pe l’antre cose no, ma “quella” posso dì, che ancora pure me tira”.
“Oste!, grido repentino, ci porti mezzo litro!” – dico, tant’è la voglia di ascoltar la narrazione.
“Famo un litro, dice quello, perché vedi, le bevute hanno da esse pari, se mezzo litro fa tre bicchieri, paesse pari ce ne vonno armeno sei”.
Accetto la sfida e ovviamente pago di buon animo. Penso che dopotutto non mi sono di certo rovinato. Egli beve, e prima ancora di cominciare a narrare vuole fare due brindisi: uno, dice, “alla salute!”, e un altro “alla vita!”. “Perché in quanto a morì, aggiunge, c’è sempre tempo”.
“Vedi sti fiori?, disse la vecchia, vengheno dan giardino che più bello nun ce n’è, e che se chiama er Bosco Parraiso, uno dei giardini più incredibili der monno, che pe’ trovallo ci’occorre arrampicasse ‘nfino sù ar Giannicolo, ‘ndo la natura se sposa co’ la poesia, e arifasse un tantinello l’occhi co la visione de la Roma antica”.

“Mo, dimola tutta, sarebbe poco bello avecce ‘n posto così tutto pe noi. E nnamo a nonnè, e nun po èsse, dico io, sennò saremmo già arivati in Paradiso”:. . .quell’erto colle, che il frondoso tergo rivolge al sol che in occidente inchina e tutta scorge la città latina.

“Dimme la verità, me fece quella, ma tu me trovi accusì brutta?”.
“Certo che ce n’è voluta pe daje ‘na risposta, e puro je l’ho data: certo se vede che na vorta sete stata bella. E quella contenta fece: “un tempo sò stata pur’io ‘na gran Dama. Ciavevo la coda de li spasimanti. Nun faccio pe’ vvantamme ma ancora quarchiduno s’aricorda de me, quanno ch’entrai la prima vorta in sta città, Roma era tutta na‘nfiorata”. E tracannanno ‘n bicchiere doppo n’antro fece quella: c’ereno puro li svizzeri der Papa”.
“E io je dissi a quella: fermateve nonnè che state a pijà ‘na cantonata, si continuate a bbeve de sto taijo presto finirete avvinazzata. “Mo dico, io chissò? E uno a vedemme così direbbe che nun sò nisuno. Certo n’è passata d’acqua sotto a li ponti, però ancora quarchiduno s’à d’aricordà puro de me. Io so Meo e un tempo tutti a Roma me portaveno rispetto. Mo voi nonnè sempre parlanno co’ rispetto, sarvo ognuno, me state a pijà proprio sù pel culo”.
“Ma chi, la Dama Nera?”, chiedo tosto io.
“Ma no”, dice quello repentino,
“Quella doveva esse ‘nantra. Nun faceva che parlamme dell’Arcadia”.
“Qualcosa avrà pur detto! Chi era?”.
“Nun so, me pare che venisse da la Svezia. Disse che stava a palazzo Riario alla Lungara, che aveva scerta Roma come sua dimora e che ospitava nun sò quanti signori pe’mmezzo a sto giardino, come de chi volesse aritornà a far contadino. Mo io chissò? So ‘nignorante se ve dicessi che nun ciò capito gnente. In verità ve dico come la penso: che a sto monno uno ha da mette er poco co’ l’assai, e si te fai cojonà da ‘gni fanfarone, poi nun t’hai d’arabbià si l’antri te tratteno da minchione. Mo io nun faccio pe vantamme ma nun so spavardo pe così dì, a vòto. So adoprà bene la sferra e la molletta e nun sto ar servizio de nisuno che nun sia me stesso. A dispetto de chi nun vò, so’ orgoglioso e fiero, so’ generoso e giusto. Ma ch’io possa crede come diceva quella a ‘na “dimora de’ sogno” situata in drento de’n giardino, co sette scale o meijo, sette scalini de pietra messi gnentemeno che dda na Dea che vorse sfuggì dall’Inferno ar Paradiso, me pare proprio er cormo. Mo io nun so si fosse stato er vino o che, ma quella me scomparve così, com’era venuta a mettesse a sede ar tavolino. Un mito?, ‘na leggenda?
L’importante è che voi ciavete creso. In verità pe beve ‘n goccio in compagnia io aricconto storie a chicchessia. Mo voi nun ve la pijate, der resto s’ò stato attore co li zanni, un Meo smargiasso e ridicoloso rivorto alli amori e all’osterie, e mo che sò addiventato vecchio dico frescacce. Ma ‘nfonno er gioco n’è varsa la candela, avemmio bevuto o no in allegria?”.
“Eccolo ttiè! A Romolè viette a mette a sede che sto signore t’offre da beve, così ja ricconti de la Dama Nera! ”, dice vedendo affacciarsi sull’uscio della Hosteria un tipo ossuto vestito di nero, la cui figura, chiunque l’avrebbe detta d’un becchino, tanto era smunta e pallida che se non era il morto, di certo tornava testé da un funerale.
“Vedete, nun ve lasciate impressionà dall’apparenza, dietro la facciata der cordojo s’ammaschera un malandrino. Quann’entra Romoletto, manco a fallo apposta tutti se toccano contro la jattura, e pure fa ‘n mestiere d’oro, che lo benedica Iddio, piagne er morto e frega er vivo. Ner senso che proprio mentre tutti piangheno er moribonno, lui arranfa tutto quer che trova intorno, e co ‘na scusa o ‘n’antra, lo porta ar Monte de’ Pietà, ‘ndove quer pietoso sentimento invero c’entra poco. Piuttosto c’è la drento ‘n Cristo sì tignoso, che prima ancora de paganne, già t’ha levate puro le mutanne! A Romolè e’pparla, si voi beve hai da di quarcosa a sto’ signore, che qui avemo ormai toccato er fonno de la fiasca. Oste!, chiama egli tosto, è mejo ch’ordinate ‘nantro litro, perchè si Romoletto attacca a chiacchierà famo matina. La “historia” è lunga assai. Vai! attacca Romolè!”, dice questi, accennando un accordo di chitarra. A dir del vero non saprei dire chi la stesse suonando, poiché oltre a quei due, c’era l’oste, e fanno tre, e un altro al bancone in tutt’altre faccende affaccendato.
“Anvedi aho! Che tte ne pare?”, chiede Romoletto:
Er vino è sempre vino,
Indove vòi trovà ppiù mmejjo cosa?
Ma gguarda cqui ssi cche ccolore!, guarda!
Nun pare un’ambra? Senza un fir de posa! (13)
Romoletto dapprima brinda alla “salute” e poi alla “vita”. Quindi, dopo aver “ripreso fiato” prende a narrare molto lentamente: “Vede signore caro, mio padre è stato vetturino presso un nobile principe romano, accreditato presso il Vaticano, che pure era chiamato a portà la Sedia gestatoria. E quanno accadde il fatto del principino, ch’era rimasto senza vita sul selciato, tanto s’addolorò quer pover’omo, che per un anno nun lo se vedette più in giro. Un bel giorno vestito de nero a tutto punto, mio padre lo accompagnò al Verano ch’era mezzogiorno. Era pallido e smunto, ma sempre col fiero portamento della nobiltà, come tosto se dice: “noblesse oblige”. E quando fece ritorno da quer sito, portava seco un’urna tra le mano, erano quelle le ceneri dell’adorato principino, ch’avrebbe disperso nell’acque del Tiber sacro, ‘..affinché cotanta bellezza, disse a mio padre, s’andasse a ricongiungere colla natura che je l’aveva dato”. Poi, co’ le lagrime all’occhi, lo fece core a scapicollo ‘nfino alla chiesa in cui era s’uso. Mo, Sant’Andrea della Valle è una gran chiesa e quel giorno c’era non so quale funzione, la gente tant’era che ne restava fora.
Quando che uscì la processione tutti rimanettero in silenzio, ner vedè quer nobbile signore in ginocchio sul sagrato, davanti al crocefisso benedetto. E tanto fu lo strazio nel vedello che tutti piagnettero co’ lui. In seguito nisuno l’ha più visto. Mio padre disse che restava spesso solo e a lui chiedeva notizie, se sapeva, di quell’antra gran signora, com’ella stava, era la Dama Nera”.
“Perché, la conosceva?” chiedo io.
“Mi padre no, però lui si che la conosceva! Si dice fosse stata la sua amante. E lui, mi padre, doveva stà ‘ssentì quer che se diceva in giro”.
“A Romolè, ripija fiato, fece l’altro, famose ‘nantro goccettino”.
È così che brindiamo ancora una volta insieme.
“Si racconta che lui, er nobbile signore, l’avesse un dì lasciata e portato a casa sua quer pargoletto nato da la loro communione. Mo lei era ‘na negromante, come si dice di chi professa l’archimia, e sembra javesse fatta ‘na fattura pe’ la ggelosia. Quel che accadde invero quella notte, lo sa solo Domineddio. Er giovane principe che corse incontro alla carozza in verità era su fijo. E quella lo travolse e lo lasciò morì sull’acciottolato, e senza soccorso alfin egli si spense, e così lo ritrovarno verso ch’era già mattino. Teneva stretto quarcosa ne la mano, er poverino, uno smeraldo blu de n’orecchino. Prezzioso dissero da valè un tesoro, ch’era stato un dono o forse un pegno dell’amore che in cuor suo il padre le aveva donato. E vano fu er tentativo d’ariaccoppiallo coll’altro, compagno medesimo der primo, che pure era annato perso e che, ancora oggi, è esposto ar Monte de’ Pietà. Nessuno mai l’hà reclamato in verità. E io, che della famija ho raccolto l’eredità, due o tre volte all’anno vado ar Monte a controllà”.
Or io lo so che non avrei dovuto, ma tale era la trama del racconto che volli in qualche modo render presente la mia partecipazione, che fino a quel momento era stata illusoria. E che faccio, di punto in bianco tiro fuori di tasca quello ch’io credo fosse il compagno dell’orecchino. I due, dopo aver sommesso un risolino, dicono, l’un l’altro: “a frescò, ma quello è solo un giocarello, sarvo ognuno e’ de na bambola de na regazzina, si fusse vero sarebbi ricco d’un tesoro. A Romolè, dice Meo, dijelo puro te che te nen tende, che lo se po' trovà sopra a le bancarelle”.
“Non me dì, fa Romoletto, che c’è sei cascato puro tu, che te l’hanno vennuto pe’ bono?”
E l’altro, di rincalzo: “e quanto te l’hanno fatto pagà? Più de millanta? Ma nun l’hai capito ch’era tutto un gioco?”
“Quale?”, chiedo allora io.
“Ma quello che te stamio a riccontà. È opera de’ zanni, è teatro”.
E Meo: “tu ce dai er via su de ‘na cosa, e ar canovaccio ce penzamo noi. È questo er teatro de la vita, che pe’ la strada ha incominciamento e poi finisce all’osteria, davanti a un litro pe’ contentamento”.
“Mo quer ch’è stato è stato, noi l’avemmio fatto pe’ giocà, secondo l’uso che ciavemo a Roma da riccontà a li forastieri li fatti de la cronaca come un “fattaccio”, e puro si s’ò successi da mill’anni li raccontamo come fussero accaduti l’antro ieri. E mo, come già avevo detto, le bevute hanno da esse uguali. E dato che er bicchiere mio è rimasto a secco, te tocca ariordinà ‘n’antro goccetto. Mo se mezzo litro fanno tre bicchieri nai da ordinà dispari tanti, ‘finchè, a conti fatti, nun arisurteranno pari.”
“Oh sveija, a sor coso, davvero ancora credi ar Diavolo?”, dice Meo.
“J’ha detto Nina ‘n faccia a su marito”, dice Romoletto riprendendo il verso.
“E di, che sei der Cuppolone! Ma nun la voi capì, brutto fregnone, che dar tempo de Cristo benedetto er Diavolo nun è che n’invenzione!” E Meo: «Er Diavolo, Ninè, nun so’ fregnacce, se sò vennuti l’anima pe’ lui Re, Monsignori, Principi e donnacce, Capi partito, Ministri insospettabili, e Deputati ingordi. Pe’ cui, Ninè, er diavolaccio boja so’ li sordi che ce vonno tanti!»

“Vedi quann’er demonio nun ha ggnente da penzà accasa sua...! ”, dice Romoletto, rifacendo il verso al massimo poeta della strada:
Tutti li torti abbi d’avelli ar monno
Quer povero cristiano der demonio! ...
Perchè sto mmaledillo in zempiterno?
Eh lassàmolo in pasce in ner profonno
De le su sante pene dell’inferno!
Er demonio, sù e ggiù, vòi o nnun vòi,
È ccratura de Ddio quanto che nnoi.

(continua)

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