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Roma in fabula - Cronaca di città / 2

Argomento: Letteratura

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 11/09/2025 17:53:46

ROMA IN FABULA - Cronaca di città. / 2

L U D U S

Giunto il Tempo di Carnevale, la gente ammascherata riempie le strade. Dalla Piazza del Popolo per tutto il Corso fino a Palazzo di Venezia è tutto un corteo di carrozze, di gente intabarrata, di maschere galanti, di nobili vestiti da straccioni e di straccioni in abiti nobiliari, di falsi preti e cardinali burloni, nonché di preti che vestiti da prete “arifanno er verso a li minchioni”, donne mascherate da uomini e uomini travestiti, per così dire, da donne.
Le maschere tumultuanti si lasciano andare in una baraonda sfrenata nei fastosi ricevimenti che vengono dati, con grande sfarzo, dalle famiglie dell’alta nobiltà, e nei “festini”, quei balli in maschera organizzati nei teatri più importanti della città. Ma il fulcro del Carnevale romano è la corsa dei “barberi” o “berberi”, quei cavalli non montati, che da Piazza del Popolo arriva fino alla Piazza di Venezia, in quella strada lunga e stretta che ancora oggi si chiama per l’appunto il Corso, mirabilmente addobbato per l’occasione.
Di una passeggiata in carrozza lungo il Corso durante il Carnevale del 1761 scrive Giacomo Casanova: ‹‹Quivi si precipitano con rumore indicibile turbe di maschere di ogni razza, a piedi e in vettura. I confetti, le canzoni satiriche, le pasquinate piovono da tutte le parti. Quivi tutta la gente più nobile e più brillante che sia in Roma si confonde col popolaccio. (..) Nelle trattorie e nelle bettole tutte le stanze e tutte le tavole sono piene e tutti mangiano e bevono come se in avvenire non avessero a nutrirsi più mai›› (16)
Scrive Goethe nel 1787: ‹‹Quando si pensa che il Carnevale di Roma non è una festa data al popolo, ma festa che il popolo dà a se stesso. (..) Le distinzioni di classe spariscono, si confondono e nessuno si offende né si scandalizza delle avarie che gli possono toccare. Una sorta di contagio dato da un semplice segnale che autorizza ciascuno ad esser pazzo e stravagante quanto gli pare e piace, ed annunzia che, salvo le bastonate e le coltellate, tutto in fin è permesso››. (17)
Sulla Piazza del Popolo si erigono palchi per gli spettatori e barriere per la mossa dei “barberi” (18): «I cavalli, che talvolta sono anche fino a venti, appartengono ad una razza speciale di piccolissima taglia. Il segnale è dato dalla campana del Campidoglio; le botteghe chiudono e tutti smettono di lavorare; i balconi, le finestre del Corso sono addobbati con drappi e tappeti, e la strada, che diviene un’immensa sala di festa, è piena di gente».
Racconta in una sua lettera datata (..) Madame de Stael, cronista di un Carnevale a Roma: «La tensione massima, si raggiunge al momento della “mossa”. I cavalli, trattenuti a stento dai palafrenieri, vengono accuratamente preparati con mille astuzie: droghe, punte e perfino stoppini accesi all’estremità della coda. Appena abbattuta la corda i barberi corrono furiosamente travolgendo qualunque ostacolo. Il premio in palio, un taglio di stoffa ricamato in oro è un onore molto ambito». (19)
Scrive ancora Goethe: «Dopo la corsa, a misura che si fa notte, i balconi s’illuminano di numerosi moccoletti ed altrettanto fanno le carrozze aperte, e tutti e poi tutti, a piedi o in vettura, ritti o a sedere, tengono in mano un moccolo acceso. E tutti non pensano che a una cosa: spegnere il moccolo degli altri e riaccendere il proprio se è stato spento. Un grido solo esce dalla bocca di tutti: “sia ammazzato” chi non porta moccolo!”. Ma che in fondo suona come un augurio di “lunga vita” ad ognuno». (20)
Così che, per una risaputa circostanza: «Il proverbiale “sia ammazzato” della plebe romana non ha il suo malefico significato, ed è soltanto la parola d’ordine dell’allegrezza generale che talvolta si riduce anche a complimento. E se il divertimento è piazzaiuolo la plebe e la piccola borghesia finiscono il Carnevale dietro alle pantomime ed ai funamboli per via, o con una larga cena in trattoria, mentre nei teatri dell’Opera, e della Commedia si accalca tutta l’aristocrazia» (21)
È un fatto che: «Il Carnevale romano ottocentesco resta nella storia delle feste popolari quasi come un mito, suffragato dai resoconti dei viaggiatori-scrittori, infiltrati nei gruppi di maschere, dove si confondevano gaiamente nobili e popolani. Aveva prima attraversato il Corso Salvator Rosa, con i suoi compagni di baldoria, con cantate buffe eseguite con strumenti musicali.(..) Fu poi la volta di G. G. Belli che recitava una sua Cicalata vestito da Dottor Gambalunga, G. Giraud travestito da Cerretano, e G. Zanazzo da Rugantino» (22). E Trilussa, dal canto suo:

Vent’anni fa m’ammascherai pur’io!
E ancora tengo er grugno de cartone
che servì p’annisconne quello mio.
Sta da vent’anni sopra un credenzone
quella maschera buffa, ch’è restata
sempre co’ la medesima espressione,
sempre co’ la medesima risata.
Una vorta je chiesi: -E come fai
a conservà lo stesso bonumore
puro ne li momenti der dolore,
puro quanno me trovo fra li guai?
Felice te, che nun te cambi mai!
Felice te, che vivi senza core!-
La Maschera arispose:- E tu che piagni
che ce guadagni? Gnente! Ce guadagni
che la gente dirà: Povero diavolo,
te compatisco..me dispiace assai...
Ma, in fonno, credi, nun j’mporta un cavolo!
Fa’ invece come me, ch’ho sempre riso:
e se tepija la malinconia
coprete er viso co’ la faccia mia
così la gente nun se scoccerà... -
D’allora in poi nasconno li dolori
de dietro a un’allegria de cartapista
e passo per un celebre egoista
che se ne frega dell’umanità. (23)
. . .
Oggi è l’ultimo giorno di Carnovale e dappertutto si addobbano i festoni. Piazza Farnese scintilla di mille e più colori. La folla si accalca in cerchio per vedere lo spettacolo delle maschere in costume. Ci sono i saltimbanchi e il mangiafuoco, nonché numerose dame e qualche Pulcinella. E tutti, aimè! che attendono qualcosa.
“Ma cosa?”, chiedo al primo capitato.
“La sfilata del Popolo della Gioia! Ma come non lo sai? Proprio qui dove si sono dati appuntamento, fra poco li vedremo uscire allo scoperto”.
“Uscire, da dove?”
“Ma dai sotterranei della città antica! Il via sarà dato a momenti, quando dalle fontane uscirà improvvisamente . . .”
“Qualcuno uscirà dalle fontane?”
“No, ma che dici! Non sono sicuro, sembra, dal tombino situato al centro della piazza”
Stento a credergli, ma “com’è come non è”, un numero incredibile di maschere fantastiche e colorate all’improvviso sbucano in mezzo a quella folla, che li solleva e li lascia cadere fra mille battimani, risa e grida di meraviglia. Poi, come un serpentone che esce dalle viscere della terra, prende forma un cordolo bizzarro, che incomincia a girare in lungo e in largo fra canti, balli e scoppi di petardi. Incredibile a vedersi, impossibile resistervi, così mi getto anch’io nella mischia, preso da insolita allegrezza. C’è chi si tiene per mano, chi sale in groppa all’altro, chi spinge e chi tira, chi salta e chi corre per fermarsi poi di scatto, in modo che quelli che l’inseguono caracollino l’uno dopo l’altro. Chi cammina sui trampoli e chi a cavalcioni, chi traina una botte davanti a un corteo di nani, e chi reca fondali dipinti, panche e tavole, corde e candele, abiti e maschere per la rappresentazione che di lì a presto avrà inizio, dicono, dopo un primo canto carnascialesco.
Un tavolino, due sedie, un fiasco impagliato, un paio di bicchieri, un suonatore di chitarra vestito da carrettiere, una canterina vestita alla “romana”. Uomini e donne seduti sopra le panche, vecchi e ragazzini l’uno al fianco dell’altro, e c’è chi, con un bicchiere in mano, canta uno stornello. Tutt’intorno i buffoni e un certo numero di nani, che rifanno il verso a questo e a quello, senza badare se questi è un funzionario della pubblica amministrazione o un cardinale della Santa Inquisizione.
“Chi sono?” - chiedo a quello seduto al mio fianco.
“Comme cchi sò’?”
“È ggente che spera e ch’abbisogno de vede armeno in sogno, quer che nun trova ne la vita vera” (24)
“Ma ttu, nun li conoschi?”, chiede quello rivolto a me.
“No”, dico io, con la speranza che abbia voglia di raccontarmi qualche cosa.
“Vedi, dice egli, io precisamente nun lo so’, però li riconosco facirmente, e nun me sbaijo mai. Tutti a Roma ce lo sanno che ‘gni tanto, e si sei proprio affortunato, ce scappa de vedè ‘no spettacolo de pazzi. Ar Monno se sà de matti ce ne so’ tanti, ma qui de’ Carnevale nun arivi proprio a contalli. Quelli che stanno in de la suburbia, se metteno le gambe in spalla e vengheno infino a qui, in tempo pe la rappresentazione”.
“Di che spettacolo si tratta?”
“È qui, che s’arivorta er monno. Come pe’ dì che er meijo de li ommini viè a galla. Basta na maschera, e quello ch’eri prima tutto se arisquaija, e dai spazio ar sogno, alla favola, alla voija, allo sfizio, all’intrallazzo, allo sconquasso.”
Ed anche, aggiungo io, alla risata effimera, alla loquacità salace, al parapiglia, alla gozzoviglia, e così via.

“Ma l’illusione se sà, dura poco, aggiunge quello, ché la realtà, è dura assai, ma in fonno ce se sà, che er peggio nun è morto mai”.
Quann’ecco s’avvicina er Carnovale:
Chi ffa dda Conte, chi dda Speziale.
Io mé voijo vestì’ dda Conte
Ma li panni cell’ho ar Monte.
Fra ggilè e ppantaloni
Ce n’ho dieci credenzoni.
Ce n’ho ‘n paro blu celeste
Che lo porto pe’ le feste.
Ciò ‘n palazzo a Villa Spada
Co’ bbellissima facciata.
Ciò ttre ccammere e ccucina
E ‘na fornitissima cantina.
Ciò ‘n bel letto ammobbijato
Che m’addormo ‘ncima ar mattonato.
E quanno m’arzo a la mmatina
Lo rifò co’ lla furcina.
Ma ciò ‘n gatto maledetto
Che puro ce piscia pe’ dispetto. (25)

A un certo punto arriva un corteo con tanto di suonatori in abiti antichi, un opulento, rubicondo Bacco, sdraiato su di un carro ricoperto di foglie di vite e tant’uva nei canestri, che la folla ruba a grappoli, quasi come vera. Ancelle che danzano gli fanno da corolla, e spargono fiori di carta, coriandoli e sorrisi tutt’intorno. Bacco, preso un grosso calice di buon vino ricolmo, fa un brindisi sonoro: “alla vita!” dice, quando un coro si leva a lui d’intorno: “alla vita!”.

Vino, vinèllo, quanto sei bbono quanto sei bbello!
A fidasse de te resta l’inganno
che da solo vieppiù vo’ discorenno.
Da ‘na mano te prenno, dall’antra te lasso
‘gni vvorta du’ deta ppiù abbasso
e strizzo l’occhio all’oste: che porti un’antro fiasco!
Pe quela vita che cciarègge ar monno
prima de cantà ‘n’antro stornello
dè ‘sto bbicchiere voijo vedé er fonno!. (26)

A quella esclamazione la folla, presa da improvvisa dilagante euforia leva applausi a non finire all’insegna di “Viva il Re del Carnevale!”, “Viva Sua Maestà!”, mentre Bacco gaudente, leva continui brindisi alla gente. Dunque sopra quel carro sgangherato, si mette tosto a ballare, finché il legno cede e lui rovescia sopra la folla, la quale, per niente preoccupata, l’accoglie a braccia aperte e lo sospinge in aria ripetutamente. Poi tutti s’abbracciano e si baciano, gli uni con gli altri, e sollevati i rispettivi calici di vino prendono ad acclamare:

“Evviva il Carnevale!”
“Sia ammazzato! ”
“Viva il Re!”
“Sia ammazzato! ”
“Viva Zev !”
“Sia resuscitato! ”

Ancora quel nome, Zev. Ancora una storia da raccontare, penso tra me, mentre mi si accende in bocca una risata. Intanto che il corteo si dilegua nel bel mezzo della folla, Bacco prende posto a sedere su di un “trono” sgangherato, e mentre qualcuno cerca di ricomporlo nella sua veste regale, le ancelle gli aggiustavano sulla testa riccioluta una corona fresca d’insalata, ed eccolo tosto, al suono d’una finta lira svalutata, da inizio alla sua carnascialata.

“Fazzoletto” (27) Carnascialata in prosa per maschere e buffoni. ZEV, Roma 1980.

Or io vi conto una fabula nova, dice Bacco arringando la folla, la storia vera, dell’ allegro Popolo della Gioia. Trattasi d’un sogno ove d’ogni cosa si parla o si sparla senza senso, ma alla fine il risultato è sempre quello: che le donne “che sieno sante o che sieno matrone” che il diavolo se le porti! devono sempre aver ragione, mentre “l’ommeni ‘nfonno se sà so’ coijoni” non perdono occassione, “de fasse sbottonà puro er cervello, insieme con la patta dei carzoni”.
In una notte scura, non molto tempo fa, mi ritrovai per caso in un viale alberato, fiancheggiato da palazzi d’epoca umbertina, che andava dal Tevere a Largo Argentina. Quasi verso la metà del viale v’era un giardinetto con alberi verdi e una fontana. Sta ancora la. Se ci si trova li al momento giusto e con la dovuta disinvoltura, si arriva all’angolo di una strada lassa, lastricata di sampietrini, dove non vi sono che pochissime persone, né s’ode il rumore del traffico cittadino.
Il trambusto e lo strombettio dei clacson è sovrastato dall’incredibile cinguettio di numerosi uccellini, che accolgono benevoli chiunque vi si addentra. “Fazzoletto” è il suo nome, derivato dal fatto che accoglie il Popolo della Gioia. La sua storia, offuscata dal lungo abbandono, risale al Caos Evo, e si cela nel ventre misterioso della Roma antica. Ma come si sa, la gioia è un’emozione, e in quanto tale, spesso fa lacrimare gli occhi, e qualche volta anche il naso.
Il fatto di trovarmi in un luogo insolito, senza aver avuto il necessario supporto di cartelli segnaletici, così rari a Roma, e che pure credevo di aver visti, o forse sognati, mentre stavo con gli occhi chiusi un momentino, mi disse ch’ero giunto a destinazione. Naturalmente le strade erano diverse, come anche diversa era l’architettura, i colori e le proporzioni. Ogni cosa, eccetto una o due ch’erano oltre misura, risultava leggermente più piccola e, come scoprii in seguito, sproporzionata.
La piazza principale aveva un impiantito di tavole dipinte con motivi floreali invece dei soliti sampietrini, che si allargavano a macchia a formare un grande tappeto, che quando vi appoggiai il piede si trasformò in un bellissimo giardino. Vagai su per una strada e giù per un’altra, fermandomi qua e la ad esaminare i particolari più interessanti che colpivano la mia fantasia. Quando, ad un certo momento, qualcuno mi parlò con voce di contralto che piuttosto bella, non riuscii a vedere nessuno.
“Quassù! guarda quassù!”, disse la voce cantando. Allora mi guardai intorno e sopra una porta vidi una piccola nicchia dipinta di verde, da dove s’affacciava un uccellino.
“Si, sono io, disse, e non è il caso di fare quella faccia sbigottita”.
Chiusi la bocca e deglutii: “Buongiorno !”, dissi, perché li era già mattina.
“Forse è una giornata buona per te”, replicò l’uccellino.
“Come si chiama questo paese ?”, gli chiesi.
“Si chiama Fazzoletto, più conosciuto come Principato Indipendente, ed io sono Contessa”.
Mormorai degli eloquenti: “ah!“ ed “oh!”, dopodiché Contessa mi invitò a seguirla. Girammo per un po’, finché giungemmo in un’altra piazza. C’era una bella fontana poggiata sopra un alto piedistallo sul quale, per accontentarla, fui costretto a salire: ” Per fartela vedere dall’alto”, disse.
“Vedi!, disse indicando un punto, la in cima, ci sono le impronte di Principessa”.
E c’erano davvero, la, sul bordo di pietra della fontana, due impronte delicate, come di qualcuno che avesse preso il volo.
“Si metteva sempre li, immobile come una statua di marmo, a guardare il cielo”, spiegò Contessa. “Ed è così che un inverno più freddo del solito, volò via e non fece più ritorno”.
“Quanto tempo è passato da allora?”, le chiesi.
“Bah! Il tempo, a chi importa?”, rispose con indifferenza.
Poi, dirigendosi lentamente verso il fondo della piazza disse: “Ogni volta che lavava il Fazzoletto Santo si metteva là e vi restava, fintanto che non si fosse asciugato. Sembrava proprio una statua, tant’era bella”.
“Allora quelle impronte.......?”, dissi, senza ultimare la domanda, cercando di nascondere la mia confusione. Ma poi chiesi: “Cos’è il Fazzoletto Santo?”.
“È forse il Cencio della Veronica?”.
“È quello che andiamo a vedere ora”, disse avviandosi frettolosamente.
La seguii, e sebbene avessi ancora molte domande da farle, rimasi senza parole nel vederla cambiare forma ad ogni passo, fino a trasformarsi in un essere umano. Dopo circa dieci passi la sua metamorfosi fu completa e mi trovai davanti una bellissima e fiorente donna, dai capelli rossi. E quello che prima non era nient’altro che un batuffolo di piume, s’era trasformato poco a poco, in un elegante abito rinascimentale, che continuava gradatamente a cambiare colore.
Anche la sua voce era mutata quando mi chiese: “Che colore preferisci, porpora o verde?”.
“Verde!”, replicai.
“Grazie! e verde sarà”. Dopo un po’ notai che la metà inferiore dell’abito era ancora color porpora, ma decisi di non dire nulla.
Arrivammo in fondo alla piazza e ci fermammo davanti ad un muro di pietra alto circa due metri. Al centro v’era una porticina di ferro guardata a vista da un gigante che vi stava di guardia in alta un’uniforme. Aveva i pantaloni avorio e la giacca rossa gallonata d’oro. In testa portava un casco che risplendeva come fosse d’oro, con cresta e coda di cavallo nera. Era così alto che il muro gli arrivava appena alla vita. Quando ci avvicinammo fece un bel saluto.
“Buongiorno Carino!, lo salutò Contessa, per cortesia ci apri il cancello?”.
“Mi spiace, non posso”, disse, facendo di nuovo il saluto.
“Come sarebbe a dire non puoi?”. La voce di Contessa si era alzata di un’ottava.
“Non posso perché ho perso la chiave”, diss’egli facendo un altro saluto, nel mentre due lagrimoni gli riempirono gli occhi.
“Smettila ora!”, la voce di Contessa scese di un’ottava.
“Non piangere, Carino. Capita a tutti di perdere qualcosa”.
Poi, rivolgendosi a me con gentilezza, chiese conferma: “Non è forse così?”.
“Oh, si!”, mi affrettai a rispondere.
“In verità non mi piace vedere piangere un uomo”, disse.
“Ma lui non è ancora proprio un uomo, deve ancora crescere, ma non lo posso ugualmente vedere quando piange”.
Ciò nondimeno Carino continuava a piangere lagrimoni così grossi che quando cadevano per terra schizzavano. E tirava anche su con il naso.
“Smettila di piangere e pensa a farci entrare nel giardino”, gli ordinò Contessa.
Carino obbedì e di nuovo ci salutò. Poi ci prese sul palmo della mano, uno per ciascuna mano, e ci passò dall’altra parte del muro, come fossimo stati due soldatini di carta, e ci depose delicatamente sul muschio vellutato del giardino.
Tutt’intorno v’erano tantissime felci, che persino l’aria assumeva un riflesso verdognolo di clorofilla, e sebbene sembrasse incolto e trascurato, nulla in verità risultava fuori posto.
Facemmo alcuni passi in silenzio, e quando mi volsi indietro a guardare, vidi Carino che se n’era rimasto dall’altra parte del muro e ci seguiva con lo sguardo.
I vialetti del giardino erano soffici come un tappeto e serpeggiavano tra le piante come in un labirinto, non senza riservarci inaspettate sorprese. Per prima incontrammo una gigantesca iguana nera che ci bloccava il passo. Aveva gli occhi che luccicavano come bronzo fuso e quando le fummo davanti spalancò in tal modo la sua bocca che le si vide persino lo stomaco. Tirò fuori la lingua per spaventarci, aveva le gengive scarlatte e i denti che le brillavano come l’oro. Mi sentii rizzare i capelli sulla testa, mentre Contessa non batté alcun ciglio.
“Conoscete la parola d’ordine?”, gridò la strana bestia.
“Samantha non rompere. . .!”, Contessa sembrava proprio seccata.
“Avanti, passate!”, fece Samantha e goffamente fece ritorno tra i cespugli.
Arrivammo in una curva e ci trovammo su uno spiazzo coperto di verde muschio vellutato, al centro del quale c’era una colonna antica. Era massiccia e altissima, con un bel capitello corinzio finemente lavorato. Sopra a questo stava un vecchio dai lunghi capelli bianchi, con una barba lunga e bianca che gli arrivava fin quasi alle caviglie.
Teneva in mano una bandierina triangolare con su scritto il numero “18”.
Guardai attorno per cercare una qualche buca, ed infatti la trovai. Era una buca molto più grande di qualsiasi altra buca numero “18”. Mai vista una così sui campi da golf che avevo frequentato. Era per lo meno un metro di diametro.
Contessa guardò in su e lo chiamò, con una voce che sembrava un carillon:
“Fritz!, suppongo tu non abbia perso la chiave della volta, eh?”.
“No, Erminia”, rispose gridando il vecchio.
“Allora tiramela!”.
“No”.
“Come sarebbe a dire no? Andiamo Fritz, non fare il difficile. Mi occorre la chiave”.
“Allora vieni a prendertela quassù”.
“Senti Fritz, sai benissimo che non posso venire lassù, specialmente così come sono ora. Ti prego Fritz, tesoro, posso avere la chiave?”.
“Così va un po’ meglio, Erminia”.
“Grazie, tesoruccio!. Ho un’idea. Perché non vieni giù tu, invece di far venire me su, c’è tanto più spazio quaggiù”.
“Adesso non diventare ragionevole. Sarebbe veramente più di quanto io possa sopportare. Comunque, verrò giù”.
Così dicendo infilò la bacchetta della bandierina in un foro al centro del capitello e la girò come fosse una chiave. La colonna cominciò a girare su se stessa e si abbassò sprofondando nel terreno. Poco dopo era al nostro livello.
Contessa, volgendosi verso di me disse: “Ti voglio presentare mio marito, il Conte Fritz Von Spitz”. Poi voltandosi verso il marito, che mi resi conto, non indossava niente sotto la barba, continuò. “Fritz, tesoruccio, ti presento il signore che sta sognando tutto ciò”.
Ci stringemmo la mano e mormorammo appena i convenevoli di rito. Poi, indicando con la testa, Fritz sussurrò all’orecchio di Erminia: “Una fantasia della sua immaginazione?”.
“No, mio caro, lo so che tu sei troppo abile per una cosa del genere”, rispose lei facendo le moine.
“Non mi porterai mica in giro così”, gridò egli inquieto. “A proposito, perché mai vuoi quella benedetta chiave?”
“Ho promesso a questo signore di fargli vedere il Fazzoletto Santo”.
“Vuoi dire quello straccio da mocciolo?”.
“Vorrei proprio che non lo chiamassi in quel modo. Davvero!”.
“D’accordo, d’accordo! Ecco la chiave!”, disse e le diede un fiaschetto. Lei lo prese in mano come fosse carbone bollente e svelta lo diede a me aggiungendo: “Ti prego di non farlo cadere!”.
“Ci starò bene attento”, la rassicurai e, prendendo il fiaschetto in mano sentii che era caldo. Mi domandai dove lo avesse tenuto Fritz, dato che mi sembrava non avesse tasche. Sul fiaschetto c’era un’etichetta che lessi ad alta voce:
Liombruno io son e dappertutto passo!
Scassinare è mio gran spasso.
Piccolo o grosso sia lo scasso.
Verme passe-partout è un vero asso!
A quelle parole Contessa si allarmò e mi mise sull’avviso.
“Ti prego, no l’aprire qui!”.
Sembrava spaventata e indietreggiò di alcuni passi e finì per cadere nella buca numero “18”. Mentre scompariva nell’apertura, si sentirono le sue grida che si andavano affievolendo man mano che sprofondava. Fritz non batté ciglio.
Lui si avvicinò a grandi passi alla colonna inabissata.
“Vieni con me, disse, raggiungiamola!”.
“Ma con questa non si va su?”, domandai.
“No, rispose, si va giù. Lei sta giù ed è li che andiamo noi”. Così dicendo salì sul capitello. “Forza è pronto!”. Allora salii anch’io sul capitello.
C’era più posto di quanto immaginassi. Lui infilò per benino la bacchetta nel foro al centro, girandola da una parte e dall’altra. Quindi discendemmo lentamente sottoterra roteando. Guardai l’erba vellutata che si alzava fino ad arrivare al livello dei miei occhi, poi l’apertura sopra di noi divenne un cerchio che incorniciava il cielo. Eravamo in un cilindro di pietre incastrate meravigliosamente. C’era assai luce proveniente da lampadine di vari colori che stavano qua e là nelle nicchie.
“Dove stiamo andando?”, gli chiesi.
“A visitare la città sotto la città, che giace sepolta nella coltre avida e terragna dei secoli, e per lo più ignorata, che non ha nulla a che vedere con quella stentorea e altisonante che sta di sopra”.
Continuavamo a scendere a spirale quando improvvisamente sentii una ventata d’aria umida, finché arrivammo ad un antro buio e oppressivo dove temei che saremmo scesi. Invece Fritz disse:
“No, non qui. Questo è un passaggio segreto che passa sotto al Tevere e porta all’Isola Tiberina. Che si congiunge ad un altro passaggio che da Palazzo Farnese porta fino al Vaticano”.
Non riuscii a dire altro che un “Oh!” di esclamazione, nel mentre continuavamo a scendere. Ci fermammo davanti ad un’apertura arcuata debolmente illuminata, sebbene si vedessero alcune luci in lontananza.
Lasciammo il capitello ad un portico, di lì scendemmo pochi gradini rotti ed irregolari che portavano a ciò che una volta era stata una strada fiancheggiata da case. Mi guardai attorno e riuscii a distinguere altri portici in muratura come quello da cui provenivamo.
“Guarda, disse Fritz, la strada su cui cammini è un’antica strada romana.” Si vedono ancora i solchi lasciati dalle ruote delle bighe e dai carri antichi. Se ti appoggi con l’orecchio alla parete, puoi sentire pulsare il cuore pagano della Roma imperiale. Dietro la parete ci sono i resti di un Mitreo che s’affaccia sui “carceres” del Circo Massimo, il cui rito riecheggia fra le ombre di un passato oscuro e tenebroso”.
Proseguimmo verso una zona illuminata da torce. Man mano che la strada si allargava si vedevano meglio i particolari delle case su ambo i lati. C’erano anche molte stalattiti e delle grandi ragnatele. I pipistrelli addormentati che stavano attaccati alle pareti sembravano prugne secche. Vi erano anche migliaia di insetti e ragni che scorrazzavano liberamente.
“Non farci caso, consigliò Fritz, non ti daranno fastidio se tu non darai fastidio a loro”.
Infine giungemmo in una grande piazza sotterranea, che per i reperti visibili doveva essere stata un tempo animata da grande attività. Era ancora piena di vita, ma di diverso genere: ragni, pipistrelli e gatti. Proprio così, man mano che i miei occhi si assuefacevano alla luce, vedevo che c’erano molti gatti.
Gatti d’ogni razza, dal pelo fulvo e arricciato, rossicci e neri, grigio perla e viola, verdi, ed anche bruni, bigi e albini. Solo gli occhi sgranati lasciavano trasparire la vita che animava i loro corpi grassi, paffuti, opulenti. Occhi gialli, rossi, grigi, turchesi, che incutevano un timore ed un rispetto vicini alla sacralità. Sostavano, fermi come statue di pietra,accoccolati e sdraiati, sulla grande scalinata che portava al Tempio.
La grande trabeazione del Tempio costruita sui modelli dell’architettura teatrale ellenistica, era sostenuta da colonne, alcune delle quali altissime, che andavano scomparendo sotto la volta, ricavata entro un banco naturale di tufo. Lunghi fasci di luce inclinati discendevano, illuminandola a giorno, da un certo numero di buchi di insolita forma, da cui si vedeva il cielo, creando un’atmosfera arcana ed inquietante.
Ovunque guardassi intorno v’era uno spesso strato di muschio vellutato, erbacce e piante selvatiche. Quando all’improvviso, ebbe inizio un andirivieni di gatti che provenivano da tutte le parti verso la scalinata del Tempio. Contessa, vestita di verde, dava loro del cibo. Un fascio di luce illuminava i suoi lunghi capelli rossi sciolti sulle spalle che brillavano come rame lucente.
Fritz la chiamò gridando malamente, poi con fare imperioso le disse:“Manda via quei gatti fuori dai piedi. Come facciamo altrimenti a salire la scala?”.
“Ah! eccovi qui, miei cari. . .cari, cari, cari. . . “.
La voce sonora, proveniente dall’altra parte della piazza, echeggiò sotto la volta. “Pensavo che non sareste mai arrivati qui. . .qui, qui, qui. . . Venite qui. . . qui, qui, qui. . . ! Fate il giro dall’altra parte. . . parte, parte, parte. . . Potete passare di là. . . là, là, là. . . !”, disse canticchiando Contessa.
C’erano ormai tanti di quei gatti sulla scalinata del Tempio, che sembrava ci fosse un tappeto di pelliccia viva, brulicante. Contessa, molto abilmente, prese a gettare il cibo dall’altra parte, lasciando così uno spazio per permetterci di passare.
Ci avvicinammo e scorsi una sorta di piattaforma che sporgeva a metà della grande scalinata. Notai che il bel vestito verde stile rinascimentale di Contessa, le si era strappato in alcuni punti lasciando intravedere un lembo di color porpora, che le faceva da strascico.
“Spero che non si sia fatta male nel cadere in quella buca, Contessa”, chiesi premuroso.
“Niente affatto, mio caro. Sono caduta sullo scivolo che mi ha portato direttamente al Tempio. Divertentissimo, devo dire!”.
“Allora entriamo nel Tempio!”, diss’ella.
“Fai strada tu!”, comandò Fritz.
Contessa ci fece strada, ma con mia grande sorpresa non andando su per la scalinata, ma aprendosi un varco tra i gatti che le si strofinavano addosso, prese a scendere. Io e Fritz la seguimmo a ruota,. Attraversammo la vasta piazza con una certa difficoltà, arrampicandoci con le mani e con i piedi sulle statue cadute e coperte di muschio, e avanzando a zig-zag dentro e fuori del colonnato.
Girando attorno ad un mucchio di pietre cadute, giungemmo ad una pozza ricolma d’acqua, grande e profonda. Da un lato vi sporgeva il collo di un demone a due teste, a una delle quali mancava un pezzo di naso ed aveva le corna.
L’altra aveva una protuberanza sulla parte sinistra, le sopracciglia unite e gli occhi umidi che luccicavano. L’acqua fuoriusciva dalla bocca della prima, aperta in una smorfia. E da una crepa fra gli occhi dell’altra, dalla quale i gatti si dissetavano.
“Questa è l’acqua più buona di Fazzoletto”, disse Contessa.
“Ne vuoi un po’?”, mi chiese poi. E senza attendere risposta si arrampicò su dei sassi, prese una tazza d’oro che stava appesa ad un corno del demone e la riempì con l’acqua che sgorgava dalla bocca aperta. Me la porse dicendo:
“Bevi!”.
Bevvi, e devo dire di non aver assaggiato acqua più buona. Era fresca e limpida, vera acqua di fonte. Avevo sete e l’acqua non solo mi dissetò ma mi diede nuova energia.
“Grazie, Contessa, grazie! Non avrei mai pensato che quest’acqua potesse essere così gustosa. Mi sento un altro. L’effetto è magico”.
“Si, infatti è acqua magica, replicò, e una volta che uno ne prende un po’ per magia diventa uno di noi”.
E in un istante mi sentii felicissimo.
“Ma, continuò, non è stato sempre così. Una volta era acqua malefica e si può immaginare guardando la faccia del demonio da cui esce fuori”.
“Davvero?”, dissi perplesso.
“Questa che ora è una sorgente d’acqua pura e fresca, era un tempo un’acqua torbida e melliflua, a causa d’un maleficio ordito dal Conte Malditesta e dalla Maga Morgana Falafella che si erano impossessati della fonte. E, poiché essi avevano il potere di rendere schiavo chiunque ne bevesse, il nostro buon Re, dopo aver annientato il loro potere, volle in essa imprigionarli. Da allora l’acqua è tornata ad essere buona come una volta. Anzi, più buona di prima”.
“Chi è il Conte Malditesta? E l’altra chi è?”, le chiesi incuriosito.
“Oh! Morgana Falafella e quell’altro, Malditesta! Per carità! Sono una coppia di perfidi vissuti nel passato. Si può dire che facciano parte della nostra storia, anche se essi sono esistiti prima del costituirsi di Fazzoletto in P rincipato Indipendente. Vuoi un altro po’ d’acqua?”.
Ne bevemmo tutti ancora. Quindi, procedemmo lungo un cammino tortuoso. Involontariamente, continuai a pensare al Conte Malditesta ed alla sua compagna, Morgana Falafella, quando un brivido di freddo mi corse lungo la schiena.
“Brhhhhhhhhhh!”
Dopo un po’ ci trovammo davanti ad un Tempio dalla cupola gradinata, la cui struttura, a forma di cono rovesciato, mi fece tornare alla mente un moggio. Pensai:“Che fosse un Tempio sotterraneo? Oppure un sepolcro a tumulo? Chissà?”, ma non formulai alcuna delle domande.
“E’ questo erroneamente detto il Monte del Grano!, disse Contessa, in realtà si tratta di uno dei più superbi sepolcri della romanità”.
Incontrammo un bellissimo portico, sostenuto da poderose colonne. Una grandiosa cornice marmorea con una porta in legno, con stringhe di ferro, in bronzo, in argento. Sul lato sinistro del portone d’entrata, si delineava una porticina. Ed è davanti ad essa che ci fermammo, quando Contessa mi chiese:
“Hai il Verme Passe-partout?”.
“Si, eccolo!”, risposi, e feci il gesto di porglielo.
“No! No!, disse lei stridente, io non lo tocco. Lo devi usare tu!”.
“Basterà aprire la porticina, disse Contessa, ma temo di non saperti spiegare come si usa il Verme Passe-partout. Fritz, tesoro, forse glielo puoi spiegare tu”.
“Erminia cara, non c’è proprio nessuna ragione per cui tu debba fare la schizzinosa in questo modo. E non strillare. Lo sai come si offende”.
“Ci proverò, tesoro”.
“Giovanotto!”, esclamò Fritz.
Mi guardai attorno senza capire, ma Fritz stava proprio rivolgendosi a me ed improvvisamente mi sentii ringiovanito.
“Togli il tappo e Liombruno uscirà fuori da solo. Se non esce agita un po’ il fiaschetto e metti la mano aperta vicino all’apertura”.
Così feci. Diedi una bella agitatina al fiaschetto e misi una mano vicino all’apertura, ma non accadde nulla.
“Chiamalo per nome”, mi consigliò di fare il vecchio.
“Liombruno! Liombruno!”, chiamai, e con mia grande sorpresa, qualcosa di gommoso cominciò a venire fuori.
Quella “cosa” di colore arancio-marroncino dall’aspetto viscido, continuò ad allungarsi e ad ingrossarsi, poi con una rapida scivolata, saltò sulla mia mano in tutta la sua lunghezza. In verità, una volta fuori, ebbi l’impressione che fosse molto più grande del fiaschetto che la conteneva.
Aveva entrambe le estremità arrotondate e col passare del tempo diventava sempre più arancione. Queste cominciarono ad assumere le sembianze di due facce. Prima apparvero i nasi, poi gli occhi, che si aprirono uno alla volta guardando tutt’attorno furbescamente. Non appena presero forma le bocche, queste si misero a parlare dicendo ciascuna una cosa diversa dall’altra.
Era un parlare del tutto incomprensibile, ma quando le orecchiette a punta spuntarono fuori, allora il conversare divenne più ragionevole:
“Liom!” ,disse una.
“Bruno!” ,disse l’altra.
“Chi è questo?”, domandò l’una.
“Prima chi è?”, chiese l’altra.
“Prima di che?”, domandò l’una .
“Prima di qualsiasi cosa”, rispose l’altra.
“Che cosa pensi voglia?”, disse l’una.
“Chiediglielo!”, rispose l’altra.
“Che vuoi?”, mi chiese infine Liom.
“Aprire quella porticina li”, risposi e mi affrettai ad aggiungere:
“Maestro!”.
“Be’, almeno sa con chi parla”, disse Liom.
“Ma abbiamo bisogno di un po’ di carburante”, disse Bruno.
“Di carburante?”,Chiesi.
“Si! Si! Un sacco di carburante! Chiediglielo!”, dissero entrambi.
“Hai portato un po’ di dolce?”, chiesero entrambi a Contessa.
Contessa si avvicinò di corsa con un sacchetto verde: “Eccolo qui, mi disse, dagli un po’ di questa roba”.
Una mano prese forma e si allungò con grande velocità afferrando il sacchetto verde mentre Contessa reprimeva un gridolino. Si formò un’altra mano ed il sacchetto venne aperto. Era difficile per me tenere il Verme con tutto quel movimento.
“Non farmi cadere”, disse Liom.
“E non stringere”, disse Bruno.
“Ehi! Ma questo non è il dolce”, strillò Liom.
“Che cos’è?”, chiese Bruno.
“Sono un sacco di cose”, esclamò Liom..
“Come ché?”, chiese Bruno.
“C’è un pettine, una spazzola, una pallina di lana rossa, un paio di forbici, sette semi di cachi, un biglietto d’autobus ed un mazzetto di forcine per capelli”.
“Ci hanno imbrogliato”.
“Aspetta un attimo, disse Contessa, ho paura che sia il sacchetto sbagliato. Ecco quello con il dolce, Maestro”.
Il Verme lasciò cadere il primo sacchetto ed afferrò l’altro.
“Ah! così va meglio”, disse Bruno.
“Briosce!”, aggiunse Liom.
“E’ l’ora giusta per le briosce questa?”, chiese Bruno.
“Che t’importa! Mangia!, rispose Liom”.
Ed il Verme Maestro si mise a mangiare con tutte e due le bocche. Alla fine sgrullò il sacchetto vuoto.
“Tutto qui?”, disse una delle bocche.
“Allora me ne posso ritornare a dormire”, disse l’altra.
A questo punto Fritz mi punzecchiò le costole. Io sussultai e mi ricordai che dovevo dire qualcosa.
“Oh Maestro, prima di ritirarti, saresti così cortese da aprire la porticina che vedi sul portone?”.
“Il portone!? La porticina!? Dove?”, disse una bocca.
“Lavora!”, comandò perentoria l’altra.
“Okay! Portami alla serratura“ disse il Maestro.
“E tu reggimi forte quando sono vicino al buco della serratura”.
Feci quanto mi aveva chiesto. Il Verme Maestro diventò rosso trasformandosi in una palla, ed entrò. Poi sgusciò fuori dall’altra parte della serratura, si rimpicciolì leggermente e improvvisamente s’irrigidì.
“Ora girami come una chiave”, disse.
“Al rovescio”.
Continuai a fare ciò che mi chiedeva e sentii che la serratura girava, scattava e brontolava. Poi la porticina si spalancò e Liombruno saltò fuori dicendo:
“Sono proprio esausto!”.
“Dove sta il mio fiaschetto?, è ora di andare a dormire”.
“C’è un altro po’ di dolce?”, disse Bruno.
“Si, disse Contessa, ed anche altre serrature da aprire!”.
“Non potevi star zitto?”, disse Liom a Bruno.
Passammo dalla porticina ed entrammo ch’era buio fitto. Fritz si diede immediatamente da fare per accendere delle candele. Ce n’erano di tutti i tipi e
misure, per i diversi tipi di candelabri. Man mano che la luce si faceva spazio rimasi sbalordito da tanta e tale magnificenza come mai avrei immaginato.
Delle enormi colonne di marmo rosa sostenevano un soffitto d’oro a cassettone, stupendi mosaici splendevano sulle pareti e sul pavimento. Sembrava che tutto fosse in perfetto ordine, ben pulito e lucente. Non c’erano ragnatele, non c’era muffa, anzi si sentiva un gradevole odore d’incenso raro e pregiato. In fondo al Tempio c’era una grande pedana circolare circondata da dodici colonne a cui si accedeva salendo alcuni alti gradini. Al centro c’era un tabernacolo con una porta a due ante, bello e di buona fattura, con fregi a bassorilievo, lesene scannellate ed una magnifica cornice attorno ai quattro lati.
Le fiancate erano più larghe alla base, s’assottigliavano leggermente verso l’interno man mano che salivano fino alla cornice da far sembrare il tutto ricavato da uno stilema egizio. Dalle dodici colonne sporgevano altrettanti bracci portanti lampade ad olio che Fritz accese con una torcia man mano che proseguivamo. Poi, improvvisamente, molte altre luci s’accesero in una sola volta e fecero scintillare tutto l'oro ed i mosaici.
Contessa tirò fuori un sacchetto color porpora in cui cerano altri dolci per Passe-partout, mentre noi ci avvicinavamo alle porte del tabernacolo. Queste erano chiuse ed avevano una serratura d’oro incastonata di pietre preziose e dopo aver assolto il compito di sfamare il Verme Maestro, lo mettemmo vicino all’imbocco della serratura.
"Io odio rubini e zaffiri”, disse Passe-partout.
“Specialmente quelli nelle serrature”.
"Ma perché si fanno venire in mente certe cose?, dico io".
“Graffiano!”.
"E gli smeraldi fanno il solletico”.
Nonostante tutte le lamentele, la serratura cedette. Fritz e Contessa aprirono ognuno mezza porta simultaneamente. Io stavo a guardare con in mano il Verme Maestro e quando l’interno si illuminò rimasi estasiato alla vista di tanta opulenza e bellezza. Le pareti erano un mosaico d’oro e di pietre preziose.
Al centro, sopra l’altare, c’era la più bella statua che abbia mai visto: una delicata fanciulla in avorio e oro, colta nell’atto di levarsi in volo, sollevata da uno Zefiro cristallizzato. Le sue trecce d’oro erano mosse dal vento e teneva nella mano destra un ramoscello fatto di tante foglioline bianche di giada che mandavano bagliori iridescenti. Il volto ed il collo, come le braccia, le mani ed i piedi erano in avorio. La veste, i capelli ed il diadema erano d’oro e pietre preziose. Quando entrammo nel tabernacolo, le sue palpebre si sollevarono lentamente e gli occhi di zaffiro ci guardarono meravigliati.
"Questa è Principessa, disse Fritz e Contessa, la Principessa Lavinia". Feci un profondo inchino al suo cospetto e ricevetti in cambio un leggero sorriso d’avorio.
Ai suoi piedi c’era uno scrigno, stupendo esempio dell’ arte antica. Fritz e Contessa mi fecero segno di avvicinare Liombruno allo scrigno ed io lo avvicinai dopo aver individuato il buco della serratura. Con nostra grande sorpresa, Passepartout eseguì il suo compito con bravura senza pronunciare parola. Si sentì uno scatto ed il coperchio dello scrigno si sollevò accompagnato dal tintinnio musicale di “Humoresque” e da un effluvio di essenza di rose.
Contessa sollevò delicatamente il coperchio e ne estrasse un meraviglioso fazzoletto ricamato, bianco avorio con sfumature madreperlacee, che sembravano fluttuare sotto la luce. Poi, lo aprì con cura tenendolo sollevato agli angoli. Era piccolo, ma era un incanto. Aveva un disegno che cambiava continuamente, come per l’effetto di un caleidoscopio. Un momento sembrava di vedere fiocchi di neve cristallina e iridescente con un brillio tremolante, un altro momento sembrava invece di vedere un turbinio di curve barocche.
"Questo è il Santo Fazzolo”. disse Contessa.“E’ per questo che il nostro regno si chiama Fazzoletto”.
“Scusi, diss’ io, è questo il cosiddetto Cencio della Veronica?”.
“No, la storia è tutt’altra, e in verità non ha nulla di così sacro, ma è in qualche modo legato alle nostre origini. Agli antenati del Popolo della Gioia”.
“Ma aspetta un attimino, visto che abbiamo tempo ti voglio raccontare tutto. Vediamo, fu... non ricordo se nel quarantotto o nel quarantanove quando ebbe inizio questa storia”.
“Fu nel millequarantotto o millequarantanove... o forse milleduecentoquarantotto. Comunque... ricordo che era una bella mattinata pieno di sole a la Principessa stava raccogliendo ranuncoli e trifoglio in un campo non lontano da...”.
"Aspettami!", interruppe una voce, al che ci girammo tutti quanti ma non riuscimmo a vedere nessuno.
"Perché guardate in giro? Sono qua”. Era Liombruno che ci parlava stando comodamente adagiato sul palmo della mia mano.
"Scusami, Maestro!", disse Contessa.
"Oh, lascia stare le ciance”.
"Vorrei andare a dormire, non ce la faccio più di sentire questa storia”.
"Ma prima di rimettermi nel fiaschetto vorrei andare fuori un minuto...”.
Fritz inarcò le sopracciglia che sembravano nidi d'uccelli e disse: "Meglio che ti sbrighi a portarlo fuori del tempio. Ti aspetterò qui”.
Portai fuori Liombruno e lui mi chiese: "Per piacere, mettimi giù ai piedi della scala”.
“Voltati. Grazie!”.
Mi voltai ma non potei fare a meno di sentire certi rumorini strani che continuarono per un po’. Quindi con la vocina esile disse: "Ora puoi tornare a girarti!”.
Mi voltai di nuovo e vidi Liombruno con un aspetto pallido e giallognolo.
“Per piacere rimettimi nel fiaschetto ora”.
“Ho proprio un gran sonno”.
Misi il fiaschetto per terra e lui contorcendosi vi si infilò dentro. Dopo un attimo già russava.
“Sogni d'oro!” sussurrai, mentre rimettevo il tappo al fiaschetto. Poi ritornai di corsa al tabernacolo dove Contessa e Fritz mi attendevano ansiosamente. Detti a Fritz il fiaschetto con il verme e rivolgendomi a Contessa dissi:
"Ricordo esattamente dov’era rimasta”.
“Anch’io, giovanotto, replicò, stavo dicendo della Principessa, eravamo in un prato, ed era una mattina di primavera dell'anno 848 dopo Cristo, alle 11:48. . .” Avrei voluto interromperla, ma Fritz mi guardò alzando un dito per farmi capire di tacere.
Contessa continuò: “La fanciulla stava intrecciando ghirlande di fiori di campo quando passò di lì il Conte Malditesta sulla sua cavallina nera. Quando lui scorse la nostra Principessa fu preso da un gran desiderio di possederla”.
“Lei invece fu colpita da un senso di repulsione quando s’accorse che il Conte stava cavalcando nella sua direzione. Ma, prima ancora che lei potesse fare un passo, lui l’afferrò e s’allontanò al galoppo verso il suo maniero, sui monti”.
“All’insaputa del malvagio Conte Malditesta, un’uccellina di nome Perla, grande amica della Principessa Lavinia, aveva assistito all’accaduto, e Ii seguì fino al castello”.
“Perla non aveva idea in quale parte del castello fosse stata rinchiusa la Principessa. Così, prese a volare intorno, finché, ad un certo punto, le sembrò di vedere un segnale. Lavinia infatti, salita su di uno sgabello riuscì a guardare fuori dalla finestrella in alto sulla parete e sventolò il piccolo fazzoletto per far notare la sua presenza, quando Perla si avvicinò alla finestrella”.
“Sono qui, disse la Principessa, prendi questo fazzoletto e portalo a mio padre. Lui capirà che è mio. Appena puoi portami notizie, e stai attenta a non indugiare lungo iI cammino, per nessuna ragione. Si, Altezza, rispose Perla, farò molta attenzione, e se ne volò via ad ali spiegate in direzione del Palazzo Reale”.
“Non aveva fatto ancora molto cammino, quando senti delle grida di aiuto.
Erano grida così insistenti che Perla ne fu straziata, e quando guardò verso il basso vide una scena incredibile. Una povera donna era rimasta impigliata in un ramo di un albero che era cresciuto su di un precipizio, e stava li lì per cadere”.
“La povera donna gridava: Aiuto! Aiutami! Sto per cadere nel precipizio. Perla, non sapendo cosa fare le volò intorno il più vicino possibile, quando la vecchina disse: “Perla, aiutami a districarmi da qui. Sono rimasta impigliata a questo ramo e non so come fare”.
“Perla fu veramente sorpresa di sentirsi chiamare per nome e si dimenticò del fazzoletto. Come fai a sapere il mio nome?, chiese incuriosita. Conosco tua madre”, rispose la donna. Davvero?, disse Perla con la vocina gentile. Certo, certo che la conosco!, disse la vecchia e scoppiò a ridere in modo sgraziato”.
“Certo! Chi è che non conosce Madreperla?, continuando a ridere più forte di prima. Perla ne rimase sconvolta, quando improvvisamente si rese conto di aver lasciato cadere il fazzoletto. Lo vide che svolazzava di qua e di là mentre scendeva verso il fondo del precipizio”.
“Aiutami!, continuava a gridare la vecchia megera, aiutami a districarmi!”.
“Perla prese a beccare senza indugio il lembo della gonna impigliato nel ramo. Ma non appena con l’ultima beccata l’ebbe liberata, la vecchia prese a ridere a più non posso con fare isterico, e sollevò le braccia, che si allungarono a formare delle grandi ali nere in forma di mantello. Il suo naso divenne appuntito e si allungò in un becco bitorzoluto, quindi, tirò fuori una scopa da sotto il mantello e a cavalcioni di essa volò via ridendo con voce rauca: Ah, Ah, Ah, Ah, Ah!”.
“Perla quando si rese conto di essere caduta nel trabocchetto tesole dalla strega rimase inorridita. Ma, intanto, il fazzoletto continuava a scendere lentamente, svolazzava sopra il fiume che scorreva nella gola. Fece un ultimo tentativo, volò in picchiata verso il basso che sembrava un razzo. Stava ormai a pochi centimetri dall’afferrarlo quando un grosso salmone schizzato fuori dall'acqua, ingoiò di colpo il fazzoletto”.
“Ci mancò poco che non ingoiasse anche Perla, I'ha scampò bella, per ... una piuma. Stordita, la poverina si mise a volare in qua e in la a caso, senza sapere dove andare, cosa fare”.
“Oh Fritz!”, disse Contessa presa dalla commozione: Ti prego, racconta tu il resto della storia. Sono troppo commossa”. La Contessa fece un profondo sospiro ed una lagrima le solcò il viso. Poi, si volse verso di me e mi confidò:
“Vedi, sono io la Madreperla, la madre di Perla...”.
Arrivati a quel punto Fritz l’interruppe per dire: “Ed io allora? Parlano sempre tutti della Madreperla, ma nessuno mai accenna a me, al Padreperla...”.
“Sciocchino, non c'è bisogno di dirlo, lo riprese teneramente la Contessa, ora ti prego, continua tu il racconto”.
“Okay!, disse Fritz, vediamo …! Mmmm … allora … C’era un bel giovanotto, uno poverissimo che faceva di tutto per mandare avanti la barca. Si chiamava Lorenzo. Quel giorno stava pescando e pescò proprio il pesce che aveva ingoiato il fazzoletto: un bellissimo salmone che doveva pesare non meno di otto chili”.
“Lorenzo stava facendo ritorno a piedi verso il villaggio quando il Conte Malditesta, che si stava approntando per andare al Palazzo a fare visita al Re, lo scorse con il grosso pesce in spalla. II salmone era ancora bagnato e luccicava al sole”.
“Che splendido regalo sarebbe per il Re, pensò il Conte, e chiamò Lorenzo, offrendosi di comprare il salmone. Lorenzo in verità non aveva in mente di venderlo ma si lasciò convincere dal Conte che lo comprò per un fiorino d'argento. Quindi fece avvolgere il pesce in foglie fresche e mettere in un cesto sul retro della carrozza e si mise in viaggio alla volta del Palazzo Reale”.
“Lorenzo esaminò il fiorino prima di metterselo in tasca, poi riprese il cammino verso la sua casa alla periferia del villaggio. Non era andato molto lontano quando Perla, avvicinatasi, gli si posò sulla sua spalla”.
“Salve, Lorenzo, disse l’uccellina”.
“Salve, Perla! Che bella sorpresa vederti de queste parti. Qual buon vento ti porta?”.
“E’ a causa della Principessa Lavinia!, è prigioniera nel castello del Conte Malditesta, esclamò Perla”.
“Il Conte Malditesta! perbacco, gli ho appena venduto il salmone che ho pescato oggi. Me l‘ha pagato un fiorino d’argento. E Lorenzo mostrò la moneta a Perla”.
“Quello è il salmone di cui voglio sapere, disse Perla agitata. “Ero li quando l’hai pescato. Che cosa ne ha fatto il Conte del pesce?”.
“Credo lo stia portando in regalo al Re”.
“Perfetto!, replicò Perla, e spiegò frettolosamente a Lorenzo del fazzoletto e di tutto ciò che era accaduto aggiungendo: Caro Lorenzo, tu mi devi aiutare a salvare Lavinia”.
“Farò tutto quello che posso, disse il giovanotto. Ma in che modo?”.
“Ah! sospirò l’uccellina, questa è una domanda difficile. So che è rinchiusa nella torre più alta. Io posso volare inosservata fino alla sua finestrella, ma tu come puoi fare ad entrare nel castello?”.
“Lorenzo rimuginò per un istante sul problema, poi disse:: la torre alta affaccia sul dirupo. Ho un’idea. Se tu puoi volare fino alla finestrella con un rocchetto di filo, poi io faccio il resto non appena si fa buio”.
“ll filo lo posso portare, disse Perla, ma a che serve?”.
“Ascolta bene ciò che ti dico. Di alla Principessa di tenere ben saldo il capo del filo e di far cadere il rocchetto dalla finestrella non appena fa buio. lo starò ad aspettare nella caverna che c’è ai piedi del dirupo. Poi, quando lei sentirà tre piccoli strattoni dille che dovrà tirare su il filo al quale, nel frattempo, avrò legato uno spago, e quindi una corda più spessa che dovrà legare bene a qualcosa di solido all'interno. Fatto ciò, dovrà ripetere il segnale con altrettante tiratine. Al resto penserò io”.
“Va bene!, disse Perla, penso che il tuo piano funzionerà. Porterò subito il filo a Sua Altezza e volerò immediatamente a Palazzo a spiegare tutto al Re”.
“Lorenzo acconsentì e l’uccellina volò via”.
“Quindi Lorenzo andò a preparare il necessario per il suo piano. Portò il tutto alla caverna alla base del dirupo ed attese il calare della notte. Lentamente il sole tramontò e ben presto fece buio”.
“Non era passato molto che egli sentì un picchiettio sulla parete sovrastante l'ingresso della caverna e in un attimo trovò il rocchetto. Non appena ebbe legato lo spago al filo, fece il segnale con le tre tiratine e lentamente il filo cominciò a salire, sù verso la finestrella”.
A questo punto Fritz si fermò a riprendere fiato, poi continuò.
“Nel frattempo a Palazzo, nel salone dei ricevimenti, era iniziato il pranzo. Il Re era seduto al centro della lunga tavola alla quale stavano seduti molti ospiti, quando due camerieri entrarono portando su un enorme vassoio d’argento il salmone arrostito e lo posero davanti al Re. Rimasero tutti estasiati alla vista di tale pesce meraviglioso. Il Re in persona lo tagliò al centro e guarda un po’...con sua grande sorpresa, tirò fuori il fazzoletto di sua figlia Lavinia, splendido e pulito”.
“Cosa c’è qui?, chiese il Re sorpreso. In quel momento Perla volò nel salone da pranzo e si posò sul tavolo davanti al Re”.
“Maestà... !, disse, ma fu subito interrotta del Re”.
“Prima un pesce con un fazzoletto e poi un uccellino parlante! Perbacco! Che cosa sta succedendo qui? Che significa?”.
“Significa, riprese Perla con voce alta e chiara, che tua figlia è prigioniera di quell’uomo!. E con I'ala indicò il Conte Malditesta”.
“II Re si levò all’impiedi, e così fece anche iI Conte Malditesta che prese a guardarsi attorno furtivo. A quel punto anche il resto della corte si alzò in piedi”.
“Tutti seduti!, disse il Re, eccetto il Conte Malditesta, e sentiamo tutta questa storia”.
Il Conte Malditesta assunse un atteggiamento offeso: “Queste accuse infondate non dovrebbero essere tollerate. Maestà, propongo di acciuffare quell’uccellino intrigante e... “.
“E che altro?, urlò il Re e senza attendere risposta aggiunse: Se viene molestata una sola piuma di questa uccellina, te la farò pagare cara, te lo assicuro! Inoltre dimostrami che l’accusa è infondata”.
“Quindi, facendo oscillare il fazzoletto aggiunse: Ritengo quest’oggetto una prova conclusiva bella e buona. Poi si girò bruscamente verso Perla e con voce bassa ma udibile disse: Ora Perla raccontaci quello che sai”.
“Perla prese a raccontare quello che era accaduto. Quando giunse alla parte riguardante la strega, iI Re la interruppe e chiese a Perla se fosse stata in grado di identificare la strega se I’avesse rivista”.“Penso di si, disse Perla, anche se lei non faceva che cambiare. . .”.
“Potresti dire se è una di queste signore a tavola?”.
“Certo che potrei ... potrei fare una volatina per dare uno sguardo intorno”.
“Si!, acconsentì il Re, fatti un giretto”.
“Perla volò da una dama all'altra ed improvvisamente si fermò davanti ad una donna bellissima dai capelli neri, elegantissima in un abito di velluto con addosso monili d’oro e gioielli seduta accanto al Conte”.
“E’ lei!, disse Perla senza esitare”.
“Perdinci, è Morgana Falafella!, esclamò il Re”.
“La Maga sentendosi accusare si alzò in piedi dignitosamente”.
“Un mormorio serpeggiò tra la Corte e Morgana Falafella si rivolse a Perla con voce bassa e vellutata: Cosa ti fa supporre che sia io?”.
“Al che Perla ribatté: Quel profumo volgare, imitazione di violetta, che porti ti accusa in modo inconfondibile”.
“La dama non fu la sola a manifestare la propria sorpresa, l’intera Corte rimase di stucco, mentre il Re scoppiò in una risata fragorosa: Diglielo, Perla, gridò, e glielo dirò anch’io!”.
“La dama smise bruscamente di ridere”.
“Quindi il Re, chiamò il Conte Malditesta e Morgana Falafella di presentarsi al suo cospetto. State bene a sentire ciò che dovete fare. Ora farete ritorno al Castello e libererete mia figlia. La Principessa Lavinia verrà subito ricondotta a Palazzo scortata dalle mie guardie. E fate attenzione, se le verrà torto un solo capello sarete entrambi decapitati”.
“Ma perché anch’io Maestà?, domandò Morgana Falafella”.
“Perché ora ho la prova della parte che tu hai avuta con il Conte Malditesta, si degnò di rispondere il Re. Ero già a conoscenza della vostra opera di magia”.
“Al pronunciare quella parola Falafella afferrò l’amuleto che le pendeva dalla catena d’oro che portava al collo e Malditesta subitaneo ne estrasse un altro che si rivelò copia medesima del primo”.
“Mettete giù le mani tutti e due!, ordinò il Re con severità, e mentre loro obbedivano aggiunse: Non potevate sapere che il fazzoletto sarebbe stato portato a me da un salmone, vero Malditesta? Dimmi un po’ dove hai preso quel pesce?”.
“L’ho preso in mare, Maestà, disse lui niente affatto intimidito”.
“Sta mentendo!, interferì Perla”.
“Si, me lo immagino, disse il Re, Perla tu lo sai chi lo ha pescato?”.
“Certo che lo sò, rispose l’uccellina, è stato Lorenzo, un giovanotto bello e onesto che vive nel villaggio. Ma che è anche molto povero”.
“E tu come fai a saperlo?, le chiese il Re.
“Ho seguito il salmone per via del fazzoletto che aveva ingoiato. Ed è così che ho visto Lorenzo che lo pescava nel fiume, ma quando riuscii a raggiungerlo, lui l’aveva già venduto al Conte per un fiorino d’argento”.
“Un fiorino d’argento per un regalo da offrire al Re!”.
“Falafella e Malditesta si scambiarono uno sguardo d’intesa ed afferrarono di nuovo gli amuleti”.
“Vi ho detto di tenere giù le mani, gridò il Re con voce tonante e gli strappò le catene d’oro con gli amuleti magici, li gettò nel caminetto dicendo: Il fuoco purifica tutto! Non è vero?”
“Il Conte Malditesta si portò una mano alla gola impallidì e barcollò trascinandosi fin nel mezzo del salone. Tuttavia egli sapeva di non avere via di scampo, poiché le guardie che stavano su ambo i lati di tutte le porte gli bloccavano ogni possibilità di fuga. La pelle di Falafella cominciò ad aggrinzire e perse tutto il suo splendore”.
“Voi due non avrete più potere per mettere in atto le vostre cattiverie!, disse il Re consapevole che il suo gesto avrebbe attenuato il loro potere
magico. Sia il Re che il resto della Corte rimasero stupiti nel vedere il Conte Malditesta e Morgana Falafella afflosciarsi sul pavimento e prendere fuoco divenendo cenere in men che non si dica”.
“In quello stesso istante si sentì un tuono in lontananza che andò via via aumentando di potenza fino ad esplodere in un gran fragore. Come di una montagna che si andava sgretolando, li, davanti agli occhi di tutti. In realtà, perso il sostegno della magia, il Castello dov’era prigioniera la principessa, andava frantumandosi in polvere”.
Fritz rimase un attimo in silenzio poi si schiarì la gola. Nel frattempo Contessa ripiegò il bellissimo fazzoletto e delicatamente lo mise nello scrigno, senza chiudere il coperchio. Dopo di che Fritz riprese il racconto.
“C’era Lavinia nella torre, e Lorenzo stava nella caverna. Lavinia aveva appena tirato su lo spago e Lorenzo stava per legare la corda all'altro capo dello spago. Aveva ancora la corda arrotolata in spalla quando il Castello incominciò a tremare”.
“Improvvisamente l’ingresso della caverna rimase bloccato dai pezzi di roccia che cadevano e Lorenzo fu scaraventato in terra mentre il terreno si gonfiava e tremava per le scosse e le schegge di roccia appuntite che ricadevano come lance tutt’intorno”.
“La Principessa Lavinia su nella torre era atterrita dal fracasso provocato dallo sgretolamento del castello. Tutto d'un tratto il soffitto della sua stanza volò via e le pareti si squarciarono. Si sentì svenire dallo spavento ed avrebbe potuto sbattere contro qualcosa se non fosse andato in pezzi anche il pavimento sotto ai suoi piedi”.
“Fu invece raccolta dalle correnti d’aria mandate da Zefiro, che la protessero e che la trascinarono delicatamente su un giaciglio di muschio vellutato, sul quale infine si addormentò. Sognò di camminare nel mezzo di una foresta sul far dell’alba, quando, vide brillare la luce tremula dei primi raggi del sole che facevano capolino tra i rami degli alberi”.
“Quindi giunse in una piccola valle, dove c’erano dodici grandi alberi che formavano un cerchio quasi uniforme, al centro del quale c’era un piccolo albero tutto bianco come la neve”.
“Salve, Lavinia, disse sorridendo il piccolo albero, la cui voce era accompagnata da un coro di voci dolcissime che parlavano all’unisono”.
“Salve!, rispose educatamente la Principessa, temo di non conoscere il tuo nome”.
“Non hai nulla de temere, chiamami semplicemente Blanche Dubois, e fece quindi tremolare tutte le sue foglie insieme”.
“Ti chiami Blanche Dubois?, chiese Lavinia sorpresa”.
“Be’, veramente no, rispose, ma se proprio lo vuoi sapere, il mio vero nome è Silvia Orofita. Però tutti i miei amici mi chiamano Blanche, per via del biancore”.
“Oh!, esclamò Lavinia, ed aggiunse: Non ho mai parlato con un albero prima d’ora”.
“Be’, come in tutte le cose, c’è sempre una prima volta”.
“Forse dovresti esprimere un desiderio, disse Blanche”.
“Lavinia pensò che quello fosse un accadimento eccezionale”.
“Ma non mi dire il tuo desiderio, altrimenti non si avvera. Sdraiati alla mia ombra e riposati fino a che non si avvera”.
“Lavinia pensò che fosse un suggerimento eccellente e cercò un posticino sull’erba dove sdraiarsi comodamente e pensare il suo desiderio in segreto. Poi, sebbene stesse già dormendo, si addormentò una seconda volta, durante il sogno. Fu così, che addormentatasi mentre già stava dormendo, finì con l’essere colpita da un incantesimo, dal quale non si sarebbe svegliata se non con un bacio d’amore purissimo”.
“Ma lasciamo per un momento la Principessa Lavinia ormai al sicuro!, disse Fritz, e ritorniamo a Lorenzo”.
“Lorenzo giaceva per terra privo di sensi bloccato nella caverna nera, più buia del buio. La terra aveva smesso di tremare e dall’alto non cadeva più nulla, sebbene si sentivano ancora alcuni fragori in lontananza. Guardò senza tuttavia riuscire a vedere niente. Muovendosi faticosamente a tastoni riuscì a mettersi in piedi ed accendere una torcia che aveva con se”.
“Quando si rese conto che non sarebbe potuto uscire da dove era entrato, si avviò verso l’interno della caverna. Un labirinto di cunicoli più o meno alti, con nicchie scavate a ridosso delle pareti. Catacombe?, si chiese. E tremò all’idea di quell’idea”.
“Girò e rigirò più volte senza accorgersi di essersi inoltrato in passaggi che aveva già percorso. Poi, dopo una lunga pausa di silenzio sotterraneo, cominciò a sentire alcuni rumori, come di sassi che cadevano, acqua che sgocciolava dalla volta ed un rigagnolo che sgorgava o scorreva in lontananza. Giunto ad un’ennesima curva, si trovò faccia a faccia con un drago”.
“Altro non era che Samantha, che si presentò a lui come se niente fosse. Il povero Lorenzo si sentì balzare il cuore in gola e naturalmente non riuscì a
pronunciar parola. Perciò fu Samantha a parlare per prima”.
“Mi hai messo paura arrivando così all'improvviso! Chi sei? Che ci fai tu nel mio boudoir? Rispondi!”.
“Dopo aver ingoiato saliva più di una volta, Lorenzo riuscì infine a parlare”.
“Mi chiamo Lorenzo e temo di essermi perduto”.
“Allora, caro ragazzo, non devi più temere. Ora ci sono qua io”.
“E’ proprio quella la ragione della mia paura, replicò Lorenzo”.
“Mmmm, disse Samantha facendo le fusa, non solo sei bello ma anche ardito. Fammi presentare! Mi chiamo Samantha. Adesso raccontami come mai sei qui e perché hai causato tutto quel baccano”.
“Io credo che sia stato un terremoto, disse Lorenzo, ed è per questo che mi sono perso. Mi stavo apprestando a liberare la Principessa Lavinia, ed ora sono molto preoccupato per lei”.
“Salvare la Principessa? Da che cosa? A dire il vero, io penso che la Principessa dovrebbe salvare te, disse Samantha ridacchiando”.
“Non è il caso di scherzare, replicò Lorenzo ed allora raccontò a Samantha tutto quello che sapeva”.
“Hai ragione, disse Samantha, non è proprio il caso di scherzare. Sarà meglio che tu vada subito”.
“Si, ma da che parte si va?”.
“Penso che una via valga l’altra, disse Samantha. Dammi un bacio e ti farò strada io!”.
“Che cosa?, disse Lorenzo al pensiero di dover baciare quel bestione”.
“Che ti succede?, fece indignata Samantha, non ti piace baciare le belle donne?”
“Si! Però?”.
“Allora forza, ragazzo! Samantha piegò la testa civettuola e sorrise, mostrando le gengive rosse ed i denti d'oro. Ti posso confidare una cosa? E senza attendere una risposta confidò a lui ogni cosa. Vedi, una strega mi trasformò in iguana trecento e più anni fa, ma se trovo un bel giovane disposto a baciarmi “spontaneamente” I’incantesimo si romperà, ed io ritornerò ad assumere la mia forma naturale”.
“Quale era?, chiese Lorenzo cortesemente”.
“Quella della più bella ragazza del mondo. Ma Morgana Falafella era gelosa di me e mi colpì con un sortilegio”.
“Mentre Samantha continuava a parlare Lorenzo preso da compassione si chinò in avanti e prima ancora che la baciasse, assistette al suo trasformarsi in forma umana. Però non tornò ad essere la bellissima ragazza che era stata. Bensì, diventò una orrenda vecchia di trecento anni. Lorenzo si ritrasse, per lo spavento”.
“Oh, scusa!, esclamò lei con voce stridula, è passato tanto di quel tempo. Dovevo pur rendermene conto. Chi l’avrebbe immaginato!. Tu però non mi hai baciata. Vero? Pur tuttavia l’incanto dev’essersi in qualche modo rotto. Ciò vuol dire che Morgana Falafella non è più. Chissà?”.
“Oh!, come sono vecchia! Guarda le mie mani, sembrano artigli. E pensare che una volta erano così morbide, così belle. Invece ora mi fanno male, mi fa tutto male. Forse sarebbe stato meglio se fossi rimasta un’iguana. Lorenzo, ma tu, potresti darmelo lo stesso un bacio, se ne sei ancora intenzionato. Chissà che mi faccia un effetto migliore. Qualsiasi cosa sarà meglio di questa”.
“Volentieri!, disse Lorenzo e piantò un bacio sulle labbra di Samantha, che immediatamente ritornò ad assumere le sembianze di iguana. Comprendimi, a questa vita mi ci sono abituata e la preferisco, disse, e tirò un sospirò di sollievo. Grazie! Lorenzo”.
“Non c'è di che. Ma adesso dovrei proprio andare, altrimenti..... e si diresse verso un antro buio alla sua destra. Ciao Lorenzo!”.
“Ciao, Samantha!”.
“Lorenzo continuò il suo percorso tortuoso, talvolta salendo, talaltra scendendo, attraverso cunicoli e caverne, vagando da una parte all'altra senza trovare un’uscita. Pensò che fosse passata la notte e che se il sole fosse ormai tornato a splendere, e che egli, non avrebbe ormai potuto approntare il suo piano. Egli come poteva saperlo?”.
“In quel tetro luogo ov’egli si trovava regnava il buio e la sua torcia che aveva preso a tremolare infine si spense. Per un po’ restò immobile nel buio più completo come paralizzato, quando improvvisamente sentì un soffio d’aria sul viso che gli portava il profumo della foresta. Sentì la fragranza dei pini e l’odore della terra umida. Muovendosi alla cieca si diresse in direzione di quel lieve soffio”.
“Di quando in quando la direzione dell’aria sembrava spostarsi egli si fermò più volte per individuarla, seguendo il profumo che pian piano si faceva più forte”.
“Vide allora una fioca luce in lontananza, e ciò gli infuse il coraggio necessario per proseguire. E mentre la luce aumentava ad ogni suo passo il soffitto del cunicolo si abbassava sempre più. Ad un certo punto dovette proseguire carponi e strisciare sulla nuda terra, poiché il passaggio era divenuto arduo per il suo essere in salita e con molte curve”.
“Diventò difficilissimo quando la salita si fece più ripida. Stava proprio per darsi per vinto quando dopo un ultimo estremo tentativo si ritrovò in una caverna aperta verso il cielo, che rimase quasi accecato dalla luce”.
“Lorenzo rimase estasiato nel vedere sotto di se l’immensa foresta che si estendeva per tutta la valle. Ciò infuse in lui nuova forza ed egli aspirò a pieni polmoni quell’aria fresca, profumata e pura”.
“Con uno sforzo supremo riuscì ad issarsi sul bordo dell'apertura che risultò precaria poiché per scendere avrebbe dovuto affrontare il fianco levigato della roccia, senza sporgenze e appigli di alcun genere. Presa la corda che portava intorno alla spalla riuscì infine a calarsi lungo il dirupo e giunse incolume sul suolo sottostante”.
“Nella foresta vi erano alberi enormi e la vegetazione era così densa che era impossibile farsi un varco. Oltre a ciò Lorenzo non aveva la minima idea di dove si trovasse e che direzione dovesse prendere”.
“Pensò a Lavinia pensando che fosse ancora imprigionata nella torre. Non poteva sapere che il castello fosse ormai scomparso e premeditò un piano per tornare a scalarlo. Si arrampicò sull’albero più vicino ed esplorò la zona circostante. Dall’alto dell’albero vide ciò che sembrava un sentiero coperto dalla vegetazione a meno di un centinaio di metri alla sua destra. Ci arrivò con grande difficoltà, lacero e stanco”.
“Il sentiero, così com’era, sembrava non essere stato usato per molto tempo e gli fu facile immaginare che in breve sarebbe divenuto impraticabile”.
“Non sapendo da che parte andare prese per il sentiero fino a che, ad un certo punto, si aprirono davanti a lui molti altri passaggi. Preso d’impulso prese verso destra a passo lento, avanzò per circa mezz’ora, poi si fermò ritrovandosi ancora una volta di fronte ad una parete di roccia. Lorenzo la esaminò pensando che il sentiero avesse una qualche ragione di condurre proprio lì, ma non riuscì a trovare alcuna apertura”.
“Che vi fosse un passaggio segreto?,si chiese”.
“Non c’era altro da fare che tornare indietro e presto si ritrovò al punto di partenza. Prese l’altra direzione alla sua sinistra e camminò per circa un’ora. Ad un certo punto trovò lungo il sentiero i resti di un’antica pavimentazione romana, quasi nascosta dall’erba alta. In un altro punto vide una colonna spezzata, coperta da piante di more, una vera manna in quel momento, con la fame che si ritrovava”.
“Mangiò e si riposò per qualche istante. Poi, riprese il sentiero, che si snodava per un lungo tratto e si faceva più stretto. Questo era chiuso in alto da un pergolato di foglie da cui filtrava una luce iridescente. Solo di tanto in tanto un raggio di luce penetrava obliquamente dalla vegetazione illuminando qua o la un ciuffo d’erba o un fiore”.
“Lorenzo aveva sentore della vicinanza della fauna che viveva nella foresta, dai diversi suoni che ogni animale emetteva: riconobbe il canto di alcuni tipi di uccelli, ascoltò il fruscio causato dalle lucertole, dai porcospini, il gracchiare dei rospi, il verso degli scoiattoli. Ad un certo punto si trovò davanti un serpente che lo fece sobbalzare, ma che poi strisciò via rapidamente al suo avvicinarsi”.
“Il giorno era ormai giunto alla fine e la luce pian piano fu attenuata dal tetto delle foglie. Lorenzo continuò per il sentiero senza sapere dove l’avrebbe portato. Tuttavia non poteva fermarsi dov’era, ne sapeva dov’altro poter andare?”.
“Affrettò il passo e man mano che avanzava il brillio di quella luce verde in lontananza diffuse bagliori di un insolito splendore, quasi irreale”.
“Lorenzo trattenne il fiato ed il cuore gli cominciò a battere in petto e sentì anche una musica fiabesca quando giunse in un’ampia radura. Sembrava che la musica provenisse dagli alberi, un concerto di mille violini, di un grandissimo organo e di una nuvola di campanelli d’argento che si alzavano verso il cielo”.
“Luci misteriose e madreperlacee si diffondevano da un piccolo albero bianco che cresceva al centro di un cerchio di dodici alberi più grandi che gli stavano intorno. Quasi volessero proteggerlo”.
“Lorenzo entrò nel cerchio quasi in trance, la musica si era affievolita ad un semplice sottofondo di suoni quando dall’albero uscì una voce che gli parlò”.
“Che tu sia il benvenuto, Conte Lorenzo. Ti stavo aspettando già da un po’”.
“Lorenzo non credette alle sue orecchie. Conte Lorenzo?, chiese stupito.
“Mi chiamo Lorenzo ma non sono Conte. Sono solo un garzone di villaggio”.
“Questo è quello che ti hanno fatto credere, replicò I'albero, ma di fatto tu sei proprio un Conte. Dopo la tua nascita hanno messo un altro bambino al tuo posto. Morgana Falafella, che era la levatrice, mise suo figlio al tuo posto e ti lasciò poi davanti alla porta della chiesa, dove ti ritrovarono”.
“Naturalmente suo figlio era più grande di te, ma Falafella, molto esperta nell'arte della magia, fece in modo di far sembrare suo figlio un infante per poter attuare la sostituzione. Tutti e due i tuoi genitori morirono misteriosamente quando erano ancora nel fiore degli anni, e Malditesta ottenne così il titolo di Conte che spettava a te di diritto”.
“Non posso crederlo!, disse Lorenzo ch’era rimasto senza fiato. Quando un albero albino ti parla con dodici voci devi credergli, gli devi credere. Ma ora non perdere altro tempo, vai a svegliare la Principessa”.
“La Principessa? La Principessa Lavinia? Dove si trova?”.
“Laggiù, disse Blanche indicando un punto nascosto fra gli alberi”.
“Lorenzo andò dall'altra parte del cerchio e vide la Principessa Lavinia addormentata su un giaciglio d’erba. Aveva un’aria tranquilla, anche se un po’ pallida in volto. Sembrava una statua d’avorio e Lorenzo la trovò tanto bella, la creatura più bella che avesse mai visto”.
“Non stare li impalato! Svegliala disse Blanche con le sue dodici voci in coro e Lorenzo con voce esitante la chiamò:
“Principessa! E’ ora di alzarsi!, ma Lavinia non si mosse. Non batté ciglio”.
“Non così, caro ragazzo, non così, disse Blanche”.
“E allora come?, la implorò Lorenzo”.
“C’è un solo modo per svegliare una principessa addormentata, ed è baciandola dolcemente sulla bocca”.
“Oh! Veramente?”.
“Si , veramente!”.
“Lorenzo appoggiò un ginocchio sulla nuda terra e si chinò sulla Principessa addormentata. Ammirò il suo volto pallido e sereno, la linea perfetta delle sue palpebre socchiuse, le sue labbra fiorenti e gentili, accostò lentamente le sue labbra a quelle di lei”.
“Le dolci labbra della fanciulla si schiusero al soave bacio di Lorenzo e gli occhi di lei si aprirono d’incanto. E quando egli vide gli occhi di zaffiro della principessa fu percorso da un dolce effluvio e se innamorò perdutamente”.
“Anche Lavinia guardò teneramente Lorenzo negli occhi. Quegli occhi scuri e sinceri che in un attimo le rubarono l’anima. Allora lei accarezzò il dolce volto di lui. Le sue dita sfiorarono le labbra che l’avevano restituita alla vita e lui le baciò ripetutamente”.
“Andiamo, ragazzi! Niente indugi. E’ ora di andare, avete un lungo cammino da fare, dissero le voci melliflue di Blanche, e Lorenzo aiutò Lavinia ad alzarsi”.
“Ora, miei cari, state bene a sentire ciò che ho da dirvi: se vorrete essere felici, la vostra vita dovrà essere senza pregiudizi e senza invidia, dove il ridicolo non sarà mai ridicolo, dove I’agnello s’affida al leone, dove anche il gatto può diventare Re, ed il Re può anche essere una Regina, dove saggezza e buonumore si daranno la mano e danzeranno insieme la gavotta. Sarà questo il regno della fantasia, in cui la libertà non sarà mai un’utopia”.
“Lorenzo a Lavinia si guardarono negli occhi stupiti, e guardarono Blanche increduli. Questo cerchio magico sarà il cuore del vostro paese, dissero le voci. Qui costruirete un Tempio e lo dedicherete all'importanza del ridicolo e dell'assurdo. Ed ora andate dal Re tuo padre che molto soffre perché non sa che tu sei ancora in vita. Egli ti crede defunta sotto le macerie del castello crollato”.
“Lavinia prese il braccio di Lorenzo mentre Blanche disse: Spezzate questo mio ramo!, e porse uno dei suoi bei rami bianchi”.
“Sia Lavinia che Lorenzo indietreggiarono inorriditi all’idea”.
“Non siate troppo delicati!, li ammonì, fate ciò che vi dico. Lorenzo, tu che sei il più forte, spezza tu questo ramo!”.
“Lorenzo si fece avanti ed ubbidì. Spezzare il ramo fu in un certo modo più facile di quel che pensasse e gli sembrò che Blanche non ne risentisse. Le voci presero allora a spiegare con toni armoniosi cos’altro essi dovevano fare: Portate questo rametto con voi, esso vi illuminerà lungo il cammino e vi consiglierà, poiché con esso vi ho fatto dono di una delle mie voci”.
“Sì, disse iI rametto, sono a vostra disposizione!”.
"Ora dovete tornare sul sentiero lungo il quale siete venuti, fino a che raggiungerete la base rocciosa e la, il mio rametto vi mostrerà l’entrata segreta. Avrete bisogno di questo, disse porgendo un fiaschetto a Lorenzo. Questo è Liombruno, il Verme Passe-partout, vi sarà di grande aiuto. Una volta giunti colà, il rametto vi condurrà dritti all’interno del Palazzo Reale. Siate benedetti, miei cari! Vi aspetterò qui fino a quando sarete di ritorno”.
“Lorenzo e Lavinia ringraziarono Blanche per la sua gentilezza e la salutarono. Quindi tenendo in alto il rametto tornarono sul sentiero. Era quasi l'alba quando raggiunsero la roccia ad il rametto parlò con voce singola simile al tintinnio di un campanello”.
“Scansa quel tralcio, copre il buco di una serratura. Ora apri il fiaschetto ed il Verme farà il suo lavoro. Accostalo al buco ed il verme entrerà nella serratura lasciando fuori una parte di sé che funzionerà come pomo e tu lo girerai come fosse una chiave”.
“Lorenzo e Lavinia eseguirono attentamente le istruzioni ricevute, e nella parete rocciosa si aprì un passaggio che dava verso l’ interno della caverna. C’era un bel pavimento lastricato di pietre intarsiate, pannelli a bassorilievo decoravano le pareti ed il soffitto a volta”.
“I due giovani si affrettarono lungo il passaggio, mentre il rametto illuminava loro il cammino: “qui a sinistra!” diceva, oppure “qui a destra!” e “su per questa scala”, “giù per l’altra”, e sembrava che i vari su e giù e le voltate a destra e a sinistra non finissero mai. Poi, dopo una lunga curva in discesa verso sinistra iI rametto li fece fermare all'improvviso”.
“Si fermarono davanti ad un pannello intarsiato ed il rametto indicò loro un punto che sembrava facesse parte d’una scultura: “Spingete sul lato a sinistra”, disse”.
“Il pannello si spostò di lato rivelando una cappella debolmente illuminata dalla luce tremolante di una candela. C’era il Re, solo, con le lacrime agli occhi, inginocchiato davanti ad un piccolo scrigno d’oro, entro il quale stava riponendo il piccolo fazzoletto”.
“Lorenzo diede il rametto a Lavinia, e quando la fanciulla oltrepassò la soglia, la cappella s’illuminò di un bagliore iridescente. II Re alzò gli occhi e vide Lavinia come fosse una visione e per un po’ restò muto per l’emozione”.
“Lavinia! Figlia mia! E’ il tuo spirito che viene a farmi visita per consolarmi in quest’ora di grande dolore?”.
“Oh, padre mio! Mio carissimo padre! Sono io, sono Lavinia! Non sono uno spirito, sono viva! Non mi sono mai sentita più viva. Quindi corsero l’uno verso I'altra e si abbracciarono felici”.
“Figliola mia cara!, sei tu, sei tu!, disse il Re singhiozzando e stringendola a sé”.
“Allora Lavinia gli presentò Lorenzo ed insieme i due giovani gli raccontarono tutto quanto era accaduto. II Re smise di piangere ed aggrottò le ciglia”.
“Quando Lorenzo raccontò quello che gli aveva rivelato l'albero riguardo alla sua vera identità, il Re disse: L’avrei dovuto immaginare. Tu somigli tutto a tuo padre. Non ero mai riuscito a capire come da una coppia bella a buona come erano i tuoi genitori fosse potuto nascere un mostro come Malditesta”.
“Ma Lorenzo raccontò al Re quanto detto da Blanche riguardo il fatto che essi sarebbero stati capostipiti di un regno, il Re cambiò espressione. Scomparve dal suo volto quell'aria accigliata che aveva e fece un bel sorriso di gioia. Quindi, disse: “Vi aiuterò a fondare il vostro regno. Per ora vi do la mia benedizione e vi dono questo scrigno in cui ho riposto il fazzoletto della rivelazione”.
“II fazzoletto che in un certo qual modo ti ha riportato qui. Stavo proprio parlando al fazzoletto mentre lo riponevo e pregavo di poterti riabbracciare almeno una volta, quando sei improvvisamente apparsa. Sono certo che esso possiede un qualche potere magico, poiché grazie ad esso sono accadute tante cose meravigliose”.
“Lavinia protese le mani per ricevere lo scrigno dalle mani del Re: grazie, padre mio!, disse. Questa è la seconda volta che tu mi doni questo fazzoletto. La prima volta mi dicesti che era di mia madre e che mi avrebbe protetto in qualche modo”.
“A quel punto il rametto di Blanche disse qualcosa con la sua vocina di campanello: Si, era il fazzoletto di tua madre ma ciò che tu non sai è che era
stato tessuto per lei da mani magiche nel cerchio magico del tempo. Mani fatate che lo hanno tessuto con i raggi filtrati della luna”.
“Le mani forti e gentili di Zefiro portarono a tua madre il fazzoletto in omaggio alla sua bellezza ed alla sua bontà, quelle stesse mani che ti hanno salvato dal crollo del castello. Lo spirito di tua madre risiede ora nel cerchio magico del tempo insieme a tutti noi e la sua voce è una delle tante che ti parlano attraverso Blanche”.
“Farò anch’io con voi ritorno al cerchio magico!, disse il Re, e vi aiuterò a costruire un tempio ed un tabernacolo d'oro in cui sia conservato questo scrigno con il suo contenuto prezioso, e lo chiameremo il magico cerchio di Fazzoletto”.
Fritz si volse verso di me e disse: “Tutto ciò accadde molto tempo fa, ma il cerchio magico ’è ancora qui, dove ora noi siamo. E per sempre sarà, fintanto che al mondo un vi regnerà la fantasia. Fin quando un sognatore ci sarà”.
In quell'attimo la statua della Principessa si mosse. lo la guardai e non potevo credere ai miei occhi. L’avorio delle sue guance assunse un leggero colorito roseo, la fanciulla cominciò a respirare e si stiracchiò delicatamente. Poi sbatté le palpebre che volta o due e si guardò attorno.
"Salve zio Fritz, salve zia Erminia! Sono proprio contenta di vedervi!". Poi, con molta grazia, discese dal piedistallo ed abbracciò Fritz e la Contessa. Quindi si volsero tutti verso di me e mi sorrise sommessa. A quel punto, Contessa disse: "Ora conosci personalmente la nostra Principessa”. Io ero stupefatto dall’emozione per sapere cosa dire. Riuscii comunque a balbettare:
“M-m-ma pensavo fosse soltanto una statua!”.
La Principessa rise melodiosa nel salutarmi: “Ero solo una statua fino a poco fa, fino a quando Lorenzo non mi ha risvegliata. Ora sono qui perché qualcuno ha raccontata la mia fiaba. Semplicissimo, no?”.
“Oh!” diss’io, cercando di non apparire troppo stupido. In quel momento entrò volando un uccellino. Si posò sulla spalla di Lavinia e le si accostò all'orecchio sussurrandole qualcosa con una bella voce da baritono.
“Salve, amore!”.
“Lorenzo, amore mio!, esclamò la fanciulla, sono così felice di vederti. Sei qui venuto molto velocemente”.
“Ho preso il maestrale”, rispose l’uccellino.
“Lorenzo, ti voglio presentare un nuovo amico...” e si volse verso di me. Stavo per dire qualcosa, salutare, quando l’uccellino balzò sul pavimento a mosaico. Io abbassai gli occhi e vidi l’uccellino trasformarsi in un bel giovanotto, poi fui costretto ad alzare gli occhi perché era diventato improvvisamente più alto di me.
Trasalii quando sorridendo mi strinse la mano, poi bofonchiai qualcosa che doveva corrispondere a: “Piacere...”, e lui rise ancora di più. Infine sorrisi anch’io, e quando mi lasciò la mano, che in realtà mi teneva troppo stretta, ridemmo ancora. Ma credo che nessuno di noi sapesse cosa ci fosse di così buffo da dover ridere.
Ridevamo di noi che ridevamo, e più ridevamo più la situazione sembrava buffa. Con le lagrime agli occhi per il gran ridere Contessa mi prese per mano dicendo: “Ora vieni, andiamo!”, ed insieme uscimmo dal tempio.
Sotto il portico ad attenderci c’era Carino nella sua uniforme splendente. Aveva il casco sul braccio sinistro e sembrava anche più grosso di prima, perlomeno di come me Io ricordavo io. E quando gli fummo vicini ci fece un bel saluto militare.
“Carino?, gli chiese Contessa, cosa ti ha portato qui?”.
“In via ufficiosa, Contessa”, rispose facendo un altro saluto.
“Si, Carino!”, disse Contessa pazientemente. Carino guardò attorno il resto della compagnia facendo un saluto un po’ meno brillante.
“Puoi parlare ugualmente, Carino, lo rassicurò Contessa, siamo tutti in via ufficiosa qui”.
“Benissimo, Contessa, si tratta di Samantha”.
“Oh, Dio mio! Che cosa le è accaduto, Carino?”.
“Be’, è un po' complicato...”, cominciò.
“E’ sempre complicato, osservò Contessa, perché non incominci dal principio?”.
“Sissignora”, disse, e fece un altro saluto. “Tutto è cominciato quando stavo di guardia al giardino. Essendo io vicino al muro, ho visto Samantha ferma davanti al cancello sul lato Est. Cioè stava per uscire sul Largo Argentina, allora io ho corso a più non posso per cercare di fermarla. Ricordo che una volta lei stessa mi ha detto che la presenza di uno di noi, chiunque fosse, sarebbe stata causa di baraonda”.
“Spero che non sia andata fuori!”, disse Contessa cominciando ad essere alquanto agitata.
“No, mia signora, la riassicurò Carino, sono arrivato appena in tempo per impedirglielo, e ora si è rifugiata sotto la galleria che porta al Pantheon. Ho pensato fosse meglio avvisare”.
“Hai fatto proprio bene Carino!”, disse Contessa e lo premiò facendogli una carezza su una mano, quindi si volse verso di noi dicendo: "Se quella stupida iguana comincia a girovagare attorno al Pantheon potrebbe causare un parapiglia!. Sarà meglio che andiamo a vedere cosa sta combinando”.
“Dobbiamo andare... ad ali spiegate”, consiglio Fritz.
“Si, dobbiamo proprio volare”, confermò Contessa e così dicendo arcuò la faccia, si accovacciò e ridiventò un uccello. Anche Fritz diventò un uccello e così pure la Principessa Lavinia e Lorenzo.
Persino Carino si tramutò in un uccellino non più grande degli altri. Lorenzo allargò le ali e mi sfiorò la mano destra, contemporaneamente mi sentii toccare la mano sinistra da un’ala di Carino, e quando guardai le mie mani, m’accorsi di avere anch’io le ali. Ero diventato un uccello e prima di rendermene conto stavo già volando insieme a loro.
Tutto sembrava essere nella normalità. Potevo librarmi in aria a mia volontà, come gli altri ed insieme c’ involammo verso l’aperto cielo. In men che non si dica fummo sui tetti di Roma e riconobbi la cupola del Pantheon con la grossa apertura rotonda al centro verso la quale ci dirigemmo ed infine entrammo con un’incredibile picchiata.
Era la prima volta che facevo il mio ingresso nel Pantheon da quella parte. Volteggiammo nell'interno spazioso e infine scendemmo sul pavimento di marmo. C’era solo un gruppetto di turisti a quell’ora, ma ne stavano entrando altri. Contessa vide Samantha che stava emergendo da dietro la tomba di Raffaello. “Facciamo presto!, disse, prima che la vedano gli altri”. Ovviamente non facemmo in tempo.
Due turiste, una più grassa ed una magra, che parlavano con l’accento degli Stati centro-occidentali, sostavano all’interno, presero a guardarsi intorno. E fu allora, prima che noi potessimo far qualcosa, che Samantha arrivò ondeggiando vicino a loro facendo un'orribile smorfia. “Qual è la parola d’ordine?!“, chiese loro.
La turista magra cacciò un urlo e quella grassa cadde con il sedere per terra. Nella confusione che seguì riuscimmo appena a spingere Samantha dietro alla tomba del grande pittore fiorentino, la coprimmo con le ali fino a che si trasformò anche lei in uccellino. Nessuno fa molto caso agli uccellini e così passammo inosservati.
“Sarà meglio che ce la squagliamo”, suggerì Fritz.
Fu così che riprendemmo il volo ed infilando l’apertura della volta c’involammo verso il cielo lasciando le due turiste a cavarsela da sé. Ci dirigemmo verso Piazza Venezia e ci posammo sulla balaustra di un ben noto balcone. Tutti cominciarono ad inveire contro la povera Samantha che non faceva che scusarsi.
“Davvero, Samantha, disse Contessa, io mi domando proprio che cosa tu abbia al posto del cervello?!”.
“Marzapane!, rispose Samantha cercando di essere convincente, dipinto in modo da sembrare ostriche sul piatto”.
“Dici davvero Samantha?”.
“Davvero!, ve lo assicuro”.
“E’ per questo che mi piace Samantha, disse Carino, ha sempre un atteggiamento positivo!”.
“Allora, se ti piace tanto la dovresti tenere un po’ più d'occhio”, si spicciò a dire Fritz.
“La sorveglierò di più da vicino, lo prometto”.
“Grazie Carino, lo sapevo di poter contare su di te”, disse Samantha sussurrando vezzosa.
“Samantha, sei troppo vecchia per fare la stupidina in quel modo. Non sono ancora riuscita a capire perché mai tu abbia preferito rimanere un’iguana dopo che era stato rotto l’incanto di Falafella. Mi ricordo che eri la più bella ragazza mai vista”, la rimproverò Contessa.
“Si, Erminia, ma quello era più di mille anni fa, e non credo che una vergine di mille anni sia poi così interessante, mentre a confronto, per un’iguana mille anni non sono che un battito di ciglia”.
Lavinia rise.
“Uffa! non le posso proprio soffrire le iguane”, gemette Samantha.
“Lasciate stare la Vecchina, disse Fritz maliziosamente, ha detto una cosa saggia, una volta tanto sono d’accordo con lei, ha preso proprio una decisione giusta. Forse il marzapane è buono come il cervello!”.
Ci mettemmo tutti a ridere finché Lorenzo disse: “Si sta facendo tardi. Io e Lavinia abbiamo alcune cose da fare, perciò vi preghiamo di scusarci...”
“Naturalmente! Naturalmente ...”, dissero gli altri in coro, poi tutti volammo via.
Più tardi ci ritrovammo sulla balaustra della scala di Trinità dei Monti con Fritz che diceva a Carino: “Ragazzo mio, penso sia ora che tu porti Samantha a casa”, facendogli l’occhiolino. Ed anche loro due ben presto se ne andarono.
“E’ ora di andare anche per noi”, disse Contessa.
Fui colto da un senso di tristezza al pensiero di lasciare i miei nuovi amici. Inoltre ero così preso da tutti quegli straordinari avvenimenti, da quegli esseri fantastici, e mi sentii un tantino insicuro. Fu allora che chiesi a Contessa:
“Cosa farò, quando tutti ve ne sarete andati?”.
Improvvisamente mi resi conto che forse tutto ciò non stava veramente accadendo. E che quell’uccellino fossi veramente io. “Ora?, chiesi, siete veramente là, voi?” Io non sono più sicuro di cosa sia sogno e cosa sia realtà.
Contessa mi guardò fisso negli occhi, e inclinando la sua testolina in modo vezzoso, mi disse:
“Il fatto che tu lo stia sognando prova che questa è la realtà!”.
Al che Fritz aggiunse: “Per quel che mi riguarda, io sono realmente qui e sto per andare realmente là. Ciao!”. E se ne volò via.
“Ah, ti devo dive un’ultima cosa, mio caro!, disse Contessa poggiandomi un’ala sulla spalla, se vai laggiù, e indicò un punto poco distante, e t’incammini verso Via del Plebiscito, volta l’angolo, e quando avrai voltato ritornerai a esser te stesso. Là c’è la fermata degli autobus. Prendi il numero 56. Ti porterà dove vorrai. Arrivederci!”.
Arrivederci a tutti voi, miei buoni amici:
Or io la favola l’ho detta ed è finita
drento d’en sogno ‘ndo s’arivorta er monno
e scusate si è stata poca cosa
finita è la commedia de la vita.
Si poi l’avete trovata troppo lunga,
che volete che ve dica?
N’antranno ce farò: abbi pazienza!
E magari cascherò dar sonno
prima che sia finita.
. . .

‹‹Pe’ conto mio la favola ppiù corta
è quella che se chiama gioventù
ché me arivorto e quella nun c’è più
e la ppiù lunga è quella della vita
che tonno tonno la sento ariccontà
da che stò ar monno›› (28)
Disse infine Bacco rubicondo, allegro ancor più assai pel vino ch’avea mandato a fondo.

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