Pubblicato il 13/09/2025 05:24:50
Roma in fabula - Cronaca di città / 3 di Giorgio Mancinelli
VERUM FACTUM
È l’alba, e i primi bagliori di luce stagliano di netto il profilo della città eterna: ‹‹A gruppi e a una ad una, una dietro l’altra affiorano le case, i tetti, le statue, le terrazze aeree e le gallerie. Là, tutta la massa si screzia ed erompe in cime sottili di campanili e di cupole con la capricciosità ricamata delle lanterne; là, la cima ornata della Colonna Antonina. (..) L’aria è così pura e trasparente che la minima lineetta dei lontani edifizi risulta chiara, e tutto pare così vicino, come se potesse afferrarsi con la mano. L’ultimo minuto ornamento architettonico, l’addobbo ricamato d’un cornicione››. Pian piano e dolcemente, Roma t’appare nella pienezza del fascino dormiente dei millenni, come assopita da sempre, nel colore rosso del mattone che cambia al cambiare della luce che s’accende. Indifferente del tempo che passa, e che più l’allontana dai quotidiani affanni. Tollerante o quasi, di tutto ciò che essa non comprende: lo scorrere veloce delle ore, quel volere a tutti i costi distinguersi dall’altre, l’irrequietezza d’una mondanità altrettanto vana. Se non per altro, per starsene da sé, senza rincorrere futili incertezze, con molta indifferenza e un pizzico di crudeltà sovrana. Come colei che sa che infine tutto cambia: “li papi, li governi, le stagioni, la moda spicciola come le canzoni”, mentre lei sa di rimanere eterna. La vita vera in fondo è tutta qua, nel quadro appeso alla parete che riproduce l’alba chiara d’una realtà felice, in cui Roma v’è rappresentata come una città moderna ma pur ch’è sempre antica. L’unicità, dice il poeta, sta in quel suo “umore”, che aiuta a non prendere sul serio certe cose: la guerra, la fame, la penitenza, la religione, la politica o la pubblica opinione. E che incoraggia, infervora, rassicura: “vedrai che poi tutto se sistema!”. Ma poiché anche qui nulla accade che Iddio non voglia, ci si abbandona al caso, e con un occhio al serio, l’altro al faceto, ci si aspetta sempre una qualcosa da chi se sta dentro San Pietro: “che null’abbia a cambià de quer che Iddio à fatto eterno! ”. E tanto è smisurata la credenza nella sorte, che non ci si piglia pena neppure della morte. Certo la gente che va in chiesa “a battesse er petto durante la funzione, nun va pe’ la solita questione d’ariccomannasse l’anima ar Signore, ma va perché jè capitata la disgrazia de trovà da lavorà e prega Iddio de nun potecce ‘annà. O perché je serveno du’ sordi ‘na saccoccia, e allora è pronto a fa qualunque cosa: tranne che faticà. Mo diteme voi che li romani nun se sanno accontentà, che er poco da sempre jè sembrato assai”. Ecco che un primo scampanio chiama alla Messa mattutina, risponde un concerto di campane: Santa Maria sopra Minerva, Sant’Andrea, l’Ara Coeli, e poi tutte le altre, come in un coro. Al richiamo si risveglia la città, aprono i battenti le edicole dei giornali e i numerosi Bar per la consueta colazione col “cappuccino” ed un “cornetto caldo” senza rima, e qua e là si sparge intanto “‘na notizia ch’era, se po’ dì, der giorno prima”. Si svegliano i netturbini al gran lavoro che li aspetta, “che a Roma ce se sà,ce sò montagne de monnezza”. Poi, gli impiegati, i contabili, gli avvocati, le madri che accompagnano a scuola i regazzini; e via via i celerini, i magnaccia e le puttane. E quando il sole appare tutto d’oro sopra i Sette Colli, senti un bisbigliar sommesso di tante varietà d’uccelli canterini, lo sciabordio del Tevere sornione, e lo scrosciar sonoro delle fontane: belle come conchiglie che s’incurvano a raccoglier e a distribuir l’acque in ritmi ordinati. Ovunque ci si rigiri ce n’è una, di barocche e di rinascimentali; più piccole e più grandi a ridosso di facciate e di cantoni, di esuberanti e di maestose, che s’impongono entro l’architettonico scenario delle piazze, per le sculture e l’eleganza della composizione. Mascheroni e coppe, naiadi e tritoni, barche e obelischi, animali esotici e cavalli marini, putti e tartarughe, oche e delfini, vasche e cascate, rotonde e ricurve, le cui linee si spezzano fino a far smarrire l’occhio che le insegue. E’ questa una festa che s’inscena davanti agli occhi di chi osa sfidare la bellezza. Così, all’aria aperta, piena di rintocchi di campane, di brusii di foglie o bisbigli e sussurri d’innamorate, ogni giorno sembra diversa e sempre uguale. Dalle fontane quasi fuoriesce una sinfonia, che la bellezza intorno sembrar far ancor più suggestiva, ed offre a sorpresa il prodigio d’uno zampillo, d’una cascata, d’una danza, un armonia di suoni rubati alla natura, la sua voce antica. In virtù della quale ognun si bea e s’abbandona all’irrompere gioioso della vita. Coinvolto nel traffico cittadino, bloccato da una delle consuete “visite ufficiali”, o da un ennesimo corteo di protesta, che sconvolge la Roma capitale, m’accorgo d’aver preso l’abitudine di misurarla a piedi, e la riscopro a tratti, in una fuga di strade del Fontana, fra i ruderi dell’antichità e i moderni edifici, sedi di banche e grandi magazzini. Ecco un palazzo rinascimentale del Buonarroti, un rifacimento barocco del Bernini, uno del Della Porta, un’altro del Maderno, e così via. Una torre, una cupola, una lanterna, un obelisco, una colonna, una scalinata, una costruzione ampia con una balconata, una grande piazza scenografica a firma Valadier, una casina di caccia, un mausoleo, l’Ara Pacis, il Pincio, il Colosseo. E poi la Chiesa del Gesù, Trinità dei Monti, San Luigi de’ Francesi, Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano, ed ancora, San Clemente, Santa Maria in Cosmedin, Santi Apostoli, Santa Prassede, San Lorenzo e San Paolo fuor dalle mura. C’è chi la vive nel quotidiano caos cittadino, nei caffè fumosi, nei mercatini rionali, nelle botteghe buie degli antiquari, nei cortili interni delle case, nelle abitudini pigre dei romani, bonari e faciloni, talvolta un po’ sornioni, come quei gatti che la fanno da padroni fra i ruderi del Foro e all’Argentina, metamorfosi di quei romani più famosi che passavano dalle terme, ai banchetti luculliani, all’orge più sfrenate, ai lazzi da teatro, all’incanto delle serenate. Chi ne trova il tempo, ed i romani sanno essere maestri in questo, la vive all’aria aperta, a passeggio nelle piazze, nelle strade, per i Lungotevere, nei parchi e nei giardini estesi di Villa Borghese, del Pincio, del Gianicolo, di Villa Panphili, oppure sulle terrazze niente male dell’Aventino. La domenica si va al mercato “delli panni stracci” cosiddetto di Porta Portese, dove, fra una carabattola e un libro polveroso, trovi una qualche antichità rifatta, e magari, “‘na Roma de tanto tempo prima incorniciata drento a ‘na cornice in simil’oro”. Qui, in un andirivieni di genti e di costumi, trovi il ragazzino lesto, il vecchio burbero, il contrabbandiere, l’accalappiatrice, l’Ebreo, il Moro, il Marocchino. Mancano da sempre Ghetanaccio e Rugantino, e Gigi er Bullo non la fa più da padrone. Ma intanto s’è fatto mezzogiorno e dal Gianicolo già spara secco il colpo del cannone, “tosto ja risponne er campanone” che in San Pietro del Papa annuncia la benedizione, innanzi che “lui, ancor prima d’affacciasse alla finestra, sente come sta de sale la minestra”. Quand’ècco che la gente si disperde per le strade, si dilegua negli ombrosi portoni delle case e, come per incanto, scompare dentro l’assolata pace. Qua e là, si sente una lavandaia che canta una canzona antica; laggiù un nugolo di monelli schiamazza e fa volar la palla. Il pomeriggio passa così, apparentemente senza una ragione, e solo quando, passata la calura, e il tramonto porta ormai la sera, si scende tutti in piazza. È questa l’ora del cosiddetto “struscio”, della “vasca”, della passeggiata insomma. “Tra ‘na parola e ‘n’antra” gli amici si ritrovano all’osteria davanti a un bicchier di vino, “de quello bono se sà”, l’ambulante canta le canzoni strappacore alla Romolo Balzani, o rifà il verso a Petrolini. Qualcuno parla in versi alla Belli, o di Trilussa recita un sonetto, e c’è chi dice ch’è solo tempo perso. E perso lo è sotto ogni aspetto, poiché è ormai il giorno “s’è arifilato sotto ar tetto” e “quer ch’è stato è stato, nun ce arimane che annasse a mette a letto”. È questa una certa Roma che, come si dice: ‹‹un po’ per celia e un po’ per non morire›› (30), si lascia vivere. Qui il santo s’accompagna al bevitore, il soldato alla puttana, la serva porta in casa il pellegrino, il forastiero s’aggrega al buontempone, che guarda caso “se ritroveno a campà li stessi diritti e a coije li stessi piaceri”, con la differenza che “pur co’ rispetto parlanno de le cose der Signore”, quest’ultimi “nun pagheno le tasse, e nun conoscono religione”. Ognuno infine la ricorda come può: per la parolaccia scappata di bocca al cameriere, per il tassista troppo intraprendente, per aver atteso troppo l’autobus, per la lungaggine dei pubblici ufficiali, perché gli hanno rubato il portafogli, per un tacco perso in mezzo ai sampietrini, per un fiore donato da uno sconosciuto, per un bacio schioccato sotto ad un portone, per una stornellata sentita all’osteria, e un’infinità d’altre cose che fanno parte del “colore” di Roma e della sua gente. E che teatro è questo, che scuola!. Se a dirla coi romani “all’apparenza manca sempre quarche cosa” non c’è da meravigliarsi se al dunque non sembra manchi proprio niente. Si, c’è chi chiacchierando dice ch’è cambiato il “gusto”, chi, che ai romani manca ormai la fantasia, “ch’è solo ‘na questione de parvenza”. Ma prima “de sparlà pensassivo voi pure a come invece fanno tutti quanti, che a Roma pe’ campà abbisogna prima sapè come tirà avanti”. Allora, credete a me, la vita diventa degna di rispetto, e quel proverbio, diremmo ”è ‘na gran cosa”, “che prima ancor che sia la vita, a Roma sà dda vive co’ filosofia”. Infine, eccola qua la Roma di tutti i giorni, sempre quella, come una stella che risplende di lontano, ed è ancora la folla del Belli e del Pinelli che irrompe sulla strada “pe’ vvedella”, che la popola, che la ricolma di schiamazzi: “la possino ammazzalla, quant’è bella! ”. Vuoi che il popolano entri in una basilica, che assista a una girandola sul Castel S. Angelo, o a una predica di un quaresimalista, ai novendiali di un Papa santo, o al grande Giubileo, sembra che ‹‹inzino er diavolo sii stato fatto a stessa immaggine de Ddio›› (31)
“Fior de pisello avessi er petto fatto de’ cristallo quello che ddico, ognun potria vedello” . (32)
“Mo, si ‘pe ‘na raggione qualunque, te trovi presso a n’osteria che stanno a incomincià la passatella, o er gioco della morra, o fora quella der ruzzico o della nizza, stattene a gguardà, e si per caso te chiammeno pe aggiudicà, lascia perde damme retta a mme, m’aveva detto Righetto, nun te mmischià, che dar giocà spesso passeno ar cortello. È un modo come n’antro pe passà er tempo. Dopo tutto, ‹sta cana eternità, ddev’èsse eterna!›› (33)
“Fior de spighetta appicca er voto che la grazzia è fatta chi ferra inchioda, e chi la fa l’aspetta”. (34)
“Fiore d’amore ce so’ tre cose che je voijo bbene mi madre, Roma e ttu Nina der core”. (35)
“Da retta a mme, Righetto lo trovi all’Osteria der Tempo Perso!”, mi disse lo stornellatore accompagnandosi alla chitarra. E Trimalcione?, chiesi io. “In Trattoria , rispose quello, ar Vicolo della Campana, che accojie tutti li forastieri che a Roma vengheno co la diligenza, e poi magnà er mejo timballo de’ maccheroni, o la vignarola coi piselli, le fave e li carciofi. Oppure da Checchino a Monte Testaccio si preferischi la cucina romana popolare, dalle trippe, alla pajata, alla coda a la “vaccinara”. “Ma, si te piace er pesce, da Ciarla a San Cosimato, o in quer posto raffinato ch’è l’Antica Pesa, vanno tutti lì, l’artista, li scrittori, li principi e li re. L’hai da ved’è!”. Era indubbiamente un itinerario “goloso”, fatto d’intingoli e di piatti forti. Un indirizzario che avrei potuto prendere ad esempio quando avessi deciso di scrivere queste mie “impressioni di viaggio”, non so’, sulla cucina tipica romana, o “magari” sui vini dei Castelli. “Oste! è bbono er vino?, chiede Righetto, e quello: e ccome nò!”
“Fiore de pino tu sei rimasto co’ le mosche in mano ognuno tira l’acqua ar su’ mulino”. (36) . . . Soltanto Trimalcione avrebbe saputo imbandire per Encolpio e i suoi amici, un banchetto così spettacolare, ed ognuno di sicuro ne avrebbe “goduto” a più non posso. Ma cercare chi in verità non esisteva, se non che nelle pagine frammentarie d’uno scritto, sarebbe arduo, così penso sia meglio di lasciar andare e Petronius per questo spero non me ne vorrà. Non mi resta che intraprendere il viaggio a ritroso, in quella Roma sommersa e incantata, cercando magari in maniera “virtuale” quel che credo d’aver ormai perso per la strada. Ho intrapreso, senza saperlo, un viaggio in forma di fiaba, in cui il giro delle parole, quella sorta di affabulazione di cui si compone l’immaginazione, riconducono infine il verso alla quotidiana “metafora” della vita, una nuova favola narrata per la strada, davanti a un bicchiere di vino all’osteria, o in occasione d’un qualche Carnevale, passata di mano in mano, ovvero di bocca in bocca, “da quei romani non senza boria” e che riassume i toni della storia.
“Fior de cicoria che sserve affà ttanti castelli in aria? Tutti li sarmi vann’à ffinì ‘n gloria”. (37)
Forse mi sono perso anch’io in quell’appiglio! dico, nel momento in cui la scena si riempie di maschere e di attori, tutti i protagonisti della fiaba che s’era fino allora raccontata: ed ècco la Dama Nera, l’Aristocratico e il Principino, la “verdurara” ed il “galoppino”; ècco il barista e Zev col ragazzino, il libraio, l’ambulante, i santi e i diavoli con l’oste, Ghetanaccio e Rugantino, e Romoletto, e Meo “er becchino”; ed ècco Casanova, Goethe e la Madama. Dei “barberi” orsù ècco la corsa, i “moccoletti” accesi, le passeggiate drento a la carozza. Finanche Trimalcione e Bacco, Trilussa, il grande Belli e Petrolini, Romolo Balzani e Sor Capanna, insomma, tutti coloro che in qualche modo o “vòi pe’ quarch’artra raggione” prendono parte alla rappresentazione. Certo, “ce mancheno li titoli de coda: ma chi pò ave’ curato la scenografia, li costumi, le luci, i testi e le canzoni? Mamma mia! nun ce bbisogna a dillo, è stata Roma”. A un certo punto mi rendo conto in un secondo che manco solo io, e come dicono i romani “ce se sà, quarchiduno in fonno deve pure stà a guardà!”. Capita una sera, all’uscita da teatro, che con Mimmo, un caro amico romano, decidiamo di fare un giro a Piazza Navona, quando, neanche a farlo apposta, incontriamo una moltitudine di gente col naso volto a pe’ l’insù. È davvero una bellissima serata in cui le stelle in cielo possono contarsi una ad una, e la Signora Luna fa mostra di sé, nella beltà della sua forma piena. Per non dir poi delle fontane, che le luci e l’ombre mosse dall’acqua che zampilla, le fanno sembrà ‘na meravija! “Ma che succede?”, chiedo sull’istante. “Passeno le streghe! ”, dice Mimmo. “Le streghe?” “E sì, le streghe, perchè nun l’hai viste mai?” “A dire il vero, non m’è ancora capitato”. “Beh, guarda lassù, sulla faccia della luna e le vedrai!”. “Non può essere!, esclama Mimmo, quando all’improvviso è preso da spavento. “Che c’è, cosa accade?”, gli chiedo, quando vedo che gli si avvicina la “fiorara”. Si, proprio lei, quella del Giardino Paraiso, quella dei racconti. “Ammappate si quanto sei brutta!”, dice Mimmo, e lei, nel sentirsi appellare così, lo prende per la mano e gliela tiene, che Mimmo “poveraccio” dalla gran paura, quasi mi sviene. “Ora se vuoi sentir raccontare la storia, dice quella, devi comprare i fiori dalla nonna!”. “Potrebbe raccontarci delle streghe?”, le chiedo sull’istante. “Niente di meglio del narrarvi, che in questa notte s’andava un tempo tutti quanti a San Giovanni, a veder il bagno delle streghe. Or lì, sulla piazza, c’è ancora una fontana, la cui acqua, assai buona, sgorga da sotto al Battistero, sorto dove un tempo era una fonte detta delle streghe. Queste andavano lì a bagnarsi ed era lì che Belzebù tra schiamazzi e giochi d’acque approfittando di loro le metteva incinte. Ma adesso che son passati più de mill’anni nessuno crede più a queste cose e tutti s’accontentano di veder passar le streghe una ad una sopra la faccia della luna”. Detto fatto, in più d’uno fra gli astanti che guardano all’in sù, dicono a me vicino: “Guarda, lassù, la vedi? Sembra che vola a cavallo d‘un manico di scopa!”. Mimmo, che nel frattempo s’è ripreso dice che non è vero. Fatto è che la “fiorara” che prima con noi stava, “pluff”, all’improvviso “aho!” non c’era più.
“M’hanno detto che le streghe so’ vecchiacce brutte assai. Quanno vanno alla funzione s’accavallano a un bastone e se metteno a volà”. (38)
A un certo punto qualcuno grida: “attenti! arriva la carrozza” e tutti scappano per via. Avreste dovuto vederli quei diavolacci correre a gambe levate e in un istante “fasse stracci” per la paura d’essere travolti. Allorché sentiamo anche noi il rumore delle ruote sul selciato. Ci facciamo da parte in tempo, proprio mentre un turbine di vento spazza la piazza alzando un polverone. “La Dama Nera!”, dico io con gran fervore. “Ovvero la Pinpaccia!, dice un astante, che và rincorrenno un quarche suo segreto amante. Vedi, dice quello a me rivolto, potrebb’esse puro che và diretta a Piazza del Gesù, dove ad aspettalla ce stà Berzebù. Vole la leggenda che un giorno er Vento incontrasse er diavolo in persona sur piazzale antistante de la chiesa e je dicesse: “e ttu che stai affà?, nun te pare che questo nun è er posto tuo? Er diavolo ja rispose: “aspetto ‘na regazza bella ch’è ‘nnata a bbattese er petto ne la chiesa, mo dato che io lo sò che m’è devota, l’acchiappo pe’ li capelli e la fò addiventà brutta assai”. Allora er Vento dice a me: ma no, che fai?, con l’intenzione d’annallo a riferì. Ma er diavolo, che nun è cretino, je disse a quello: hao!, tu aspetteme qui un attimino che ciò da fa una quar cosa urgente, tu capischi, nun me posso ffa vedè dall’antra gente, e fece segno come dovesse da “cambià l’acqua all’olive”. Er Vento allora: fate pure. Fatto è, che lì accanto s’agnede a rintanà. E quello lo sta ancora ad aspettà. È forse pe’ quello che nella Piazza tira sempre n’aria dé corente che s’ariporta via tutta la gente”. . . . Un altro giorno, capita di fermarmi a rimirare il Pantheon, quando passa un vecchio tutto bianco per mano a un ragazzetto, e tanto è la faccia sua a me cordiale che lo saluto con la solita riverenza che ho in rispetto delle persone anziane. E lui che mi sta di rimpetto dice: “Ma noi ci conosciamo!”. Forse che si, forse che no, dico, seppure non ricordassi in quel momento quando l’avessi visto e dove. In fondo che importanza ha dico loquace, al piacere del cuor non si comanda. Chi egli sia in verità non glielo chiedo, non certo per discrezione, più per rispetto, e guardo in viso il giovane che l’accompagna passo dopo passo come un angioletto. Lui, il vecchio, mi chiede se conosco un labirinto in cui s’incanala l’intera città, con case, strade, fiumi e monumenti. Poi mi parla di filosofia, d’arte, poetando più alto delle stelle, e di un progetto con la perizia specifica d’un emerito architetto. Quando a un primo rintocco di campana che annuncia ormai l’Ave Maria, si guarda intorno, e quasi per non crear disturbo, s’appresta a prender da me congedo. “S’è fatto tardi, mi spiace devo andare”, dice. “Arrivederci!, dico io incantato dalla serenità che emana dal suo viso. Quando posso rivederla?” “Non saprei mio buon amico. Forse presto, forse mai. È quanto or posso dirle ma, caso mai, sarà piacere mio venire ad incontrarla”. Quindi s’incammina per la strada insieme all’angioletto. Io l’osservo a lungo, con commozione quando lo vedo allontanarsi lento. Chi è costui mi chiedo, un santo, o meglio un patriarca? Però, che fantasia! Un uomo e un ragazzino che attraversano un labirinto arcano grande quanto Roma dove vive in segreto un popolo sereno! Ripenso a ciò che mi ha appena raccontato, pur ammettendo che un personaggio così non l’ho di certo mai incontrato. O forse si! Che fosse Zev, ma certo! Come non vi ho pensato prima? Mamma mia! Chi non conosce Zev, neppure immagina dell’esistenza fantasmagorica d’un mondo nascosto agli occhi indiscreti della gente, che attraverso vie occulte e sconosciute, screzia l’azzurro cielo di questa millenaria Roma, nell’ora meravigliosa del tramonto. È allora che la città tutta s’infuoca, che ogni colore ch’era spento si riaccende. Adesso come lo rintraccio? Mi chiedo, pronto a rincorrerlo ovunque, ma è troppo tardi. Lui, insieme all’angioletto, sembra esser volato via, entrato in un dipinto, o forse in una antica stampa. “È questa l’ora in cui lo si vede cavalcare uno splendido Unicorno..”, recita la leggenda vera. In sella a uno sparviero colore del bronzo dorato, che passeggia sui tetti e sulle terrazze della case, che risale ora la guglia ornata di un campanile, e saltare da una balaustra all’altra dal Pincio fino a Trinità dei Monti, per poi ridiscendere la grande scalinata e inoltrarsi leggiadro lungo le vie e le piazze della città antica. E poi giù, giù, e su, e su, riprendere a volare fino a perdersi nel magico labirinto di Trastevere, non certo in giorni prestabiliti, come si potrebbe pensare ma, solo in momenti di rara e particolare irrealtà. In vero egli preferisce le sere d’estate, quando la luna dall’ultimo transita versi il primo quarto passando per la completezza della sfera. È questa la Luna di Zev, fusa nell’oro, scolpita nella dura pietra, incisa nel legno, smaltata sulla ceramica, che la dovizia dell’uomo infine ha ricreato senza stancarsi mai con perizia artistica, e che di tanto in tanto attraversa in silenzio il cielo color dell’ametista. Quel cielo stesso che fa da sfondo alla città veggente, che pure cala come una quinta sul palcoscenico per una ennesima rappresentazione della notte. Una notte magica, costellata d’astri e d’un numero infinito d’altre stelle, di segreti sogni, di straordinarie oniriche visioni, di fantasie poetiche, che rispecchiano il suo essere uomo, il suo essere artista, il suo essere filosofo, il suo essere intimamente poeta, una moltitudine e uno solo, tutto ciò che Zev ha voluto significare nella vita. Taluni lo credono un cavaliere errante, vivificatosi da una corniola medievale, tal altri un sognatore, ed altri ancora un santo. C’è chi lo dice un vagabondo, chi un briccone, chi una maschera di Carnevale. Altri ancora, e non pochi, un fantasma dal titolo nobiliare, reso invisibile in virtù d’una cabala, di cui nessuno conosce ormai la chiave. In molti, come me, pensano che egli trovi rifugio in un androne, o nella nicchia d’una cattedrale, chi nella bottega d’un antiquario, chi di un Museo dietro un chiuso portone. In realtà tutti lo sanno, ma come è qui di consueto, nessuno dice di sapere. Chi vuole si nasconda nell’ogiva d’una bifora, chi sotto un’arcata trabeata, chi addirittura sotto la navata principale di San Pietro. Chi dice d’averlo visto nell’atrio d’un palazzo rinascimentale, chi nell’arcata segreta di un chiostro medievale, e chi all’interno d’un giardino di verzura, chi di splendide delizie. C’è chi dice, e dice il vero, d’averlo visto uscire da una reggia sottoterra, nella regale veste di Signore in Gloria, chi nei panni di Bacco, il divino farfallone del Popolo della Gioia. A Roma ognuno convive con la sua intima presenza, e lo addita quando, sul fare della sera, fa la sua apparizione contro un tramonto d’oro, o quando regala, a chi questa città l’ama, l’incredibile fuggevole visione d’una qualche meraviglia. O, si. È qui che da sempre l’aspetto, nelle lunghe e infinite sere dell’estate, nell’emaciate ore della notte, e non invano. So di certo d’aver con lui una sorta d’appuntamento, fissato in un altro tempo, da chissà chi, da chissà quanto. E Zev è qui da sempre, anche se non si mostra, anche se forse non lo vedo, quando affacciato alla terrazza m’affretto a risalir le scale che ad egli mi conducono: una prima rampa, una seconda un po’ più stretta, un archetto, una colonna intarsiata, una vetrata, lo spazio di un interno che si spalanca su un giardino in cui si affacciavano numerose altre finestre, altri giardini, e fuori e dentro e tutt’intorno, tavole sedie e cornucopie, arredi e cassapanche, statue e bronzi antichi, marionette e maschere appese in ogni dove. Ci sono inoltre pentole di coccio e altre di rame, vasi e piastrelle colorate, uova di struzzo dipinte e penne di pavone, e dappertutto spighe di grano e rosmarini; e poi vasi con fiori, fiori sui vasi, fiori essiccati e fiori vivi, e trompe-l’oeil, in cui ogni cosa dipinta si mescola con la naturale bellezza del creato, come a voler dar vita a un mondo d’astrazione, in cui il sogno gioca a rincorrere quanto c’è di reale, e viceversa, il reale appare qui al pari d’una incredibile illusione. La terrazza aperta s’affaccia sulla Roma sempiterna, i sette colli, i monumenti antichi, lo sfrangersi dei vecchi tetti delle case, le costruzioni nuove. S’ode lo scroscio delle molte fontane, dello zampillo la ricaduta, quasi si siano date tutte appuntamento qui, sulla terrazza, in cima alla fioriera. E poi, il suono cupo, improvviso della campana che annuncia l’Ave Maria. Zev, come al solito, dev’essere andato via, dico tra me, volato attraverso il soffitto che non c’era, impavido sopra il suo unicorno, verso un’altra sconosciuta meta. A distanza di tempo lo rivedo ancora, nel giardino dell’Antica Pesa, fra i tavoli apparecchiati, le candele accese, i fiori nei vasi, seduto a un tavolino in mezzo all’altra gente. Ma quando mi alzo per porgergli un saluto, strano a dirsi, Zev non c’è. Allora chiedo: ma era qui, ne sono certo. Ma neppure il ristoratore mi sa dire perché. “Un buontempone, dice, capitato qui per caso. Altro non so dirle, però quando se n’è andato m’ha lasciato qui una tela. È quella li!”, dice, e me la indica facendo un ampio gesto con la mano. Appesa alla parete, c’e una Roma in tondo in cui si rispecchia tutta la natura intorno. Intrise nei colori vedo le cupole e i fiori di un giardino sopra una terrazza, le guglie sotto alle lanterne, le statue sopra le colonne e i capitelli corinzi. Una ninfa che gioca con l’acqua e un fauno voglioso che “l’ariguarda”. Le ombre della sera che scendono su un tramonto rosso come il fuoco che “se tigne d’oro”. Ma è sicuro, gli chiedo, che non ricorda altro? Si, dice, a ripensarci l’ho rivisto ancora, qualche tempo fa, ma non so dirle quando. Un anno, o forse due. Mi sembra, ma non son sicuro, che frequentasse una Hostaria in Piazza San Giovanni della Malva, di cui or però non ricordo il nome”. Era pur quella un’ indicazione. Ed è lì che infine lo ritrovo, si fa per dire. Zev c’era e non c’era, dipende “ se, sà, da come uno l’intende”, dalla diversità che ognuno fa del veder qualcuno di persona, oppure di vederlo “veramente” nella sua essenza arcana. Dipinta sopra le pareti vedo svolgersi, come in un sogno, nel mezzo di un giardino di verzura, acque zampillanti di fontane e fiori, una festa medievale. Sfilano dame e cavalieri, cortigiani e trovatori, giullari e servitori, animali in maschera e maschere d’animali a dar vita ora a una “furbesca”, ora a un “saltarello”. E che, come per una rappresentazione, vado sostituendo al vero la finzione, ed alla realtà l’illusione, ovvero la metafora della vita. Zev, come un novello Trimalcione, siede al centro d’una tavola imbandita e canta una canzone antica:
“Messeri e nobili Dame, Cavalieri e Trovatori, è tempo di fare un brindisi a questo amico che or ora ho ritrovato. Trattasi di un Gentile che stanco del caos che non l’ispira, or vien da noi che siamo l’onesto Popolo della Gioia. Rallegriamoci or dunque per quanto è già avvenuto, leviamo alti i calici, e insieme facciamo una volta ancor un brindisi: alla vita!”.
Ognun m’accoglie con abbracci, baci e lazzi, con canzoni allegre che in men ch’io vi dica, dispongono il mio cuore a quelle sane risa che fan dimenticar gli affanni. Quand’ecco, sotto insospettati panni giunge una folla di persone: Lavinia, Samantha e la Contessa, Carino e Liombruno, Fritz e il Conte Malditesta, Morgana Falafella e Lorenzo, insomma tutti quegli istrioni che hanno preso parte alla rappresentazione della moderna favola di questa Roma antica. Fra una pietanza e l’altra i commensali gridano un “hurrà!” ad ogni istanza. E Zev, rivestiti i panni a lui confacenti, ordina di servir cena e dar avvio alle libagioni. Si mangia e si beve a profusione, chi leva la gamba in una danza, chi prende a cantar una canzone, e chi della “morra” fa una tenzone. Re-Zev, felice per la sbornia, in accordo con Marziale ‹‹Ora c’è Roma, ‘ndo pocanzi c’era un’osteria›› (39), prende a raccontar la storia che in fondo abbiamo già sentita, sollevando una moltitudine di risa: “Vedi mo noi? Stamo a fa bardoria: nun ce se pensa e stamo all’osteria; ma invece stamo tutti ne la storia”. (40)
(continua)
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