Pubblicato il 17/09/2025 05:24:42
ROMA IN FABULA - Cronaca di Citta
IL DIAVOLO E L’ACQUA SANTA
Il levarsi delle voci nel canto romano-antico aggiunge notevole splendore alla navata di Trinità dei Monti, irradiata dal sole del tramonto. I cantori, lieti di tale privilegio, offrono il loro servigio per la gloria di Dio. Ognuno sembra avere dimestichezza con i neumi, la notazione su quattro righe riportata nell’antifonario che tiene aperto tra le mani. “Una cantata così, non la si sentiva, da lunga pezza, non la si sentiva”, dice il Sacrestano con l’accento tosco. Poi rivolto a me più da vicino: “Eh! che bella cosa, è bell’assai!, Sacram Liturgiam. È bella o nò?”, aggiunse con chiaro accento partenopeo. “Oh, si, bellissima!” “E allora se vi piace pecchè nun ho’ddite?” “Ma veramente io . . . .” “Perché si capisce che ve ne intendete!”, disse infine in italiano. “Da che lo desumete, scusate?” “E ‘namo, su, nun fate er modesto. Io ciò l’occhio”, aggiunse infine in romanesco. “A dire il vero, no!” “Che volete che nun ariconosca quello che viè qui in cerca de quarcosa, dar semprice curioso? Si, c’è chi passa, come quello che sta li drento – dice poi indicando una bara posta davanti all’altare – e chi ancora a da’ passà, come noi che stamo qua. Pe ‘na messa così dich’io, vale la pena de’ morì! Tanto prima o poi uno per uno ve tocca a tutti quanti.” “Tiè – risponde uno dei cantori dell’ultima fila, mostrandogli le corna. Speriamo tocchi prima a‘tte!” – e prima ancora d’intonare il Miserere, quarto dei sette Salmi penitenziali per l’orazione funebre, fa il gesto scaramantico, tipicamente romano, di tastarsi i coijoni. E dire che appena entrato l’avevo scambiata per una funzione solenne, di quelle in uso in occasione di un evento, che so, durante il periodo di penitenza per la Settimana Santa. Invece, a un certo punto, i cantori, terminato di cantar messa, raccolgono le sacche, i libri e l’altre cose, e si dileguano facendo un gran baccano, lasciando noi due da soli, in mezzo alla navata: il Sacrestano ed io. Benché “soli”, potrei affermare, fosse soltanto un modo di dire, poiché in realtà eravamo almeno in tre: il Sacrestano, io, e il morto nella bara, nuda e senza fiori, posta sul pavimento quasi nascosta fino a quel momento. Se avessi contato le figure dipinte sulle pareti nelle cappelle, eravamo certo assai più numerosi. Senza alcun dubbio se vi avessi aggiunto gli angeli dell’Assunzione, e tutti gli altri, invitati al banchetto di Erode, avremmo certo superato il numero di cento. Una folla. Ma intanto . . . All’improvviso s’ode lo scricchiolio della molla e il cigolio della porta che s’apre, il che, quando succede alle spalle, procura uno certo smarrimento. Nel taglio di luce che s’imprime sopra il pavimento, appare un’ombra per nulla rassicurante, seguita dal rumore sordo dei passi di un uomo che s’avvicina e che riesco a scansare spostandomi di lato. È scarno, pallido, vestito di nero, attraversa frettolosamente la navata, poi si gira, mi guarda. Resto per un attimo col fiato sospeso, quando il Sacrestano – ma è poi davvero il Sacrestano? – m’invita con un cenno della mano a sollevare il feretro che portiamo in spalla fino all’uscita, nel mentre il beccamorto, per non essere da meno, in silenzioso sussiego s’incammina dietro. È senza scorta, ne lumi, ne fiori, ne pianti, e tanto è austera e triste la figura del becchino, da far sembrare che la cassa andasse avanti e il morto dietro. Penso fra me: non c’è che dire, è proprio un bel funerale! “E ‘ccerto!, dice il Sacrestano austero, che pensavate, che fusse un caro de’ Carnovale?” “Chi era il defunto? Lei lo conosceva?” “No, io no, me l’hanno mannato puro senza la targhetta, se non ricordo male me pare se chiamasse Giacomino” “Giacomino come?” “Ah, questo davero nun lo sò. Pare fusse uno che s’era perso. L’hanno aritrovato giù pe la scarpata der Porto de Ripetta. N’hanno parlato puro li ‘ggiornali” “Dunque non l’hanno ammazzato?” “Forse che si, forse che no, e chi lo sa? So accusì tante le tribbolazioni che a daje a daje.... pe’ corpa de li buffi, o magari pe ‘na pena d’amore? Oppure chissà, era solo stufo de campà” “Poveraccio dico io, tanto per dire qualcosa che avesse un senso di commiserazione. Come ha detto che si chiamava?” “Ma veramente io nun l’ho detto. Quanno è nell’urtimo che ‘mportanza c’è se te chiami Giovanni o Romoletto, un nome o ‘n’antro, che diferenza fa? Alla fine sète tutti uguali, tutti de passaggio, come dire, oggi ce sète, domani nun ce sète più, oggi ce sète domani ... fino a che ‘n ber giorno...”:
Quattro angioloni co le tromme in bocca se metteranno uno pe cantone a sonà: poi co tanto de vocione cominceranno a di:”fora a chi tocca”. Allora vierà su ‘na filastrocca de schertri da la tera a pecorone, pe ripijà figura de persone, come purcini attorno de la biocca. E sta biocca sarà Dio benedetto, che ne farà du parte, bianca e nera: una pe’ annà in cantina, una sur tetto. All’urtimo uscirà ‘na sonajera d’angioli, e come si s’annassi a lletto, smorzeranno li lumi, e bbona sera. (1)
La citazione m’è appena salita in testa, che intanto il caro estinto se ne è già andato, in lenta e solitaria malinconia lo vedo allontanarsi per la via. “Ma allora, il funerale? La Messa?”, chiedo io. “E mica l’ho voluta io, diss’egli. Io tengo aperta la chiesa pe’ le prove della scola de canto. A me, che me ne frega, come va và, der resto la giornata mia l’ho bella e agguadambiata. I’n fin de’ conti, ho fatto n’opera ’dde bene, senza sta a guardà chi pagà er conto o chi, de peggiore, ne fà le spese. Der resto c’iavevo quello quì, er Coro a disposizione, manco a fallo arimanè senza na cantata, che ‘sò, senza na preghiera. Co’ li canti l’assoluzione armeno è assicurata. Posso dì d’aveje data l’illusione d’annassene come se deve, in mezzo a li Beati e co li Santi. Si nò, pazienza, n’indurgenza prima o poi l’avrebbe arimediata. Certo, si c’iavesse avuto er tempo d’aspettà er Giubbileo? Come se dice? Magari se abbuscava er Paradiso”. “Senza neppure un fiore, che so’, un ramo verde?, dico io. “Caro Sor mio, dice il Sacrestano prendendomi sottobraccio, la vita è tutta quanta ‘na verzura, ‘na cojonata, ‘na canzonatura. Pe’ fa quadrà le cose, prima ce dovrebbero da dì com’è la vita, e poi noi je la vivemo. È inutile campalla male, co’ li dolori e co li acciacchi. Si v’ariesce, guardate la vita de noantri, ma che dè? Sò solo cose sfuse, nun è la vita de li grandi, fatta de champagne, de donne e de piaceri. Noantri, ce dicheno, se dovemio accontentà. Mo io nun ciò pretese, però ‘na cosa la vorebbe puro chiede a Santità: de chè dovessimo pur esse noi contenti? Allora nun sarebbe mejo che la vita fusse n’antra cosa, che sò! Na cosa che magara dura poco: ‘na festa, oppuro un gioco. D’avecce er tempo armèno de scolasse ‘na bottia, o de passà ‘na notte intera co’ Maria? E perché nò, dich’io, ar pari suo, perché no co’ Giuliana, la pacioccona, quella che cià casa in cima a Porta Pia? È così bbona!”. Sulla parete dipinta c’è un Erode che banchetta e se la ride davanti a un poro Cristo tutto ignudo, poverello, che pare stia a fa la parte der minchione. “Che ciavrà poi tanto da ride, quello?”, dice seccato. Seduto a quella stessa tavola sta un tipo rubicondo che neanche a farlo apposta somiglia tanto al Sacrestano, il quale, all’improvviso, cambia aspetto e torna a discorrere della morte. La cosa non mi piace affatto, prendo dunque a guardarli attentamente, una volta lui, una volta quello dipinto sopra alla parete, ed è così che, come si dice a Roma “un colpo al cerchio e uno alla botte”, dico a entrambi: “sa’ me dovete da scusà, ma s’è fatto tardi, e prima che se facci notte.....”, cercando in qualche modo di rifargli il verso, ed esco repentino all’aria aperta con la sensazione addosso per una volta d’averla scampata proprio bella. . . . Fuori, Roma caracolla in mezzo a uno schiamazzo di colori, quasi l’abbraccio contento, come la vedessi per la prima volta. M’accorgo così d’avere davanti agli occhi si quale meraviglia: laggiù, un cornicione, un tetto, di cavalli alati una pariglia, che volavano d’intorno senza briglia sopra le nuvole barocche, sopra le tante cupole e i campanili, e sullo sfondo gli alberi di verde screziato nel riverbero d’un sole tutto d’oro, che di lì a poco sarebbe tramontato. Più in basso: l’ombrello del fioraro e la barcaccia, tutt’intorno a la piazzetta la gente che passeggia a piedi e in carozzella, la strada che si apre dritta fino a perdersi nel magico stupore, che jarifà da sfonno a quella vista. La scalinata di Piazza di Spagna, accoglie i giovani romani del rione, coetanei e non, ma quelli scarmigliati sono per lo più stranieri, o come si dice a Roma: de fora, pe dì li forastieri. Siamo in tanti, di tutti i tipi umani conosciuti: alti, secchi, dinoccolati, che di sicuro sono inglesi, che bevono la birra senza mai riprender fiato. Più in là, quattro ragazze belle, bionde e sorridenti, sono alle prese con due bulli improvvisati che sul momento dicono: “so’ svedesi!”. C’è anche una coppia di giovani innamorati che ancora non riesco di guardare in viso, tanto se ne stanno appiccicati. E poi tanti altri, come si dice qui: appecoronati sopra quelle scale, che tengono dietro a un flautista senza fiato, al quale a un certo punto pur’io me sò accostato. Porta una camicia mezzo stinta, un fazzoletto giallo al collo, un orecchino, un paio di blue-jeans bisunti d’olio. Siamo tutti li, chi sui gomiti appoggiati, chi disteso sullo zaino sdrucito, chi con gli occhi chiusi e trasognati, persi nelle ciance sull’amore, a discorrere delle altre religioni, come tanti pitocchi disgraziati. “Sta religgione nostra certo nun è gran cosa, dice Gigi tra una voluta di fumo che sembra panna, voi mette quer che te dà quella orientale?”, per accorgermi poi che il discorso se ne va tutto in canna. Nicola no, lui è preparato, è capace di tenere banco fino alla mattina dopo: “Però la prossima volta mi dirai la tua, dice, ma adesso è troppo tardi”, e se ne va lasciandoci tutti non poco sconcertati. Certo a sentirlo parlare di religione s’impara, sa tutto, ma se qualcuno, così per gioco, gli chiede: “ma in tutto questo il Diavolo?”, lui lo manda dritto a morìammazzato. Massimo è forse quello più scojonato, racconta di quelle storie, che alla fine neppure lui crede esser vere. Spesso nega davanti all’evidenza, dice che dissimula: “In realtà, dice, nella dissimulazione si tengono nascoste certe informazioni senza dire effettivamente nessuna falsità”. Ma sappiamo che lui in quest’anno si è appena iscritto a Filosofia. Il supporto maggiore lo offre Onorio, che studia canto, e che in seguito sarebbe entrato al Santa Cecilia. Il quale, ascoltato il racconto dell’esperienza da me fatta in chiesa, m’illumina sul canto romano. “Il canto che hai li ascoltato, dice, servì a sottolineare la fraterna accoglienza della Chiesa di Roma alle diverse genti, e le indusse a parlare una sola lingua comune. Canto che i primi cristiani trasformarono al dunque in liturgia e che nei secoli profondi del medioevo divenne il canto degli agricoltori quando guidavano gli aratri, e dei barcaioli che conducevano le barche lungo i fiumi. La sua riscoperta, oggi più che mai, restituisce a Roma la sua universalità, aggiunge, notevole splendore alla sua magnificenza. ‹‹Lo stesso si può dire più in generale per tutto ciò che concerne la pompa religiosa, il fasto papale, le udienze, le benedizioni ecc. Ma anche la sua grande retorica, e cioè, le suggestioni storiche leggendarie, l’ “antico” della città eterna. Nonostante la sua greve materialità, il mondo popolare della Roma papale è un mondo magico. Magia che è presente nel linguaggio popolare impregnato di un continuo senso del miracolo, di conversioni mistiche, illuminate›› (2) “Ma, allora, dico io, tutto quello che si sente dire sul Diavolo, non è frutto solo di superstizione. In un certo senso riguarda direttamente anche la religione?” “Un discorso valido principalmente per le attinenze con l’argomento religioso, dice Onorio, nei cui confronti” – ‹‹la trivialità e l’osceno sono spesso usati come controvalori; la scurrilità, il sacrilegio, la sottigliezza teologica, il carattere antiquato e latinesco del romano, sono tutti attribuibili al demonismo medievale, che a Roma è riconducibile alla grande festa solare di obelischi e di colonnati, di torri a spirale e di cupole bizzarre, esposte a beffardo colloquio con le statue maldicenti, nel clima pagano degli dèi, mai completamente anatemizzati›› (3) “Sicché, aggiunge poi, per peccatori e peccati si tratta non tanto di ottenere un condono, quanto di un automatico riassorbimento in quella pacata logica superiore che significa eliminazione della cronaca e possessione della storia. ‹‹In nessun luogo ho visto rimettersi le cose a posto, come in questa saggissima e a momenti sorniona città. Come brucia l’episodio, come liquida il fatto di giornata! Quel che c’insegna e predica è la virtù del tempo, la valvola del domani, la fiducia di un’altra vita. Di qui la visibile forza della sua religione, sebbene si sia disposti a credere esser proprio la familiarità col sacro e con l’eterno a conferirle questa sua potenza addomesticatrice, rimediatrice, consolatrice. Talché è veramente prestigioso e duraturo in quanto collaudo di soluzioni umane, in quanto certificato di superiori verità, in quanto somma d’esperienza, norma di convivenza, lezione morale. Si può così ascoltare il suo popolo che filosofeggia per la strada nello svolgersi del fare quotidiano. Ed il romano si rivela nel tempo un popolo amaro e sapiente, che va diritto al fondo delle cose. Tuttavia c’è da tener presente una certa aura che avvolge il “romano”, e che, pel solo fatto di sfiorarlo, determina una partecipazione, uno scambio, un’inconscia adesione, in cui il moto diverso di ciascuno si ricollega per vie difformi a quello dell’altro, ma quel che conta infine è l’articolazione generale, la complessiva tavola umana›› (4), “su cui l’essere “romano” si dispone, per così dire s’apparecchia sontuosamente contro ogni prevenzione”. Ed è certo una tavola imbandita d’ogni ben di Dio, alla quale il romano si siede e scongiura, facendosi al tempo stesso il segno della Croce. Una tavola da cui egli pontifica e da ordini con lenti e irrevocabili gesti. Un convitto indimenticabile tenuto dal naturale governatore della Torre di Babele, che trova nel cerimonioso la sua simbolica soddisfazione. In cui, finanche il discorso minuto, o puntualmente dotto, si beatifica nel canto, riversandosi in altrettanti caldi e ben disposti orciuoli. «È il trionfo del mal seme d’Adamo, dice ancora Onorio, è l’affacciarsi del bestione apocalittico, è l’implacabile tromba marina e terrestre che gli uomini provocano e paventano a un tempo. La gente gli va appresso, imbocca il labirinto del mistero, gira per le definizioni, n’esce con lui incolume›› (5), come diremmo noi: a braccetto.
Cuanno Iddio creò li ssette sagramenti, Er demonio creò ssette peccati, Pe ffà cche ffussi contrasto de venti. Lì cco’ le streghe strasformate in mostri Bballa er fannango, e jje fanno l’orchestra Li diavoli vestiti da Cajjostri. (6)
Qualcuno ha scritto: «Dovremmo esser sicuri, prima di metter mano alla penna o allo scalpello, di essere altra razza d’uomini: una generazione remota e virginea, giunta a vedere nell’uomo una sacertà inviolabile, la stessa presenza di Dio» (7) Ma quel maiestatis, non doveva essere che un immenso plurale, un’ardua definizione in cui le più estreme provenienze infine si toccano: «È un fatto che la “nostra” voce possa librarsi in virtuosismi sì rari e discutere con i contemporanei nel loro antico idioma: coi greci di Socrate, coi latini di Virgilio, coi giudei di Erode, coi goti di Alarico, perfino con gli Etruschi e cogli Zingari, ed anche con gli Inglesi, i Portoghesi, i Francesi, gli Spagnoli, gli Americani, e con i Russi, gli Arabi, gli Indiani, i Cinesi ecc. Entro uno spazio che non ha più tempo, in cui la parola “universalità” riferita a Roma riceve qui il suo pieno assenso» (8) . . . Quare fremuerunt gentes et populi meditati sunt inania? Perché questo agitarsi di nazioni e queste vane trame di popolo? “È come una sorta di mistero che incombe sul nostro capo”, dice Arturo, mio compagno di strada e “cicerone”, mentre in silenzio sondiamo le arcane esigenze dell’occulto sentendoci in contatto con il cielo, siccome i rabdomanti con la profondissima terra. Certo, le cronache dell’alto medioevo romano in cui si raccontano di strane “sepolte vive” che si facevano murare nei bastioni o nelle antiche rovine, dove da piccole grate ricevevano l’aria e qualche po’ di cibo, ci avevano fornito di che cercare. Al momento, ciò che più ci interessa lo troviamo scritto nei segni indelebili del tempo, nel riflesso immediato della storia, dalla quale apprendiamo del passaggio dei primi cristiani e dei primi pontefici sul suolo di Roma. È così, che ci attiviamo per conoscerli più a fondo. È questa la ragione per cui Arturo ed io in fondo siamo divenuti amici, anzi, per così dire, compagni di strada. Per lui Roma sembra non avere segreti, sebbene sia solo al primo approccio come Guida Turistica. “Dobbiamo risalire all’antico culto dei morti, dice il medium al quale ci siamo rivolti, calma, al tempo!, siate quieti, vedrete meraviglie!”, e poi, come pure ha lasciato scritto il Belli:
Du’ schizzi d’acqua-santa e cquattro strilli...! ...inzino er diavolo sii stato fatto a immaggine de ddio! (9)
A un certo punto ho la sensazione di camminare all’indietro, venti e più secoli prima, attraverso il giro degli archi delle Terme, il rigore delle colonne allineate, le basiliche, i palazzi, i templi, i Fori, con le vestali che mi vengono incontro, gli schiavi, i messi imperiali, i centurioni che quasi mi travolgono passando con le loro bighe. E poi, trofei aggrovigliati, carceri da incubo, cieli inenarrabili, e Nerone che suona e canta mentre a Roma l’incendio divampa. E cosa più strabiliante ancora, la folla che risale dal medioevo in poi, si fa vicina a noi: abati e mendicanti, principi e mercanti, i cavalli del cardinale e i bovi di Campo Vaccino, il popolo del Belli e del Pinelli: i briganti, i cocomerari, le minenti, i giuocatori di morra, i preti, che si mescolano e si avvicendano in un turbinio di schiamazzi e di colori. Come siamo finiti a consultare un medium resta misterioso a noi stessi, fatto è che l’incontro raggiunge gli insperati effetti. La sapienza che hanno gli ignoranti a darla a bere ai “creduloni”, ha dell’incredibile anche per noi. Siamo entrambi coscienti della irrazionalità della cosa in sé per sé, che non fossimo andati lì per prendere ma per dare, non per sciogliere nodi ma per aggrovigliarli, non per abbuonare ma per intrigare, era evidente, eppure? Eppure qualcosa accade malgrado noi. Ci ritrovammo ad essere raggirati come due minchioni. Ma “se è vero che il diluvio non si processa, allora non c’è che da sperar nell’arca”.
È così che Arturo ed io finiamo per vegliare in un sonno pago e primordiale sopra un sepolcreto d’immagini suggerite dalla fantasia. Ci risvegliamo ch’è ormai tardi, senza più niente in tasca, manco ‘na lira, mezzi nudi sopra un prato fuori mano, all’aria salubre della campagna romana, all’ombra d’un rudere antico. Il vuoto malinconico paesaggio, solcato dalle arcate sospese dell’acquedotto Claudio, da al sito un senso arcano, lontano dal tempo, inestricabile ingresso verso un mondo estremo, o forse, proiettato verso il futuro. In lontananza s’intravedono altri resti tra cui quelli monumentali d’un Circo che doveva essere immenso, cornice d’un vuoto capace d’ospitare ad Aeternum i fantasmi della storia, penso, i suoi segreti, le sue trame, i ludi e i fasti della romanità. Non tutto sembra andato perduto. Sono pur quelli i resti d’un’epoca passata, che di quella più antica porta l’eco poderosa, straziante a volte, testimonianza d’autentica sublimità a lungo covata dalla storia, e di cui noi, altro non siamo che spettatori inermi di successive emozioni. “Tu cosa hai visto?”, chiedo ad Arturo, che con me divide l’avventura. “A dire il vero non ricordo che questo bernoccolo che ho sulla testa e che mi fa veramente male.” “ È opra der Diavolo!”, dice il pastore al seguito del gregge che ci ha svegliati. 91 E un diavolo forse ce lo potevamo avere, uno per capello, per quello che c’era accaduto. “Ma dove siamo?” gli chiedo. “A Roma, risponde tosto, perché ando pensi de stà?”. Non c’è alcun dubbio, quella che si vede in lontananza, non può che essere la Roma imperiale, la città eterna. “Roma Santa, Roma del Diavolo!, dice, un accidente che la spacca! Certo che a vedevve, sembrate... aho!, semo sicuri che nun séte fantasmi, o morti senza seportura, arisvejati da le streghe? Perché quì, si nu’ lo sapete, ne gireno a mijara, fra le rughe der tereno e in de le grotte, e la sera danzeno intorno ar foco e fanno er bagno in de le fosse.” “Ma che dici, sei sicuro, chiedo io, che non s’ò mignotte?” “Ma cche dici tune?, nun biastemià!, e statte accorto de nun te fà sentì, ch’artrimenti quelle s’ò capaci de pijatte a bbotte.” “Grazie a Dio, quelle, le avemo già prese, non vedi come ci hanno conciati?” “Io ve lo dico, nun annate a riccontallo ‘n giro, artrimenti so’ guai seri, quelle, sò capace de venivve a cercà andunque vui séte!” “Da parte nostra possono star tranquille, risponde Arturo stando al gioco, che non le arrecheremo danno alcuno. Puoi dir loro che siamo due Romei che i briganti hanno spogliato di tutto, e che oggi stesso, malgrado facci notte, si rimettono per via”. “Ah!, e lo potevate dì ssubbito ch’annavate a Roma a pietì indurgenze pel Giubbileo. De sti tempi se ne ‘ncontrano tanti, vengheno da tutte le parti. Se fermeno de quà e de là pe l’osterie, poi vanno in giro pe le Sette Chiese. Tempo fa, e mo ve lo aricconto una, n’ho ‘ncontrato uno pur’io, aspetta come se chiamava? Giustino, me pare, nun me vorei sbajà. Lo viddi da luntano, che camminava piano, così per tempo che trascorse io stavo co le pecore a le porte, jannai ‘ncontro, jannai. Quanno questo s’è fermato e s’è guardato ‘ntorno, come de chi guarda la stabbilità der tempo. Ciavrà avuto certo più d’ottantanni, annava scarzo co le scarpe ‘n mano, vestito bbene, co i carzoni e ‘na giacca blu a righe chiare, tanto che pareva esse un zignore. Quanno d’un tratto se svota le saccocce de tutto quanto e lo butta via, così fa cor cappello, co’ la cravatta, co’ l’orologio, poi se’nchina, ariccoje un po’ de tera e la tira ‘nfaccia ar vento. Io me ce so’ sbrigato a dije che nun doveva ffa ccosì, che nun ero nu brigante, che nun volevo gnente. Ma quello continuava a dì: Dio c’è! scrutanno er cielo che già faceva sera”
“E già, dico io ripetendo un verso di Trilussa: “La sera s’avvicina e l’ombre de le cose se ne vanno” (10). Presto farà notte. E noi, dove andiamo senza ‘na lira?”, chiedo tosto ad Arturo. “E già, la strada è breve, risponde il pastore, lo dovreste da sapé che tutte le strade porteno a Roma, come dice er proverbio, e cià raggione, perché da Roma tutte so’ partite. Dio c’è! annava ripetenno Giustino. E chi la vvisto?, jò chiest’ io. Ando’ cercallo? E lui sai che m’à risposto: Pe le strade de la vita! An do’ trovallo, servo ognuno? In ogni loco, disse quello. Puro, a casa der Diavolo, diss’io. Anche li, me arispose, che mo io ancora lo stò cercanno. Come parlaje? Sottovoce, disse quello. E, dimme ‘n po’, come ho da fa pe ffamme sentì? Certo non ha bisogno delle tromme. E quanno poi jo chiesto: perché ‘nvocallo?, disse sempricemente: Perché ci ascolti. Così, quanno jò chiesto: perchè ascortallo, sai che m’ha risposto: Perché parli. Nun c’era verso de fallo schiodà, lui lo seguiva ciecamente, lemme lemme pe la strada sua, senza nemmeno ariposasse ‘n momento. Tant’è vero che mentre parlavamo camminavamo insieme, ma era come se se stasse fermi, a ripijà fiato un pochettino. Allora mè venuta ‘n mente ‘na domanna, der perché seguillo: Pe nun sentisse randagi, disse. Mo, io, è da ‘na vita che faccio er mestiere de pascolà le pecore, e so’ contento, e quarche vorta sono puro er pifferello. E quanno ch’è Natale canto le ninne-nanne a lu Presepe e m’ariccomanno a Cristo, poverello! Ma a quanto a passà l’inverno, in sù pe li monti, quanno che piove a dirotto, me chiedo si ha da venì er diluvio. Allora er tono, er lampo, li furmini e le saette, segneno er finimonno: e ammalappena er vino che ciò in testa sfuma nell’aria e me ritrovo solo, credo d’avé er Diavolo vicino, e nun c’è cristiano che quanno stai pe cascà te dia ‘na mano. E ‘n quanto a randagio nun me ce sò sentito mai. E ‘mica so’n cane! Così, già che c’eravamo, chies’io a quello: ando’ sete diretto, Maè?, perchè oramai, nun cereno dubbi, de Maestro se trattava. Eh!, uno che t’arisponne accusì?, nun po’ esse che uno che sape. E quello: a Roma per il Giubileo! Mo io nun c’iavrei gnente da ridì, si nun artro perché s’ò abbituato a spaccà la lira, me s’ò fatto ‘n po’ de conti: l’anno centesimo nun poteva aesse, perchè si io ero presente all’Anno Santo der ‘50 sotto Pio XII, ero presente puro nel ‘75 nell’Anno Santo sotto Paolo VI, abbisognava che passassino armeno ‘n’antri venticinquanni. Mo 50 più 25 più 25 fanno cento, ma si de quest’urtimi ne so’ passati solo 20, abbisognarà aspettanne armeno n’antri cinque, nun ve pare? E secondo voi quello sarebbe camminato pe’ cinquanni? E pannà ‘ndove, a Roma?, che stà quì a du passi? Allora, co tutta la strada che facc’io appresso a le pecore, manco a dillo, sarei arivato in capo ar monno! Penzai tra me: nun è che nun volenno me stesse a pijà ‘n giro? Io, comunque, er dovere mio l’ho fatto, ner segno dell’ospitalità, che dice che chi offre sostegno ar pellegrino l’indurgenza se l’è bella che guadambiata. L’ho fatto accommodà come potevo, jò dato pane, cacio e vino, e la bbona sera. Er giorno appresso avemo fatto puro ‘n pezzo de strada inzieme, l’ho accompagnato doppo l’archi, laggiù, fino ‘ndo ariva la strada e ppoi jò detto addio. Dio c’è! ma ridetto quello, facennome er saluto co’ la mano. Mo, si pure voi annate in quella direzione, magari lo potreste arincontrà. Io sarebbe curioso de sapè ‘ndo sta? Intanto, tra ‘na chiacchera e ‘n’antra, s’è fatta notte. Annamo và, dice er pastore, prennéte quà, famo ‘n po' peromo, e tira fuori dalla sacca un pezzo di cacio, un tozzo di pane, e‘n quanto ar vino, dice, venite appresso a me, che ce l’ho riposto drento an der grottino, che stà qui vicino: Der resto (..) Quanno me trovo de cattivo umore un bon goccetto m’arillegra er core, m’emoie de gioja e me ridà la pace: nun vedo più nesuno e in quer momento dico le cose come me la sento. . . . Le verità so’ belle, se capisce, ma pure in quelle ciabbisogna un freno. Eh! se ner monno se parlasse meno quante cose annerebbero più lisce! Ch’er Padreterno me la manni bbona da li discorsi fatti a la carlona! (11) Nel frattempo è già un’ora di notte, quando lo vedo allontanarsi nella grotta e tornare con un focherello fra le mani che posa sopra la nuda terra in mezzo a noi. Arturo ed io ci guardiamo un po’ perplessi e mentr’egli s’affaccenda a stendere delle pelli gli chiedo: ma tu il Diavolo quello “vero” l’hai incontrato mai? “Eccome no! quella vorta a lo Montone de lo Grano, ‘na paura?, ancora stò a tremà. Ma è stato tanto tempo fa, d’allora, n’è passata d’acqua sotto pe’ li ponti. Allora annavo a pascolà le pecure sui pratoni ortre Porta Latina, seguenno l’acquedotti che ‘na vorta partaveno l’acqua a Roma, quanno me accòrse ‘n temporale de quelli che te sembra er finimonno: er cielo s’era fatto nero nero, li toni squassaveno le recchie, le saette poi se sprecaveno. Così presi riparo sotto la torre che stà sopra a lo monte, mezzo abbandonata, com’era der resto tutto quanto attorno: Quann’ecchete che tutto in un momento vidde che da ‘na fossa sortì ‘na fiamma rossa, e da la fiamma un omo secco, brutto, tutto peloso, co’ ‘na mucchia de sbrugnoccoli su la fronte e un naso a becco che toccava la punta de la scucchia. Chi sei?, diss’io a quello. Nu’ lo sai chi s’io? So’ Farfarello! So’ Farfarello er diavolo a la moda, fo er frammassone e ciò li tre puntini sotto l’attaccatura de la coda. So’ Farfarello er diavolo moderno che nun conta più un cavolo pe’ via ch’er monno se n’infischia de l’inferno.(12) “Ma come?, diss’io a quello, nun è che me te voi magnà? Nun sei venuto pe’ portamme giù all’inferno? Mai fatto pià no’ spavento, tepossinoammazzatte sì sei brutto, che pe la paura me so’ cagato addosso: Ma no, statte bbono, nun te preoccupà! Eh! so’ passati quelli belli tempi che me ficcavo in corpo a le persone co’ la scusa de da’ li boni esempi: quanno, pe mannà avanti la bottega der mago e de la strega, ingarbujavo er popolo cojone. Oggi nun vanno più certi spettacoli, che er monno s’è cambiato, fratè mio: nun crede più né ar Diavolo né a Dio, né a le stregonerie né a li miracoli! (13) quanto è ‘vvero Dio! “E questo ch’è, l’antro de l’inferno? No, disse quello, è uno dei più superbi sepolcri della Romana grandezza, nessuno lo direbbe mai, ch’è stato costruito secondo un modello che jò suggerito io, un labbirinto de coridori e de colonne ‘ndo te perdi e t’aritrovi, seconno si sei stato bbono o cattivo, allora qui poi trovà la pace oppure er foco, e sto’ pajaro simile an moggio arivortato, po' addiventà, se sà, l’antro de l’inferno. Ma, oramai. . .Aho! mo io te lasso annà, ma tu nun lo dì, piuttosto, famme ‘n favore, nun ce fa arivà nisuno, che adesso er foco è spento e io quì piuttosto m’ariposo”.
Il sepolcro detto Monte del Grano, mi spiega Arturo, è uno dei più imponenti della romanità a noi pervenuti: «l’accesso avviene, attualmente, attraverso un portale marmoreo non pertinente all’ingresso originario che immette in un corridoio rivestito di mattoni, coperto da una volta a botte. Dal corridoio si accede alla camera sepolcrale a pianta circolare, coperta a cupola, il cui tamburo era la base di un probabile tumulo troncoconico, ricoperto forse da vegetazione, secondo una consuetudine di derivazione ellenistica, il cui esempio più noto e monumentale è il sepolcro di Augusto. Dalla pianta si notano inoltre un corridoio anulare, a cui si accede da due corridoi laterali facenti capo ad altrettanti ingressi posti ai lati del dromos principale e una scala che doveva forse portare ad un livello sotterraneo. G. B. Piranesi, che eseguì un rilievo del mausoleo, mostra i due piani della cella comunicanti al centro attraverso un’apertura praticata nella volta sostenuta da colonne. Nel piano superiore, nel punto in cui il corridoio sbocca nella cella sepolcrale è ricavato un piccolo vano coperto a volta che sembra non essere mai stato accessibile e il cui uso, per questo, risulta incomprensibile».(14) “Mo io, aggiunse er pecoraro, da quele parti, nun me so’ fatto più vvede, e me rimetto a la coscenza mia “che vede Iddio più su de le candele”. Però m’hanno detto, chi c’è capitato, che doppo lo scorno con padrecurato, stando a la voce de la ggente, fece na procisione proprio in sopra ar monte, e che er Diavolo se ne d’evesse annato”. “Puoi star sicuro che di certo noi non lo andremo a cercà mai”, dico io guardando fisso gli occhi di Arturo, che a malapena riesce a nascondere l’immediata intesa di recarci colà l’indomani. Intanto il fuoco s’è fatto brace, e tutti all’apparenza sembriamo assonnati, così, possiamo restare a dormire lì, dice il pastore, e sparge un po’ di paglia, come a prepararci un più comodo giaciglio. Ci risvegliammo ch’è ormai l’alba col fuoco che strepita e il caffè fumante nella tazza. Il pastore non c’è, o meglio stà de fora che se la fuma, in piedi appoggiato a un bastone. Subito m’accorgo d’essere cambiato, che sia un’altro. Ci dice: “a la bonora!”. Il cielo è lontano, striato di rosso mattutino, gli archi dell’acquedotto digradano verso la pianura cosparsa di brume solitarie e di pecore mezz’addormentate. Un bel quadro, dico io, un acquarello, a cui manca solo una cornice tutt’attorno. In breve siamo pronti per rimetterci in viaggio, quando il pastore dice: “Annate, annate, è questa la mejora pe’ rimettesse ‘n su la via, prennete in pe’ dellà, nun ve sbajate. Da parte mia quello che potevo fà l’ho fatto, ar resto ce penzerà er destino, e si nun ce pensa lui, ce penso io. E quanno sarete a Roma, aggiunse, annatejelo a dì a quer bronzo de San Pietro: . . . che sta la drento, co’ la chiave in mano, che a furia de baciallo, piano piano j’hanno magnato più de mezzo piede. E quella è tutta gente che ce crede: perchè devi pensà ch’ogni cristiano ch’ariva da vicino o da lontano lo logra co’ li baci de la fede. (15)
“E ditejelo puro, che stesse attento a lui, che a forza de ‘ndurgenze li cristiano doppo der piede se pijerà la mano, e a poco a poco se lo magneranno sano”. Quindi, a modo suo, ci saluta: “Beh! Che divve? Prima o ppoi sicuro che ci arincontreremo. Ma si nun se dovessimo incontrà, aricordateve de me ner Giubbileo, che si voijo me vesto da zi prete e da minchione, da pastore e da sacrestano, da meretricio e da buffone, da bolgia e da fardello, a Quaresima come a Carnovale. Nun ve potete sbaijà: sò Farfarello”. . . . In pe’ de là, secondo l’indicazione stava a significare la Via Appia. «La Regina Viarum, fatta costruire dal censore Appio Claudio nel 312 a.C., e che attraversava tutto il sud della penisola da Roma a Capua, allora una delle più fiorenti città dell’Impero. Successivamente venne prolungata fino a Benevento, a Venosa, a Taranto e giù infino a Brindisi, il più bel porto naturale del Mediterraneo, che fu la base più importante di Roma per le imprese d’oltremare. Fu indubbiamente, la principale strada costruita per ragioni mercantili, strategiche e colonialiste che ricalcava i più antichi e parziali tracciati come la Via Campana, e la Via Salara che rifornivano l’Impero del sale proveniente dalle saline costiere. Fino dal tardo medioevo è stata la strada preferita dai viandanti che trovavano ristoro e sollievo nelle stazioni di sosta già esistenti nell’antichità e chiamate mutationes perché utilizzate per il cambio dei cavalli» (16) «In epoca pontificia fu la strada preferita dai cosiddetti “Romei”, quei pellegrini pietosi, che di ritorno dalla Terrasanta, venivano a Roma con le sacre reliquie, o che, talvolta, si mettevano in viaggio in occasione dell’indizione del Giubileo. Particolarmente suggestive erano le parti dell’Appia più vicine ai centri abitati con il loro succedersi delle tombe fastose e delle “ruine della magnificenza antica”, di cui rimane un’imponente traccia nell’ultimo tratto fuori dalle mura, prima di giungere a Porta San Sebastiano, ove si può ancora vedere la pavimentazione antica in “selciato”. Sepolcreti e tombe monumentali, tumuli e mausolei, templi, resti di ninfei, di palazzi imperiali, di circhi, e poi chiese e catacombe, in cui arte e ludo, religione e misticismo, si connettono l’una nell’altra, e in cui, il passaggio dall’una all’altra, reclama gli inseguimenti voluti dalla storia. Un cammino lungo attraverso molte vite, talune dimenticate, altre entrate nell’alone del mito o nell’aura della santità. Tutte immancabilmente accolte nell’ombra della morte, in cui lo spazio e il tempo non trovano affermazione alcuna, alcun senso, se non quello dell’eterno mistero in cui versa l’umanità. Il silenzio, in certi momenti, è di rigore, “come una nuda lavagna che domandi una frase o un disegno” (17). Scavate alle porte della città, nel tenero suolo tufaceo di Roma, in gallerie spesso sovrapposte fino a cinque, a sei piani che si ramificano creando complicati labirinti, le Catacombe rispondevano perfettamente alla pressante esigenza che la dottrina della resurrezione della carne imponeva ai cristiani di inumare i propri defunti. Il che, implicava necessariamente l’acquisizione di aree sempre più vaste a destinazione cimiteriale per la concentrazione delle proprie sepolture. Non si conosce nemmeno quanto siano vaste: qualcuno oggi afferma almeno settecento chilometri, ma nelle catacombe di San Callisto -per esempio- se ne percorrono soltanto una ventina. Quasi sempre le frane e le ostruzioni bloccano il percorso e non si arriva alla fine del cunicolo. Non tutte le catacombe sono cristiane: oltre a quelle ebraiche a Villa Rondanini e di Villa Torlonia, v’è sotto San Clemente, un ipogeo dedicato al misterioso dio Mitra; mentre sotto la ferrovia che collega Roma a Napoli, una basilica è dedicata ai riti neo-pitagorici.(18) La maggior parte delle tombe consiste in semplici loculi scavati nelle pareti dei cunicoli e sigillate da una lastra di cotto o di pietra su cui venivano tracciate iscrizioni e simboli figurati graffiti o dipinti su un sottile strato di intonaco. Non mancavano però tombe più monumentali, talvolta disposte a gruppi in ambienti più o meno grandi detti cubicula. I vani di queste tombe più ricche erano generalmente rivestiti da lastre di pietra sormontati da un arco, arcosolium, ornato di dipinti. Non poche delle sepolture venivano identificate da piccoli oggetti fissati sulla calce che le sigillava: conchiglie, monete di bronzo, fondi di bicchieri, terrecotte; e perfino delle bamboline. che servirono da ornamento per uno dei luoghi di culto più straordinari al mondo. Le poche lapidi rinvenute non avevano indubbiamente la qualità di quelle pagane; le loro diciture talora denunciavano la scarsa cultura di chi le redigeva, e talaltra le dirompenti innovazioni che la neonata fede comportava. Così accanto alle dediche cristiane ne sono state trovate dedicate ai Mani, cioè agli dei pagani degli inferi, mentre in un’iscrizione il sepolcro veniva definito la “dimora eterna” del defunto». (19) Dopo la visita di rigore alla tomba merlata di Cecilia Metella ed a quella adiacente di Romolo sul cui sfondo si levavano imponenti le rovine del Circo di Massenzio, entriamo nella prospiciente chiesa dedicata a San Sebastiano martire della persecuzione di Diocleziano. Il complesso architettonico, ha sicura origine su un’area funeraria pagana, evolutasi con la sovrapposizione di costruzioni successive. L’ipogeo più antico, formato da tre tombe-mausoleo, accanto alle quali, nella prima metà del III secolo, è scavato nella roccia all’aperto e presenta umili sepolcri in forma di colombari, alcuni dei quali mostrano simboli e pitture di difficile lettura, che si pensa possano essere appartenuti a cristiani. «La costruzione, è sempre Arturo che parla, ha subito ad un certo tempo una radicale trasformazione ed i sepolcri vennero ricoperti di terra per permettere la costruzione di ambienti di più ampie dimensioni. Questa sistemazione fu compiuta per consentire riunioni e conviti funerari. Le fonti asseriscono, e in particolare lo confermano i graffiti tracciati sui muri, che i riti funerari erano celebrati in onore dei principi degli apostoli, Pietro e Paolo, perciò il luogo è oggi inscritto alla “Memoria Apostolorum ad Catacumbas”. O forse, come anche si è giunti a pensare, della venerazione delle loro reliquie traslate in questo luogo dalle tombe originarie, affinché non fossero profanate durante la persecuzione di Valeriano avvenuta attorno al 257-258, e quindi prima che fossero costruite le basiliche costantiniane».(20) . . . HIC CONGESTA IACET QUAERIS SI TURBA PIORUM CORPORA SANCTORUM RETINENT VENERANDA SEPULCRA SUBLIMES ANIMAS RAPUIT SIBI REGIA CAELI
“Qui, se vuoi saperlo, riposa insieme una schiera di santi: i venerandi sepolcri conservano i loro corpi, ma il regno dei cieli rapì a sé le loro anime elette. (21) È quanto recita il carme di Damaso, riportato sulla lapide marmorea, nella cripta dei Papi della catacomba di San Callisto. Fu li, nel luogo che ne accolse le spoglie, che il canto nacque spontaneo, durante la Messa che ivi si svolgeva. Un mistico candore di litania, puntuale e cadenzato, che riversò nella fede dei visitatori, la segreta linfa del sacro, e rese mirabili le realtà arcane ignote agli uomini. È ancora il canto romano proprio della liturgia cristiana che ascoltiamo nella Cripta di S. Cecilia: “Quel canto, caratteristicamente diverso e originale formatosi in principio sui tipi del canto ebraico, greco e bizantino, che in seguito volse in una liturgia nuova, e che rifluì poi nel canto gregoriano. Lo stesso che, secondo una testimonianza di Giovanni Diacono (IX secolo), San Gregorio Magno avrebbe fatto copiare e codificare in un antifonario archetipo, detto Antiphonarium cento, che per oltre un millennio diede espressione alla liturgia cristiana detta del “canto piano”, tenue nel comporsi entro una melodia semplice e pura, e sulla quale fiorirono i tropi e le sequenze, in cui la voce del tenor si levava libera nei melismi e raggiunse la sua massima intensità nel Dies irae”. dice ancora Arturo. Un’altra epigrafe, non meno degna di nota, è quella riferita al diacono Severo, che nella tomba scavata per i propri familiari accenna alla resurrezione dei morti: “...la piccola Severa resterà in quella dimora di pace fino a quando il Signore ne restituirà al corpo l’anima immortale” (22). Non è forse questo il mistero più grande al quale tutti ci sentiamo intimamente legati, e che tutti ci accomuna nella segreta speranza del domani?
Ego sum resurrectio, et vita: qui credit me, etiam si mortuus fuerit, vivet: et omnis qui vivit, et credit in me, non morietur in aeternum. (23)
“Io sono la resurrezione e la vita: chi crede in me, anche se è morto, vive: e tutti coloro che vivono e credono in me, non morranno in eterno”. Recita il salmo tratto dall’Ufficio per i Defunti, e i morti, in tutte le religioni antiche, sono sempre stati onorati con preghiere e canti, perché la loro vita nell’al di là potesse essere riposo e ristoro nel silenzio della pace eterna. La promessa del riposo per la stanchezza accumulata e del ristoro per la sete e la fame che cominciavano a farsi sentire dentro di noi, ci fece ben sperare nella communio a base di pane e di vino che alla fine della Messa sarebbe stata elargita ai fedeli. Non che si desiderasse un cenone degno di Cesare, però l’idea del banchetto eucaristico, come si dice?, ci stuzzicò l’appetito. Ma la fede come si sa, sazia gli animi non lo stomaco di chi, come noi, sente i languori della fame, in Quaresima come a Carnevale. All’uscita incontriamo un vecchio mendicante il quale, facendoci un cenno con la mano, ci invita a seguirlo, e che poi ci chiede: “Avete fame?, beh! venite appress’amme, che ‘ndove nun c’è lo prete se magna co la monaca”. Mi dico: e perché no? Almeno per oggi il pranzo è, come si dice, arimediato. È così che lo seguiamo ed egli passo passo ci conduce attraverso campi arati e vigne. Ma poiché non è ancora stagione, l’uva è acerba, e non la possiamo né cogliere né mangiare. Poi, passiamo sotto un fico, e poiché non è ancora né maggio, né settembre, non vi troviamo altro che foglie; quindi passiamo nei pressi d’una fontana alla quale non possiamo bere, perché, egli dice, “Qui s’abbevera lo Diavolo”. Infine giungiamo presso una Canonica, almeno così ci sembra dal richiamo scandito di una campanella che suona dall’alto, sopra la facciata. Ci sediamo sull’erba sotto un grande noce, quando Arturo mi racconta di “una gran noce di grandezza immensa che germogliava di estate e puro d’inverno, e sotto di questa si tenea gran mensa. (24) Che cos’è?, gli chiedo incuriosito. “Non ricordo se un carme o una ballata popolare, o forse, una semplice poesia. Ma la frase di certo si rifà a Plinio il Vecchio, che nella sua Naturalis Historia, rivela che chi sosta sotto un noce assorbe la “potenza” di quest’albero e delle sue foglie”. E il vecchio di rincalzo: “Nuci nuci!”, “il noce nuoce”, dacché da una porticina esce una fantesca con una grande cesta in mano, la quale senza pronunciar parola, apparecchia sul prato una tovaglia bianca profumata di cenere e lavanda. E ancor dalla porta giungono fanciulle con cibi e pani caldi nelle scodelle, e vino e acqua fresca di fonte negli orci e nelle tazze. Sembra danzino al suono di flauti dolci e tamburelli e ci girano attorno come farfalle gaie e belle cantando una canzona antica: “Quanto sia lieto il giorno”, da una frottola dal contenuto amoroso. Sazi, pur senza aver toccato cibo, ci leviamo, ed esse ci prendono per mano in una danza che, nel volvere e rivolvere attorno al noce, si snoda sul prato e fra le selve. Quando improvvisamente il prato si anima di streghe, stregoni e diavoli dell’Inferno, tutti nudi. Chi da fiato a un flauto, chi a un oboe, chi emette suoni ritmici battendo l’un contro l’altro teschi, tibie e femori. In mezzo ad essi il vecchio danza insieme alla fantesca con baldanza. Le streghe sembrano le più eccitate e, ballando, cantano ritornelli osceni e, una ad una, “baciano lo culo ai diavoli nel ballo”:
Streghe tutte siam noi Che veloci correndo come vento Alla noce n’andiam di Benevento. (25)
All’improvviso ci sorge il dubbio d’esser chiamati a partecipare ai preparativi di un Sabba. Ma al dunque la visione presto scompare, e ci ritroviamo seduti sotto il noce insieme al vecchio mendicante a spartire un po’ di cibo offertoci dalle mani caritatevoli d’una perpetua. Il segno della Croce prima di toccare il cibo cancella ogni nostro dubbio, e le immagini si disciolgono nella soavità del giorno. “Chi è per voi il Diavolo?”, chiede il vecchio, dopo aver ascoltato i nostri racconti. “Le credenze sul Diavolo sono legate intimamente alle istanze magico tradizionali della cultura popolare, risponde Arturo. Il Diavolo è sempre stato un grande protagonista del folclore del nostro paese”. “Ma anche della religiosità popolare, o no?”, chiedo io. “Direi piuttosto ch’è sempre stato presente nella religione cristiana”, dice il vecchio. L’appunto sembrava arguto, per dire colto, tra la mostruosa alienazione di molti e il comodo alibi di pochi. “Potremmo dire che il Diavolo è un concetto primordiale e cosmopolita per eccellenza, che colma l’abisso tra il cosmo sensibile e quello metafisico” (26), aggiunge Arturo. “Bravo!, degno di un insegnante di Filosofia, dice quello. E se ti chiedessi che cos’è il mondo?”, aggiunse. “Direi che il mondo è un teatro nel quale il Diavolo sostiene la parte di molti e differenti personaggi”, risponde Arturo con fare giocoso. “Bravo!, dunque è intelligente?”, chiede il vecchio. “Il Diavolo è da sempre l’antitesi di Dio: si può dunque ritenerlo un essere intelligente”, risponde Arturo affermativamente. “Tante grazie!, esclama il vecchio, anch’io ritengo ch’Egli sia un genio straordinario, che ha osato provocare l’Onnipotente in duello, e che ha preferito arrostire nel fuoco piuttosto che star seduto alla mensa celeste con tutti i volgari imbecilli”. “La più bella astuzia del Diavolo, è di persuaderci ch’Egli non esiste”, aggiunge Arturo di rimessa. “Il Diavolo è la scimmia di Dio” (27), dico io, non ricordando dove avevo sentito quella frase, rivelatasi non meno ficcante di quelle filosofiche di Arturo. Al punto ché, il dialogo prese a infiammarsi maggiormente. “Il Diavolo non è poi così brutto come lo si dipinge!”, dice quello, ripetendo una frase divenuta ormai proverbiale. E come si sa, proverbio tira proverbio, rispondo dicendo: “Il diavolo è sottile e fila grosso”. E quello: “Cristo ppe le case e Ddiavolo ppe li tetti!”, secondo un noto proverbio equivalente di “se cristo è vicino, il Diavolo non è lontano”. Ed io al vecchio per le rime, come dicono a Roma: “Quanno er Diavolo te lecca è segno che vò l’anima”. Il vecchio: “Il Diavolo non disfa croci, piuttosto porta pietra”, per dire “il Diavolo stesso può servire ai disegni di Dio”. Ed io: “La farina del Diavolo va tutta in crusca”. Il vecchio: “Chi è stato a casa del diavolo sa che cosa fare”. Arturo: “Sei mesi di giorno e sei mesi di notte fanno per il Diavolo un anno intero”, a voler dire che “il tempo trascorre in fretta”. Il vecchio: “C’è sempre tempo pe’ dì bongiorno ar Diavolo quanno lo s’incontra”. E comunque, come dice un’altro proverbio romano: “Nun chiamà il Diavolo, perché sta già fora de la porta”. Si, dico io, ma: “Quanno er Diavolo nun sa che fà, se gratta le corna”. E sul più bello, proprio quando mi sembra di poter raccogliere la palma della vittoria, sento: “Statte attento, dice quello, che il Diavolo dove non può mette’ la testa mette la coda”. Lo sapevamo bene Arturo ed io, e così era stato fino a quel momento. E sebbene la disputa ci avesse distratti per tutto il tempo, bisognava chiudere la partita salutarlo il vecchio, ringraziarlo per l’ospitalità, e che so io, magari invitarlo una volta a magnà ‘na pizza da Giggetto. Arturo, che non è molto entusiasta dell’idea, dice che non gli sembra il caso, e conveniamo per ringraziarlo di dargli un semplice saluto, come si fa con un qualunque estraneo. “Orbene, giunti a questo punto, che ve posso dì, dice il vecchio, pure stavolta con la fatica delle feste il Diavolo si veste” e che, “l’elemosina ch’oggi fa, è ben investita, domani è capace de venissela a ripijà”. Tanto prima o poi, “che siano ricchi o poveri, belli o brutti, all’inferno ci si va’ tutti”. Che pensi, chiedo ad Arturo, il Diavolo sa a chi fare le corna?, senza accorgermi che strada facendo non c’eravamo allontanati affatto. Così Arturo dice a quello:
“Quando Iddio ci da la farina, ecco che il Diavolo ci toglie il sacco e ci da la sola”. E il vecchio da par suo, “Segno evidente che nun ha detto ancora l’urtima parola”.
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