Pubblicato il 21/09/2025 18:48:33
EOMA IN FABULA - CRONACA DI CITTA' / 5
TUTTE LE STRADE PORTANO A ROMA-
Sono questi i giorni in cui tutta Roma affonda nel mistero della fede. La Settimana Santa è appena iniziata con i veli calati sopra i dipinti e le statue nelle chiese, i paramenti viola degli officianti, la luce tenue delle candele, l’effluvio dell’incenso che esala dai turiboli, le voci oranti dei penitenti, la solennità del canto liturgico (28), riflesso conseguente di un intento lirico e drammatico scaturito da un’adesione sincera e incondizionata:
Hai mutato il mio lamento(..) in gioia, perché io possa cantare senza posa, Signore, mio Dio, ti loderò per sempre.
In San Pietro, “ madre di tutte le chiese”, sede dei canoni e degli ordini della cristianità, la speciale veglia funebre officiata dalla massima autorità ecclesiastica Sua Santità il Papa, funge come sempre da richiamo per le migliaia di cattolici che giungono da ogni parte, e che qui si ritrovano a parlare un unico linguaggio, in cui l’antico trova rispondenza nel nuovo, il verbo nella liturgia, la temporalità dell’esistenza umana nell’universalità dello spirito di Dio.
Hosanna filio David: benedìctus qui venit in nomine Domini, Hosanna in exccelsis.
La poderosa struttura architettonica, la grandiosa navata centrale rivestita di marmi pregiati, il geniale baldacchino bronzeo sorretto da quattro colonne tortili di rara fattura e armonia, le colossali tombe dei papi, le numerose statue dei santi e dei martiri, fanno dell’interno della basilica una traboccante scenografia che calamita lo sguardo e che culmina con un crescendo nell’abbacinante visione di luce sovrastante l’altare. Quasi a voler affermare, anche attraverso l’incorruttibile durata e lo splendore degli ori, l’immagine di eternità che si addice alla più importante basilica della cristianità:
TU ES PETRUS ET SUPER HANC PETRAM AEDIFICABO ECCLESIAM MEAM ET TIBI DABO CLAVES REGNI CAELORUM (29)
L’iscrizione latina, in mosaico dorato, posta sull’anello di base della grandiosa cupola michelangiolesca, è li a rammentare al credente ed al visitatore le parole fondamento dell’istituzione cristiana sulle quali la Chiesa si attesta come luogo d’incontro e di alleanza tra il cielo, inscritto nel cerchio della cupola, e la terra, inscritto nel quadrato di base, attraverso il sacrificio di Cristo, la croce formata dal transetto. Ma è nel baldacchino berniniano, spettacolare reinvenzione barocca della pergula che un tempo dominava la navata mediana della più antica basilica costantiniana, dove finiscono per convergere tutti gli sguardi. E l’altare maggiore sotto di esso, è indubbiamente il principale “punto di fuga” prospettico, che attraversa tutta la navata centrale, dove si svolge il rito ed agisce da protagonista il clero. È qui, che durante il mercoledì delle ceneri si celebra l’Ufficio delle Tenebre, attraverso il canto del quale, il dolore e la memoria vengono elevate alla sfera puramente contemplativa del mistero dell’aldilà; che alle rasserenanti melodie dell’Ufficio, espressione concreta e diretta del sentimento cristiano per i defunti, si contrappongono, come sempre, le componenti umane dell’angoscia e del pianto, segnate qua e la dai lampi terrificanti e dai lividi bagliori del racconto del Giudizio Universale che rendono quasi disperata l’attesa della sentenza:
Miserere mei, Deus, secundum misericordiam tuam. Et secundum multitudinem miserationum tuarum dele iniquitatem meam.
L’elemento fantastico e impressionante della raffigurazione del verdetto finale lo si può ascrivere alla macabra visione della morte. È dunque questo l’emblematico messaggio. Non c’è spazio per i toni sfumati ed elegiaci, ma solo per quelli crudi e vivaci della predicazione rivolta alla folla dei credenti, cui la nozione della caducità, opportunamente convertita dal potere religioso in deterrente psicologico e freno per le coscienze, accomuna alla transitorietà della vita, lo spettacolo orribile del decadimento di ogni bellezza:
Miserere mei, Deus, miserere mei. . .
I gesti ieratici dell’Officiante tracciano nell’aria una sorta di geometria astratta mentre i sacerdoti raccolti nel canto, danno alla cerimonia non già una mortificazione funeraria, bensì un alto senso estetico, un dotto eloquio con il sacro. Benedetto colui che viene, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli! Sopra ogni cosa: sul pianto della folla penitente, sulla figura della Madre dolorosa, dei Santi e dei Martiri, sulle statue austere degli Apostoli e i volti ieratici dei Papi predecessori, si levano misurate le voci nel canto in una sorta d’ispirazione controllata e disciplinata, che si slancia verso l’alto, e veleggia incorporea oltre ogni materiale gravezza: “chi canta annulla la distanza che lo separa dal mondo esterno, sacrifica la propria parola e quindi se stesso per farsi tutt’uno con l’azione e il credo collettivi”.
Fa che ascoltiamo, Signore, la tua voce.(..) Venite, prostrati adoriamo, Ascoltiamo oggi la sua voce. (31)
La Liturgia delle Ore iniziata con il mattutino, giunge al termine ed il Capitolo con il suo Cardinale, procede attraverso la navata centrale verso l’altare della Cattedra, ove si celebra la solenne Messa Capitolare, decorata dai canti del Coro della Cappella Giulia. Quand’ecco che la voce intrisa di mestizia del Papa invita al raccoglimento, ed il brusio cessa immediatamente. Dopo qualche istante di silenzio la voce solenne dell’officiante si leva poderosa nel Kyrie:
Kyrie eleison, Christe eleison . . .
Nell’’ufficialità della Messa la finalità liturgica è al dunque pienamente raggiunta e la preghiera, termine di confronto per l’io che ne attraversa il contenuto oggettivo di fede con un sentimento personale, è rivelata nell’elevazione del canto in tutta la pienezza del suo significato:
Gloria, laus, et honor, tibi sit, Rex Christe Redemptor: cui puerile decus prompsit Hosanna pium.
Se la semplice parola stenta talvolta nell’esordio per la mitezza o l’incoerenza dell’orante, il canto è sul nascere sostenuto dall’ardire e dalla fermezza della volontà, capace, da solo, d’imporre una qualsiasi verità, di testimoniare l’indissolubilità del proprio credo:
Credo in unum Deum Patrem omnipotentem factorem caeli et terrae visibilium omnium et invisibilium . . .
Penso che sia straordinario come l’effetto di molte voci accomunate da una medesima esperienza di culto, vivifichino intorno a un canto corale l’incontro spirituale di molte anime diverse. Come attraverso la ricostruzione di un contesto profondo, teologico e talvolta occulto, particolari incomprensibili rivelino improvvisamente il loro significato. Come ciò oltrepassi distanze cronologiche e spaziali per far rivivere miti remotissimi all’interno di un’esperienza di tipo estatico. Rimane innegabile che l’incontro che si celebra con la Messa è il frutto di una continuità incontestabile di un nucleo iniziatico attivo immesso nell’inconscio individuale e trasmesso all’insieme collettivo, quale la dolorosa esperienza della morte. L’iniziazione cristiana finisce così per sottrarsi all’esistenza ed al fluire del tempo e continua ad alimentare, pur con tradizioni diverse, una religione invasa di morte. Morti in verità lo sono tutti qua dentro: papi e santi, nel chiuso dei loro mausolei di marmo, disseminati lungo le navate e nelle cappelle. E morte sono anche tutte le statue scolpite nella pietra, personaggi d’un teatro dell’assurdo, idealizzati e sepolti nelle pareti, al pari di una necropoli di illustri, di un asilo di morti, negli immensi sotterranei oscuri e spettrali della grande basilica. La Guida, con un antipatico scilinguagnolo, la dice eretta per volere dell’imperatore Costantino sul luogo dove la tradizione collocava la tomba dell’apostolo Pietro. Dunque, la basilica Vaticana è la massima espressione della cristianità e costituisce, per bellezza, fasto e imponenza, il simbolo più eloquente della Roma pontificia, degna del paragone con la Roma caput mundi del tempo dei Cesari. Divenuta ben presto il simbolo di un’interminabile processo di accrescimento, che dalla più antica basilica paleocristiana giunge fino ai nostri giorni, vide un suo primo ampliamento urbanistico e monumentale, imperniato sulla trasformazione del Vaticano operato nel Rinascimento e nel secolo successivo, con l’acclusione dei Palazzi Vaticani, dei nuovi e poderosi “corpi” di fabbrica, del rifacimento dell’immensa piazza con le fontane e l’obelisco al centro e dell’eterno abbraccio del colonnato del Bernini. Vengo così a conoscenza che oltre alla creazione del Cortile del Belvedere e degli appartamenti papali, affrescati dai più grandi artisti del tempo fra i quali Botticelli, Raffaello, Giulio Romano, Perugino, e di Michelangelo, certamente il più grande di tutti”; che: ‹‹ venne adornata di numerosi altari e di cappelle, arricchita con molte statue di marmo ed alcuni bronzi, tra i quali è degna dell’ammirazione degli studiosi, prima ancora della devozione popolare, l’antichissima e venerata statua bronzea di San Pietro in trono attribuita ad Arnolfo di Cambio. Nonché alla giovanile Pietà di Michelangelo, alle innumerevoli statue del Bernini “come travolte da un vento impetuoso”, alla statua della Veronica di Francesco Mochi, ed alle numerose eloquenti tombe dei Papi, tra cui quella di Clemente XIII del Canova e quella di Pio VII del danese Thorvaldsen. Apprendo inoltre che la “fabbrica” dell’odierna San Pietro, iniziata il 18 aprile 1506 sotto Papa Giulio II che v’interrò dodici monete d’oro nella posa della prima pietra, non ha mai veramente smesso di operare”. “Particolare interesse rivestono le sue cinque porte: quella in bronzo che il Filarete realizzò nel 1433 per la vecchia basilica, e quella più moderna, anch’essa bronzea detta: “della Morte”, scolpita dal Manzù nel 1964. La più recente, del Minguzzi, è del 1977. Le altre due sono rispettivamente del Crocetti e del Consorti››, aggiunge. (32) Di suo, Arturo mi dice che ‹‹fu pensata e organizzata quale luogo in cui avveniva ed avviene l’iniziazione cristiana, ove si amministrano i sacramenti e si proclamano i nuovi santi e i nuovi beati. Qui, come allora, e più che mai oggi, si dispone, si emana, si esaudisce, si elargisce l’“indulgentia plenaria” sancita con il Giubileo, e che la memoria storica vuole indetto da Bonifacio VIII per la prima volta nel 1300. L’altare maggiore, “luogo mistico” per eccellenza, in cui si celebra la consacrazione dell’universo, posto simbolicamente e misticamente al centro del cosmo, sul punto di passaggio dell’asse terra-cielo, in rapporto con le strutture cosmiche fondamentali e con quelle psichiche dell’uomo che vede qui realizzata l’ascensione della propria anima spirituale. Qui, tutto ciò che non può essere spiegato con l’argomentazione, diviene percepibile, grazie all’umile evidenza che deriva dalla natura delle cose. A tutt’oggi, vi si celebrano oltre novanta Messe al giorno, da sacerdoti e religiosi di tutti i continenti, coadiuvati nel servizio liturgico dai seminaristi “chierichetti”, coloro che recano gli oggetti necessari per la celebrazione del culto. Mentre i cosiddetti “Penitenzieri”, religiosi dell’Ordine dei Padri Conventuali, muniti di speciali facoltà, dato il carattere universale del loro servizio prestano da antica data la loro opera, quali ministri della riconciliazione. Dunque, la vita liturgica è lasciata al Capitolo Vaticano che, sorto nel X secolo sotto Leone IX, è oggi composto da canonici e beneficianti, e presieduto dal Cardinale Arciprete, al quale è rimesso l’obbligo della solenne preghiera liturgica che si svolge nell’artistica Cappella del Coro. Il semplice e severo Canto Romano, il solo, unico, vero canto adibito alle celebrazioni, da al rituale della Messa latina quel sovrappiù emozionale che lascia percepire il manifestarsi epifanico del sacro, lasciando al coro di esprimere con il canto il mistero liturgico che trova compimento sull’altare, quel mundus in cui il sotterraneo si unisce al terreno e al celeste›› (33). Dalla loquacità della Guida apprendo inoltre che per tutta la durata dell’Anno Giubilare, le cinque grandi porte della basilica restano aperte per ricevere il flusso sempre intenso e ininterrotto dei pellegrini e dei visitatori provenienti da ogni parte del mondo. In passato, incaricati a questa operazione, erano i famosi “Sampietrini”, gloriosa istituzione risalente al 1500, i quali svolgevano i compiti inerenti alla tutela, al decoro e alla conservazione della basilica patriarcale. Che è durante la Settimana Santa, che ancor più si sente il respiro divino giungere ai fedeli, che “infine gli uomini, i sacerdoti, l’intera basilica e tutto il creato, sembra come sollevarsi in adorazione del Padre Creatore”. “Questa è davvero la porta del cielo!” dice ancora la Guida alla folla raccolta col naso all’insù a guardare l’immensa apertura della cupola michelangiolesca. “Imago mundi, l’immagine stessa del mondo: l’opposizione fra l’alto e il basso, fra la regione delle tenebre e quella della luce. Ricerca al tempo stesso di un centro, di una porta che conduca all’aldilà, o quantomeno ad un livello superiore, alla scoperta della segreta costituzione del mondo e dei suoi elementi, dei meccanismi che regolano l’universo. Il tutto, espresso in una costruzione sublime, immagine di congiunzione fra ciò che sta sotto e ciò che sta sopra, fra cielo, terra e Inferno. Del resto, non è forse a ciò, cui hanno da sempre anelato tutte le meditazioni sull’origine della vita? Trattasi pur sempre di una soglia nella quale si rende possibile una rottura di livello, un salto in un altro mondo, che può essere quello disarticolato dei morti, o quello trascendente dei beati, soggiorno dei vivi. La scala ascensionale che porta al Paradiso non affonda forse la base nell’abisso dell’Inferno?”. Non c’è che dire, un’argomentazione davvero encomiabile per una Guida turistica, se non avesse aggiunto dopo una breve pausa, che del resto non c’era di che meravigliarsi “ … se l’anima umana occulta i suoi segreti recessi, così come la basilica nasconde i suoi corridoi bui che si estendono sotto l’attuale livello della basilica”. “Venga! Scenda insieme a me”- mi dice una volta lasciato il gruppo che stava erudendo. E mi indica una via d’accesso ch’era proprio lì, ad un passo, sotto uno dei pilastri di sostegno della cupola. Lo seguo con timore, lasciando Arturo alle prese con la sua probabile relazione mistica. “Mi dica, anche lei è preso dalla singolare sensazione che questo silenzio impone?”, mi chiede. Non proprio, dico mentendo. In realtà sono calato in un i timore tale divenire quasi oppressivo. Il brusio di quanti affollano la basilica, l’eco ossequioso del mondo intero che sembra colmare tutti gli spazi possibili, non arriva fino alla cripta oscura, illuminata solo dal fioco chiarore proveniente dai lucernari, che si riflette sulle lastre di pietra, sui mausolei di marmo, ch’altro non sono che sepolcri senza nome, brevi resti di storia, frammenti d’un passato dimenticato, sconosciuto ai molti. “Qui siamo nell’asilo dei morti, dice, sulla soglia dell’Inferno dantesco”: . . . “Per me si va nella città dolente, Per me si va nell’etterno dolore, Per me si va nella perduta gente. (Dante, Inf. III)
All’improvviso, la sua voce diventa rauca, si fa di vecchio, risuona diabolica sotto gli spazi a volte della cripta. Avverto come proveniente da un passato oscuro una sorta d’imposizione al silenzio: come se la potenza dell’occulto unita al buio delle tenebre si fossero impossessate di me. E in breve tutto d’intorno si rivestì di mistero, di angosciosa paura. «Una sorta d’Imago Mundi rovesciato, aggiunge. Un grandioso reliquario posto al centro del mondo, il primo e il più sacro dei santuari, l’archetipo di tutti i templi, che la tradizione vuole, essere in rapporto con i dodici segni dello zodiaco e la potenza magica dei quattro punti cardinali. Quello stesso che il mondo romano aveva ricevuto dall’Etruria come mundus, dal quale è poi derivata la parola mondo. Quel mundus che altro non era che la fossa sotterranea ricoperta a volta, che si scavava come fondamenta e al di sopra della quale veniva innalzato l’altare, punto di congiunzione dei tre piani: superiore, terreno e inferiore, e che metteva in contatto il mondo dei vivi con quello dei morti. Quel mundus, il quale una volta aperto, in alcuni giorni determinati, forniva una via d’uscita per gli spiriti infernali, che ne approfittavano per risalire sulla terra» (34) Subitanei mi tornano alla mente i numerosi racconti della tradizione orale: della cacciata dei diavoli dal Pantheon, l’incontro col Diavolo in persona nel Colosseo, e la celebre satira di Isaia contro il tiranno spodestato:
“Come sei caduto dal cielo, o Lucifero, figlio dell’aurora, come sei stato gettato a terra tu, il vincitore dei popoli? Proprio tu dicevi nel tuo cuore. Salirò fino in cielo, innalzerò il mio trono sopra le stelle di Dio; mi assiderò sul monte dell’adunanza nelle estremità settentrionali. Salirò sulle alture delle nuvole, sarò simile all’Altissimo. Invece sei disceso nel regno dei morti, nelle profondità dell’abisso” (Isaia, XIV,12).
Stando a quello che la Guida dice, sembra che il Diavolo lì sotto, ci abbia piantato le corna. A dire il vero più che una Guida da la sensazione d’essere il maggiordomo occulto di quei sotterranei, che all’occorrenza ne faccia gli onori di casa. Qui apre una segreta, lì attraversa irriverente la cripta del reliquiarium, s’avvia attraverso cunicoli e corridoi, svolta improvvisamente per tornare poi nello stesso luogo di partenza, senza lasciarmi neppure il tempo di fermarmi e di riprendere fiato. Le voci dei fedeli accomunate nel Credo, che dapprima avevo udite levarsi, erano ormai non più che un ricordo. Mi ritrovo immerso in un silenzio di tenebra, in cui anche il passare del tempo sembra dissolversi ai limiti del mondo, che se scoperchiato potrebbe certamente lasciare intravedere l’antro immaginifico dell’Inferno. Pur nella volontà di non lasciarmi influenzare dalla superstizione, neppure se consacrata dai millenni, un brivido di freddo percorre la mia schiena. Ormai sapevo chi era il Diavolo, me l’aveva ben spiegato Arturo a più riprese. Sapevo che usciva dalle caverne dell’Età della Pietra, quando cioè nei pensieri e nelle idee dell’uomo aveva incominciato a svilupparsi il dualismo tra il bene e il male. Concetto che con molta probabilità era scaturito dall’evidenza delle forze naturali in lotta tra loro, in cui la Luce che da sempre fugava le Tenebre, aveva suggerito all’immaginazione come modello di due opposti che cercavano di distruggersi a vicenda. Sapevo che era da quelle tradizioni confuse e sfuggenti, che risalivano alla notte dei tempi, che si era sviluppato tutto il mondo fantastico che conoscevo, animato da un numero indefinito di esseri diabolici situati in uno stadio intermedio tra l’umano e il divino. Quelle stesse concezioni che il realismo dei Romani, che da un verso si era mantenuto estraneo alle più audaci fantasticherie della mitologia greca, dall’altro aveva accentuato in cupezza le più arcaiche tradizioni indigene ed etrusche, da cui erano poi scaturite le tante figure uni-dimensionali di mostri, come Caco: l’orco che abitava nella caverna ai piedi dell’Aventino, colui che divorava tutti i malcapitati che gli giungevano a tiro. Indubbiamente, la teoria di Arturo, rimandava a un periodo ancora relativamente arcaico, attorno al V sec. a.C., all’elaborazione delle leggi delle Dodici Tavole, rappresentanti l’insieme di consuetudini della Roma etrusco latina delle origini. In tali leggi era notevole la componente magica, sempre che fosse vero quanto in esse affermato, che:
‹‹Colui che avrà incantato le biade (..) o avrà fatto andare a male il raccolto del vicino con incantesimi è punito con la morte›› (35).
Sapevo che la credenza nella magia aveva teso a svilupparsi nell’età imperiale, quando Roma era divenuta un immenso Pantheon, dove tutte le divinità adorate nello sterminato impero ottennero diritto di immagine e di culto. Cosa che non conoscevo affatto, era invece, che secondo un’antica tradizione della Chiesa ortodossa, durante l’Impero, a Pergamo, sarebbe addirittura fiorita una sorta di “cesarolatria” che col passare del tempo era divenuto vero e proprio “satanismo”. Quello del tempio di Pergamo non era che uno dei tanti episodi di un fenomeno di straordinaria importanza, mi disse in seguito Arturo, la cui genesi e il cui sviluppo portarono, in sostanza, alla nascita del Diavolo cristiano: «Il punto di partenza, sosteneva, si è rivelato essere sostanzialmente questo: le divinità dei popoli vinti avevano la tendenza a diventare diavoli per i vincitori. Ogni divinità detronizzata da una nuova divinità decadeva così al livello di spirito malefico, costringendo i suoi più perseveranti adoratori a rifugiarsi in culti segreti, sovente perseguitati e calunniati. Il cristianesimo trionfante della Roma imperiale e cristiana non negava affatto l’esistenza delle deità pagane, né il loro intervento nei fatti umani, ma respingeva la loro natura divina, riducendole spesso alla condizione di diavoli. Il Diavolo, sosteneva, così come era conosciuto nel Medio Evo e durante i secoli successivi, non era solamente il discendente di Seth, Ahriman, Ecate, Caco e delle altre divinità malvagie del mondo antico, ma era anche figlio legittimo di Giove, Venere e di ogni altra deità classica contro i quali i martiri, gli apologeti e i Padri della Chiesa non usavano mezzi termini».
‹‹Come ammoniva Tertulliano, narra ancora la Guida, se i vostri dèi non confessano di essere dei demoni alla presenza di un vero cristiano, noi consentiamo che voi spargiate il sangue di questo cristiano. (..) Il dio delle età antiche, calunniato, ridicolizzato, fu trasformato ben presto in un Diavolo sogghignante, mentre la forza e la fede del mondo primitivo furono ricondotte a interpretazioni infamanti. Un’iscrizione recante la data del 514, in memoria di un tempio pagano in Siria, cambiato poi in chiesa cristiana, riassumeva i drammatici mutamenti che avevano sconvolto in modo irreversibilmente i miti dell’età classica: “Divenne casa di Dio quello che era albergo di demoni: la luce salvatrice rifulge, ov’era nascondiglio di tenebra; ov’erano i sacrifizi degli idoli ora sono i cori degli angeli; ove Dio era irato, ora Dio è pietoso”›› (36)
Grazie davvero a Dio, il coro riprende a farsi sentire fra le basse volte della cripta, in un maestoso Gloria. Certo che fra un istante avrei ceduto allo stordimento dell’oscurità. Mi scuso con la Guida ed arranco verso un punto di luce poco distante, per recuperare l’uscita. “Cosa le accade? È sicuro di sentirsi bene?”, mi chiede un’anziana donna dall’aria aristocratica ricurva su se stessa. Porta un velo nero di pizzo sulla testa che le scende lungo le spalle quasi fino a terra. “Si, si non è niente”, le rispondo, più per educazione che per altro. “Ma lei ha bisogno di tirarsi un po sù, è pallido come la morte!, sembra spaventato, neanche avesse visto il Diavolo in persona! cosa le è capitato figliolo mio?” Almeno qui penso di essere al sicuro, di non correre rischi, dico tra me. “Non v’è chiesa dove il Diavolo non abbia innalzato una propria cappella”. “Non mi dica che anche qui? . . . .” “Eccome! dice quella, è sotto gli occhi di tutti, proprio li, sulla navata opposta. Non si lasci dominare dall’ineffabile sensazione che l’arte talvolta suggerisce, segua l’istinto e vedrà ciò che dev’essere visto, e udrà ciò che dovrà essere udito. Il percorso non è quello previsto, l’intuizione non conosce ordine, né la compiutezza dell’opera d’arte. C’è li una grande porta, chiusa da sempre alla curiosità dei molti, dove la morte fa mostra di se. Dia ascolto a me, che sono vecchia, vada pure a vederla, ma eviti di oltrepassarne la soglia. Si dice che chi passa da quella porta non debba più fare ritorno. Tutti lo sanno”. “Non mi dica che lei crede al Diavolo?” “Io si, e sa qual’è la migliore astuzia del demonio? È di persuaderci che egli non esiste. Arrivederci caro!”, dice, e facendosi più volte il segno della Croce, si dirige lentamente verso l’uscita. Neanche a dirlo!, la cosa mi incuriosisce talmente che vado immediatamente a sbirciare dietro la grande porta chiusa della Cappella dei Colonna, sormontata dal monumento ad Alessandro VII di Gian Lorenzo Bernini. In verità non mi sembra così inquietante, la tenera carnosità con cui sono realizzate le figure umane sottolineata dal connubio con le policrome incrostazioni marmoree del bianco e nero del lapis aquitanicum, dalle venature sanguigne del diaspro di Sicilia con cui sono realizzati gli enormi, pesanti cortinaggi dalle pieghe ribelli, da forma ad un insieme di figure nobili: la Verità, la Carità, che sono poi gli interpreti del simbolismo funebre, prezioso frutto della migliore arte scultorea. Neppure la Morte, rappresentata dallo scheletro che agita la clessidra del tempo, a mio parere, è poi così apocalittica. Non saprei dire perché, ma vengo preso dalla tentazione di aprire quella porta. Suggestionato come sono dalla raccomandazione dell’anziana signora, non lo faccio, non posso farlo, me ne manca il coraggio. Di certo quella porta rappresenta un’attrazione alla quale mi è difficile sfuggire. Nel frattempo la Liturgia è terminata, e già i numerosi fedeli ed i visitatori s’avviano verso l’uscita. Cerco insistentemente tra la folla la Guida, ma senza rintracciarla. Penso possa essersi dilungata nella visita dei sotterranei. E senza raccontare nulla ad Arturo, che preoccupato mi viene incontro, faccio finta di niente, tuttavia senza perdere d’occhio, neppure per un istante, l’entrata dei sotterranei, pensando, prima o poi, di tornare a visitare. Fingendo una semplice curiosità, propongo la cosa ad Arturo, il quale repentinamente mi dice che non ne vale la pena. A meno che ci lascino visitare il martyrium, sorto sul luogo ove fu seppellito l’apostolo Pietro, in ragione del fatto che il sepolcro, stando a più recenti indagini archeologiche, era stato confermato, essere incluso nell’area degli orti di Nerone, frutto dei suoi più recenti studi. “Proprio come il Diavolo e l’acqua santa! Eh, i vecchi proverbi!”, esclamo. L’innesto, a mio parere, ha dell’incredibilmente eppure così verosimilmente non lontano dal vero. I recenti scavi e le numerose testimonianze grafiche, hanno infatti permesso agli studiosi di fissare proprio sotto la basilica cristiana, i resti d’una necropoli più antica. È così che ci intrufoliamo nell’entrata del sottosuolo, senza essere visti. “In questo luogo si può udire il sussurro divino dell’antica divinità e l’emanazione del suo fluido benefico”, aggiunge Arturo una volta entrati nelle grotte. “Credo tu stia rasentando il blasfemo”. “No, è la tradizione che lo afferma, sebbene permanga un certo margine d’incredulità. L’origine del nome Vaticano è variamente riferita dagli antichi. Aulo Gellio ne discorre espressamente nel 17 capitolo del XVI libro: Apprendiamo – da quanto egli scrive - che «tanto l’agro Vaticano quanto il dio che presiede questo agro traggono il loro nome dai vaticini, i quali sogliono avvenire per la potenza e l’ispirazione di quel dio in quel territorio. Nella stessa guisa del dio chiamato Aius (Locutius), al quale fu decretata un’ara, a testimonianza che in quel luogo si era udita la voce divina, in seguito attribuita al dio Vaticano che da nome al colle, presso del quale, voleva la tradizione antica, avevano inizio le voci umane. Allo stesso modo Vaticanum sarebbe derivato da vaticum o Vatica, nome primitivo della regione situata sulla riva occidentale del Tevere di fronte al Campus Tiberinus, detto poi Martius. È probabile che vaticum fosse un pagus i cui abitanti si dedicavano particolarmente alla estrazione dell’argilla dai monti circostanti e forse anche alla sua lavorazione nella forma di vasi e tegole, ponendo il lavoro sotto la protezione di un dio, il suo nome si pensa non fosse di origine latina»(37) beh in quanto al “diavolo e l’acqua santa” forse hai ragione tu, ammette Arturo, per il fatto che proprio qui, nei giardini vaticani, Nerone, in quanto “diavolo”, diede uno spettacolo iniquo e terrificante, allorquando, per allontanare dal suo capo l’accusa popolare di aver appiccato il fuoco alla città, condannò un certo numero di cristiani e li fece bruciare vivi a guisa di torce. Qui, secondo la versione più accreditata del suo martirio, subì anche il martirio il principe degli apostoli. I primi cristiani, a guisa “d’acqua santa”, riscattarono questo luogo ove Costantino fece costruire in seguito all’editto da lui stesso emanato, l’originaria basilica di San Pietro. Negli scavi effettuati sotto di essa infatti, sono stati rinvenuti i muri di fondazione della basilica costantiniana, insieme ad altri resti d’una necropoli romana, a ridosso, del più antico Circo Neroniano. Si deve proprio al ritrovamento della tomba del principe degli Apostoli se questo luogo assurse alla più alta importanza storica e divenne il centro della Roma medievale e in seguito di tutta la cristianità. La voce popolare attribuisce a questo luogo anche il nome di “fossa del diavolo” sulla quale il Cristianesimo simbolicamente, ha posto una pietra, l’immensa lapide marmorea della basilica, che con il suo enorme peso, vi fa da coperchio, non permettendo la fuoriuscita dei demoni e degli dei dell’antichità». “A Roma c’è chi afferma che il Diavolo abbia un suo passaggio segreto attraverso i sotterranei delle Grotte ed abbia libero accesso nella grande basilica. In realtà, stando alle testimonianze di quanti hanno eseguito i lavori, al di sotto delle vecchie Grotte, si parla soltanto di mausolei contenenti sepolcri: “fu trovato solo in mezzo una bella stanza a modo di cappella con fenestrini et porte con pitture, diversi animali, nottule et molte ossa et parte in sepolcri di creta cotta et parte in busci dentro li muri” (37); di cappelle dipinte e sarcofagi preziosi: “uno bellissimo, tutto con figure fra i quali era Bacco con l’uva in mano” (38). E inoltre: “una lastra marmorea che ricordava un tale Ursus giocatore di palla che aveva suscitato il clamoroso entusiasmo popolare nelle sue partite alle terme di Traiano, di Agrippa, di Tito e di Nerone. (..) . . .e non so quanti pili, ossia olle di terra cotta piene di cenere et ossa bruciate contenenti una moneta. Essendo in essi scolpite alcune figure togate con libri, e scritture in mano, ed altri inghirlandati, si suole credere fossero sepolcri di filosofi e poeti” (39). Che stiano ancora li a bruciare nel rogo della Biblioteca di Alessandria? Penso tra me, rammentando una vecchia supposizione. «Altre testimonianze indigene sono pervenute a noi in epoche diverse, fra cui il ritrovamento di numerose are dedicate alla Magna Mater. Fra le molte iscrizioni rinvenute, una “in lode della vita epicurea”» (40). Oltre a tracce di pavimenti a lastrine marmoree, vi figurano grandi nicchie arcuate, disposte due a due. Sulle volte e sulle pareti rivestite d’intonaco e dipinte a fondo rosso, vi sono rappresentate divinità egizie e scene mitologiche. Al loro interno vennero trovati sarcofagi di rara bellezza con rappresentazioni del «trionfo di Dioniso sul carro, preceduto da un gruppo di Menadi, di Satiri con Pan e Sileno, che fanno visita ad Arianna addormentata”. Sul suo coperchio: “v’è poi il turbinio d’una danza bacchica, con Sileno sull’asino, e l’offerta dell’incenso ed il sacrificio d’un capro”(41). In un altro, Dioniso è coperto da una pelle di cervo, col tirso e il cantaro per dar da bere alla pantera che gli sta ai piedi; ai suoi lati stanno alcuni satiri che offrono al dio pampini e festoni di fiori, e poi uccelli, gazzelle, pavoni, crateri, cesti di fiori. In un altro ancora, appaiono maschere sceniche e strumenti musicali. Ed anche un Mitra che uccide il toro sacro; e Hypnos con ali di pipistrello, i Dioscuri, i Dei Mani, Elios col nimbo radiato sul carro tirato da quattro cavalli, figurazioni maschili in toga, e femminili in palla, disposte su piccole basi; e Venere che sorge dalle onde marine sorretta da due tritoni, un ariete, due colombe col ramoscello d’ulivo, e quella ch’è forse la primitiva immagine musiva del Buon Pastore, a testimonianza del passaggio della necropoli all’eredità cristiana. “Non esiste altro luogo in cui siano riunite insieme, anzi sovrapposte e concatenate, tante testimonianze di vita, tante pagine di umane vicende, tanta dovizia di monumenti, come in queste sacre grotte vaticane”, aggiunge Arturo. “Sbaglio o si dice che il Diavolo presiede a tutte le funzioni più importanti, e che tira degli scherzi “da prete” agli stessi prelati, mettendoli in disaccordo, facendoli morire durante lo svolgersi delle cerimonie religiose. Sembra, ma la cosa non trova conferma alcuna, che stia preparando una “gran sortita” per il prossimo Giubileo del 2000. Si dice di un gran Sabba di fine millennio, in attesa dell’Apocalisse annunciata, allorquando, gli antichi dei faranno ritorno, e con loro, prenderanno “anima” le maschere dell’immaginazione mitica, gli animali trasfigurati nei mostri della fantasia:
“Er Diavolo in persona scoperchiata ch’avrà quela gran fossa er via darà ar popolaccio suo d’accaparrasse l’anime più che nun possa. Allora le streghe e li diavoli a mijara s’envoleranno da tutto er mappamonno e sopra a quela cuppola ce faranno un girotonno. Le fiamme abbruceranno tutt’attorno e prima che se facci ggiorno la città eterna spofonnerà drento de la fossa come ne la gola d’un vurcano che manco a fallo apposta la risputerà in faccia ar destino. Mo io dico sor Padreterno mio nun famo che pe’ buttà la coccia buttamo via puro er cacio-pecorino che si hai penzato de scolà la pasta accertete prima che sia cotta. E armeno ariccoiece co la schiumarola sinnò annamo tutti a ffinì drento ar bucio der lavandino”. (42)
In una variante popolare è anche detto:
“Mo io dico sor Padreterno mio nun je da sta vinta a quello dije che ‘n quanto a mette fine ar monno mbè, ce dovesse pensà un momentino. Nun fa come quer Papa d’ Anagni che pe scansà la faccia anzichè uno de schiaffi infin ne prese due. Così che da la sedia gestatoria agnede a ffinì sotto ar tavolino”. (43)
E in un altra ancora: “Mo io dico sor Padreterno mio nun famo come fece quell’antra faccia tosta che quanno ce parlava da la loggia e ce chiedeva de fa li sacrifici faceva de tutta l’erba un fascio e che a la fine fece bisboccia co le idee sue e co’ la carne nostra. Stamm’assentì, perdonace armeno pe sta vorta, nun fa er solito fijo de na mignotta”. (44) . . . “Ma il Diavolo chi è, voi lo sapete?”, ci chiede Onorio il figlio del notaio che, casualmente passa non proprio per caso. “Come ti viene in mente di nominare il Diavolo qua dentro?, gli chiedo, me l’hai fatto prendere piccolo lo spavento. È mancato poco che mi cacassi sotto”. Arturo esordisce invece con una battuta per niente spiritosa: “Il diavolo sono me!”, dice girandosi di scatto con l’accendino acceso sotto il viso. “Ma che ci fate qui? Vi andrebbe di assistere ad una rappresentazione liturgica?”, ci chiede Onorio. Arturo ed io ci guardiamo con l’intesa di accettare l’invito e tutt’insieme usciamo dalla cripta, attraverso un passaggio che ci riporta all’aria aperta. Roma, raccolta nell’effimero abbraccio del colonnato barocco, accecata nello sfolgorio della luce, ci accoglie intrepida, quando attraverso l’ampia scala del Palazzo Apostolico ci ritroviamo in una immensa sala tutta d’oro e specchi, col soffitto arricchito di bassorilievi a stucco. Sul fondo a fare da sipario, un drappo di velluto rosso, dello stesso colore delle poltroncine settecento che allineate occupano la sala. Numerosi candelabri sporgono dalle pareti e le mille e più candele accese creano uno straordinario effetto d’acqua e di merletto. Gli addetti in livrea rossa e galloni d’oro ci fanno accomodare in una fila più arretrata. Onorio ci lascia: “per ritrovarvi più tardi”, dice, mentre arrivano gli altri invitati. Ben presto la sala si riempie di un vociare sommesso con qua e là sprazzi di risa femminili. Ogni cosa si svolge secondo un preciso cerimoniale consolidato: i musicisti e i solisti del coro tirati a lustro, e gli Ospiti onorari: alti prelati, dignitari di corte, ambasciatori accreditati, dame della più referente aristocrazia romana. Una festa di colori e di luci, degna di quel “gran teatro del mondo” ch’era la Roma artistica del manierismo barocco e dei trionfi; la Roma sacra e profana delle cerimonie e dell’”indulgentia” giubilare. La città effimera degli apparati e degli spettacoli, quella Roma eterna della Chiesa trionfante e della spiritualità religiosa. La Roma del potere e della politica più bieca, mi viene tosto di pensare, ma ecco che il Cardinale vicario prima di prendere posto sull’unica poltrona con braccioli, saluta i presenti con un ampio gesto della mano, ripreso, quasi volesse dare ad esso prosieguo dal direttore dei musici che, pieno di venerazione per la tradizione passata, ma anche desideroso di esprimere i propri sentimenti, la propria sensibilità, da avvio all’ “Oratorio per la Settimana Santa”. Un’opera informale che risuona nelle nostre orecchie come un esercizio spirituale intento ad incrementare il fervore religioso. “Niente di più, niente di meno!”, dice al vicino l’elegante anziana signora seduta davanti a noi. Qualcosa mi dice di averla già incontrata, di aver già fatto la sua conoscenza, sebbene sul momento non ricordo quando, e dove. Il soggetto dell’opera è, neanche a dirlo: “La crocifissione di Cristo” inerente alla Settimana Santa, del resto già citata nel titolo, suddivisa in due parti. Una prima incentrata sulla figura di Barabba con Ponzio Pilato che, dichiarata l’innocenza di Gesù, si lava le mani e concede alla turba acclamante la libertà di Barabba. Nella seconda entra in scena il Diavolo e la sua schiera infernale gioiosa e sghignazzante per l’approssimarsi della morte del Cristo. Mentre sul finire, al di sopra delle risa dei Demoni, la voce della Vergine Maria, resa lamentosa dal pianto, s’ode chiedere: “Cieli, stelle, pietà!”, i Demoni sopraggiungono a dare la tremenda conferma dell’avvenuta morte del Figlio. È qui che Maria da inizio alla sua lunga lamentazione: ”Tormenti non più”, che è forse la parte più alta dell’opera. Il coro finale, detto “Madrigale ultimo” nel manoscritto medesimo, offre un commento alla lamentazione di Maria ed una soggettiva interpretazione della crocifissione, col preciso scopo di smuovere la compassione degli ascoltatori. Il manoscritto, entrato a far parte della Collezione Barberini nella Libreria Vaticana, indica il nome di Giulio Cesare Raggioli quale maestro da camera di Taddeo Barberini, Principe di Palestrina e nipote di Papa Urbano VIII. I dialoghi, per lo più espletati in chiave recitativa dai solisti e dall’insieme del Coro, in rappresentanza dell’insieme di più personaggi e degli stessi spettatori partecipanti all’azione rappresentano quanto di più nobile e artificioso abbia prodotto l’intelletto umano. leggiamo un estratto dalla prima parte:
“Oratorio per la Settimana Santa” (45) Turba: Barabba a noi si dia! Pilato: Barabba il seduttore, l’omicida rapace, fatto da voi per tanta grazia audace, vedrassi ancor di nuovi falli autore? Ché purtroppo a le colpe ampia è la via e ‘l fallire e ‘l peccar mai non s’oblia. . . . Un Demonio: Il fatto è di te degno e ridir’ non ti sia greve quanto deve al tuo merto il nostro regno. . . . Demonio: Respirate, atre caverne, là nel baratro profondo; non più,no, lagrime eterne faccian’ mare al basso mondo! Gioite, o mai gioite, voi che laggiù nella tartarea stanza già per antica usanza non altro mai che lagrimar’ sentite. Gioite, o mai gioite. . . . Coro di Demoni: Morirà, morirà! . . . Demonio: Di stupor’, di meraviglia inarcate le ciglia, O sempre al mal’ compagni e spiriti rei, ch’oprar più non potea l’ingegno e l’arte, 119 si che fra neri inchiostri e bianche carte vivran’ vita immortale i gesti miei. Colui ch’al mondo uscì per debellar l’inferno, ond’ho rossore eterno, sin Pluto la fronte impallidì: pria che tramonti il dì, de’ suoi fasti la luce in fumo andrà. Morirà, morirà! . . . (estratto dalla seconda parte) Vergine: Cieli, stelle, pietà! Demoni: Chi si fè prole divina, chi di noi gli oltraggi ordì già nel suol la fronte inchina, già per lui s’eclissa il dì. L’inimico Nazzareno, dei viventi la beltà, sovra un legno venne meno, catenato a un tronco stà chi da regi adorato un tempo fu. Vergine: Tormenti non più! Misera, e quale io sento, trionfator contento, con urli e con sibili, con gridi orribili, con voci di scherno, rider gl’ abissi e festeggiar l’inferno e degli orrendi chiostri dell’estinta beltà pregiarsi i mostri? (. .) Cieli, stelle, pietà d’una madre dogliosa, lagrimosa, ch’a soffrire tanto martire già perduto il suo cor, più cor non ha. Cieli, stelle, pietà! . . . Vergine: E tu, figlio, perché? 120 Se per me, e col ferro e col legno il ciel d’accordo, con oltraggiose note, alle preghiere mie, chiamato, è sordo, come esser’ può che tua pietà infinita te comporti deriso e me schermita? Deh, come esser mai puote che tu, figlio, acconsenti che sotto rio flagel’ d’aspri tormenti, se tanto ardir’ mi lice, figlio, ch’io sia tua madre e sia infelice? Errai, ah, figlio, errai! Se pur mai cader’mai può nella tua madre errore errò d’amor dendato il mio dolore. (. .) (Madrigale ultimo). Piangete occhi, piangete! Dolori, tormenti, crescete, ché per un Dio che langue, per un figlio che more, che versa per amore un mar’ di sangue, è poco ogni tormento, ogni dolore. O d’eccelsa pietà nobile insegna, ch’ai suoi seguaci il vero calle addita di vincer morte e d’eternarsi in vita e lacera n’insegna che per salir’ di vera gloria al trono e le pene e i martir’ le pene sono”.
È ancora il Diavolo medievale a venirci incontro, scontroso e inimico, temerario e imponente, personificazione dell’avversità, della sofferenza, della sventura, simbolo dell’eterna sconfitta che attende ogni sforzo umano, della morte che a nessuno perdona, che giganteggia nei lunghi secoli della miseria e della paura. La loquacità del testo, appartiene al sentire popolare, seppure elevato a colto, al quotidiano fervore della vita, al terrore istintivo della morte. Il pianto della Vergine, a confronto, è intenso ed estremo, tipico della madre terrena, non mistica, pregna d’amore. Dunque è l’amore la chiave che apre lo spiraglio di luce che s’apre nel buio di tenebra che avvolge tutta l’opera, e che, pur riconducendo la memoria allo Stabat Mater delle sacre rappresentazioni, aggiunge all’intento mistico della preghiera medievale, la spiritualità più elevata dell’Oratorio, entrato nel tardo Seicento a far parte del dramma liturgico. . . . Ne Arturo, ne io, riusciamo a individuare Onorio, che quasi certamente è nascosto fra la schiera dei Demoni esultanti. Non saprei dire perché ma l’idea che sia un diavolo mi piace non poco. E come si sa: la prima, è quella che conta. A detta della sora Rosa, Onorio, “…nun è che fusse proprio er fijo der notaro, ma jera stato affidato da piccolo, da un certo prelato: che fusse fijo suo?! Io, nun lo sò. E sinnò come avrebbe potuto seguì li studi come l’ha seguiti? Come avrebbe potuto frequentà come frequenta? Sa, la gente parla e sparla, e certe vorte, come se dice: “voce de popolo voce de Ddio”. Però c’è da dì, ch’è un regazzo a modo, arispettoso, saluta sempre, e all’apparenza pare che je vada sempre bbona. Der resto “canta”, beato lui. Senza malizia, ch’avete capito, canta ner vero senso de la parola”. Dopo l’applauso di rito, del resto molto discreto, ci alziamo e ci disperdiamo nell’ampio salone decorato. Onorio, si fa attendere, così approfittiamo del rinfresco. Il vociare colma ogni spazio udibile, mentre gli specchi restituiscono il continuo spostarsi degli invitati come fosse un ballo fluttuante e sensuale in mezzo al tremolio delle fiammelle. Chi l’avrebbe mai pensato!, dico io, che qui, proprio qui, in questo luogo ritenuto sacro, avremmo assistito alla rappresentazione del Diavolo. Che il Diavolo in persona potesse affacciarsi da quegli specchi? Era probabile. Comunque, nessuno avrebbe badato a lui, se fosse sopraggiunto e se si fosse mescolato agli invitati. Di questo almeno potevamo stare certi. Poiché tutti sembravano essere presi da altra occupazione, inclusa quella di vezzeggiare gli interpreti, tutti maschili, dell’Oratorio. «Sebbene già nell’Antico Testamento, dice Arturo tra un pasticcino e un calice di prosecco, la componente diabolica risulta relegata alla sola figura del Diavolo, pur se non proprio così evidenziata, è nel Nuovo Testamento che egli acquisisce quell’autorità a lui stesso sconosciuta, e diventa il capo delle forze coalizzate del male, l’Avversario per eccellenza, Signore di una concreta realtà terrena. Realtà che va intesa in senso relativo, poiché ripresa dalla tradizione orale, e alimentata periodicamente da un’esperienza vividissima, diretta, che dobbiamo immaginare come una catena lunghissima fatta di racconti, di confidenze, di chiacchiere, tutte facenti parte di un nucleo di memorie che potevano essere riattivate e trasmesse. Del resto l’esistenza di una vera e propria continuità orale sembra innegabile. Lo dimostrano i fatti della storia. E non solo della storia della chiesa cristiana in cui le credenze sul Diavolo si legano intimamente alle istanze magico - tradizionali della cultura popolare. E in specie, in quelle riprese dal folclore contadino, in cui il Diavolo è quasi sempre presente, a volte direttamente, a volte per interposta persona, nelle ricette magiche, nelle pozioni, nei filtri, negli scongiuri, nei malocchi, nei proverbi, nei motti e nelle ballate, ma anche nelle leggende e nei miti che ci giungono da spazi e tempi remotissimi. Nell’ambito dell’inconscio individuale si può anche immaginare che tutte queste cose rivivano nell’esperienza umana, combinandosi con tradizioni diverse, che sono finite per alimentare una religione popolare impostata sull’aldilà e la paura della morte» (46) “Per avere sotto gli occhi un Diavolo veramente degno della sua fama bisogna risalire all’Anno Mille, dice ancora Arturo preso dal sacro fuoco dell’eloquenza, quando sull’umanità incombeva la tremenda profezia che mai si fosse intesa, quella dell’Apocalisse: ‹‹Dopo mille anni dall’apparizione del Verbo, l’antico Serpente darà l’ultima battaglia alla città di Dio” (Giovanni - Apocalisse). Ma i calcoli risultarono sbagliati e scoccata la mezzanotte del 31 dicembre di quell’anno, l’umanità tutta tirò un sospiro di sollievo, anche se non mancarono in seguito altri profeti di sventura”. “Buon per noi che il Diavolo non sapesse contare!”, dissi scherzosamente. “Potrebbe essere che l’umanità non sapesse contare”, dice stentoreo un frate canuto col naso adunco, che s’inserisce nella conversazione. “Del resto, l’umanità non è mai stata capace di fissare la data dell’inizio del mondo. Non è forse così? Chissà che ciò ch’è detto nell’Apocalisse di Giovanni non possa verificarsi in quest’anno Duemila”. Arturo mi guarda dubbioso, come di chi non pensa di portare avanti la conversazione, e si volge a guardare con la stessa espressione il frate. Colgo l’attimo per dire: “Giusto in tempo per il Giubileo, sarebbe un’occasione proprio da non mancare”. E mai credo che la mia entrata sia più infelice. Il frate ride, e Arturo trova sconveniente la sua risata rivolgendogli una smorfia di abnegazione. Come per dire che era pronto a dialogare con chicchessia: “fosse pure col Diavolo in persona”. “D’altra parte, dice Arturo volendo dare al frate quello che secondo lui gli spetta, questa bagarre del Diavolo sghignazzante e sporcaccione, urbano e contadino, laico e religioso, che s’inserisce nella vita quotidiana, e che circola liberamente senza essere disturbato tra la folla, nelle chiese, nei “conventi” rimarcando con la voce, nei confessionali, nelle università e nelle dotte accademie; questo Diavolo che si arrovella nell’inventare tormenti e tentazioni, va detto, è sempre stato abbastanza simpatico. Nella tradizione popolare poi, è un personaggio familiare, quasi umano e comunque molto meno terribile di quanto lo si dipinga, tanto è vero che nelle narrazioni orali di quasi tutti i paesi si riesce abbastanza facilmente a metterlo nel sacco”. “Nella realtà non è proprio così, dice il frate. C’è soltanto l’imbarazzo della scelta, che il Diavolo mostra di possedere una fantasia e una flessibilità strategica a dir poco straordinarie. Ora spinge verso penitenze esagerate per fiaccare la carne e impadronirsi più facilmente dello spirito, ora induce a prolungate astinenze ben sapendo che, dopo un digiuno eccessivo, si pecca di gola; una volta obbliga alla preghiera per privare del sonno, un’altra volta fa “steccare” il devoto mentre canta messa. E l’assalto vero e proprio è basato soprattutto sulla lussuria: e non può fare a meno di popolare il mondo dell’orazione, della penitenza, del digiuno, di immagini lubriche o di polluzioni notturne. Ma contrariamente a quanto si pensa, nella mentalità comune, la paura che da sempre egli incute è associata all’attesa della fine del mondo”. “E mai la fine del mondo fu così vicina come nell’Anno Mille. Dice il frate. Si vuole che in ambito religioso si prendessero importanti decisioni nell’intento di restituire alla Chiesa la sua primaria funzione spirituale e salvifica, ciò che disturbava fortemente i disegni del Diavolo. Così, questi, mise in atto il più forte attacco che la Chiesa avesse mai subito: era allora Papa Silvestro II. Il suo pontificato coincise con il passaggio dal primo al secondo millennio, considerato dai cristiani cruciale, per effetto dell’apocalittica medievale fomentata dal Diavolo e teologizzata dal profetismo. Le riforme papali ed il voler moralizzare il clero corrotto, scaturì in un conflitto epocale e si risolse a favore dell’aspetto temporale a scapito di quello religioso che finì per ostacolare l’autorità pontificia. La tradizione vuole che Silvestro fosse punito da Dio perché astrologo, “negromante e stregone”, che lo fece morire di febbri malariche, o forse assassinato, e che tuttora non gode del giusto riposo. Sembra che la sua tomba emetta una specie di sudore ogni qualvolta un papa stia per morire”. Arturo e io sgraniamo tanto di occhi e ci guardiamo increduli. Ma ancor più il frate dice successivamente, quando parla del Diavolo incarnato in Papa Bonifacio VIII, che volle dimostrare in maniera evidente come la Chiesa esercitasse un potere superiore ad ogni altro. “Egli non solo volle annullare l’opera del suo predecessore, Celestino V, che con Bolla papale del 29 settembre 1294 aveva indetto la grande “perdonanza” aquilana:
«Celestinus episcopus, servus servorum Dei. . assolviamo dalla colpa e dalla pena conseguenti a tutti i loro peccati commessi fin dal battesimo, quanti sinceramente pensati e confessati saranno entrati nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio … »(47) Il quale anche per questo fu costretto a pronunciare il rifiuto, sembra, dall’allora abile e astuto cardinale Caetani, guarda caso divenuto poi Papa, col nome di Bonifacio VIII. Il Diavolo dunque, fomentò i molti discepoli di Papa Celestino V, per convincerlo ad un ripensamento. E, al tempo stesso, si adoperò per innescare in Bonifacio l’alterigia e la simonìa, manifestate poi negli atteggiamenti e ancor più nella sua politica. Non a caso Dante, degno figlio del Diavolo, gli assegnò un giusto posto all’Inferno quand’egli era ancora in vita”.
Che sia andata proprio così, com’egli dice? Non ne siamo molto convinti. Tuttavia Arturo ed io prestiamo orecchio alle sue dicerie di frate:
“Quando Bonifacio riseppe la cosa, riprese egli a dire, allontanò immediatamente Celestino e lo fece rinchiudere nel castello di Fumone in condizioni molto dure e disagiate che segnarono il suo fisico. Un anno e mezzo di prigionia fu sufficiente a farlo morire. Bonifacio allora ordinò l’immediata restituzione della Bolla e soppresse l’Ordine dei Celestini, adducendo che il facile perdono delle colpe avrebbe dato occasione di generale lassismo a delinquere, e avrebbe indotto alla rovina delle anime, piuttosto che alla loro salvezza. Ed arrivò fino ad annullare la validità e la concessione stessa dell’indulgenza: «Ex nunc revocamus, cassamus, annullamus et irritamus omnino».(48) Senonché, Bonifacio non riuscì ad ottenere la consegna materiale della Bolla, in possesso della municipalità laica, né riuscì ad invalidarne il contenuto del diritto, perché, secondo i principi fella romanistica medievale, esso si riteneva incorporato, tutt’uno, nella stessa “cosa” del documento. Passati tre mesi, il 18 novembre del 1295, Bonifacio ancora più irritato, pronunciava un’allocuzione di condanna, verso tutti i fedeli che avessero partecipato alla perdonanza aquilana, lanciando la formula solenne della scomunica. Ma la “perdonanza” era, per così dire, entrata ormai nell’idea della chiesa universale, e Bonifacio VIII, nel 1300, per acclamazione di popolo, la estese alle basiliche romane, inaugurando così il primo Giubileo della storia”.
La loquacità del frate ha dell’incredibile, riesce a mettere le parole una così vicina all’altra che è impresa non facile interromperlo. Tuttavia, va detto, il suo dire è chiaro, fluttua alle nostre orecchie come una litania sommessa e fervente, alla quale non si può non dare ascolto. L’invenzione della cerimonia giubilare ci era nota per aver letto e riletto “Roma sacra e Roma profana” di Marcello Fagiolo” (49), sebbene il frate ce desse una sua personalissima versione, non priva di risentimento. Che sia un Celestino? Non oso chiederglielo. “È solo nel ‘500, che il Papa Alessandro VI deliberò l’istituzione di una Porta Santa nella basilica di San Pietro a cui trasferire il ruolo prestigioso che per secoli aveva svolto la “porta aurea” di S.Giovanni in Laterano”.(..) “Narra il Burcardo come, pochi giorni prima dell’inaugurazione del Giubileo (..) il papa si affannasse a far ricercare la Porta Santa presso la cappella della Veronica e non avendola trovata ne fece costruire una in sei giorni, abbellita da una larga cornice intagliata. I pellegrini entrando avrebbero subito incontrato l’altare della Veronica, la reliquia più venerata dalla Cristianità. (..) Nella notte di Natale del 1499, il papa con un semplice martello da muratore dette tre colpi per abbattere il muro e poi varcò per primo la soglia: dopo il Papa sarebbero passati i prelati e il popolo dei romani e forestieri per guadagnare l’indulgenza plenaria. Nell’orazione del Papa, nelle preghiere e nei canti dei fedeli, si faceva riferimento esplicito ai significati essenziali del rito, che fu in seguito perfezionato da Clemente VII: si ricordava Mosè, istitutore del giubileo ebraico, si accennava alle “porte di giustizia” e all’ingresso nel regno dei cieli”.
“Roma in quei tempi, dice Arturo, appariva agli occhi dei pellegrini una città nobile e sacra, la porta stessa del cielo, donatrice di grazie spirituali. Di tali sentimenti era possibile trovare testimonianze ingenue ma sincere nei canti coevi in cui era espressa tutta la meraviglia e la gioia, la reverenza e l’entusiasmo nutriti per questo luogo. L’apertura giubilare delle porte coincideva allora e tuttora coincide con l’apertura del Tesoro delle indulgenze. Nella bolla giubilare del 1599, Roma veniva proposta come Città Santa: “Venite figli, salite al luogo che ha eletto il Signore (..) qui si trova la pietra della fede, qui la fonte dell’unità sacerdotale, qui la dottrina dell’incorrotta verità, qui le chiavi del Regno dei Cieli e la somma potestà di legare e sciogliere; qui, infine, quel tesoro inesausto delle sacre indulgenze della Chiesa del quale custode e dispensatore era il Romano Pontefice” (50). Già nel rito cinquecentesco di apertura e chiusura della Porta Santa si intonava l’inno Urbs beata Hierusalem in cui la basilica vaticana veniva identificata con tutta la città papale e questa, a sua volta, con la città celeste. “La semplice deposizione sulla soglia delle monete d’oro e d’argento induceva gli esegeti a vedere nel muro che chiude la Porta Santa l’immagine delle mura della Gerusalemme celeste adornata di pietre preziose. (..) A partire almeno dal 1550 il muro della Porta Santa venne assimilato alla “roccia” e alla “pietra”. Il Papa stesso, nell’atto di abbattere il muro con il martello ripeteva il gesto di Mosè quando fece scaturire l’acqua dalla roccia per dissetare il suo popolo. Che è, anche, il gesto di Pietro quando fece scaturire l’acqua dalla pietra per battezzare i compagni e i carcerieri. L’acqua di Mosè, assurta a simbolo da Sisto V nella Mostra dell’Acqua Felice e la fons Petri: evidenti epifanie della fons vitae, fa allusione all’acqua lustrale del battesimo e alla Fons indulgentiarum a cui si può abbeverare varcando la Porta Santa.(..) La stessa cerimonia di chiusura della Porta era considerata quasi un rito di rifondazione, che rievocava la fondazione della basilica costantiniana. Il Papa benediceva allora la calce e le pietre, poi prendeva tre volte la calce e la distendeva sulla soglia, quindi vi deponeva le monete d’oro e d’argento e posava la prima pietra recitando:
“In fide, et virtute Jesu Christi filii Dei vivi, qui Apostolorum Principi dixit: “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam”; collocamus lapidem istum primarium ad claudendam Portam Sanctam..”.(51)
La stessa pietra di chiusura era dunque da considerarsi come “pietra angolare”, segno di costruzione e ricostruzione nel ciclo degli anni della vita, alternati agli anni del perdono, alfa e omega, del Giubileo venturo”.
Il racconto del Giubileo del ‘500 ci restituisce una nota di colore: “Il XVI secolo si apre con l’anno giubilare 1500 rimasto celebre per la pompa con cui viene impostato da Alessandro VI. L’apertura del Giubileo viene annunciata con tre giorni di scampanio di tutte le campane di Roma e Alessandro VI apre personalmente la Porta Santa di San Pietro con un nuovo cerimoniale che verrà tramandato nei futuri giubilei. Il concorso di pellegrini, sia romani che stranieri è tale che la chiusura dell’Anno Santo viene differita di dodici giorni; inoltre, per la prima volta, il Papa concede il godimento delle indulgenze giubilari, per l’anno seguente, ai cattolici del resto del mondo. Mentre il Papa presenzia all’apertura e chiusura della Porta Santa in San Pietro, nelle altre basiliche la solenne funzione viene officiata da un cardinale nominato espressamente dal pontefice quale suo legato a latere (..). Per lucrare le indulgenze connesse con il Giubileo le varie Confraternite di Roma organizzano la visita alle quattro basiliche con imponenti processioni e funzioni religiose che si svolgono, secondo un cerimoniale che prevede la separazione tra donne e uomini, sotto la sorveglianza degli Ufficiali della Confraternita. Emblematica e suggestiva la processione fatta il 26 gennaio 1625 dalla Frateria del SS. Rosario: dopo la Messa in Santa Maria sopra Minerva, il corteo con gli uomini in testa, seguiti a distanza dalle donne e chiuso da una lunga teoria di carrozze, giunge in piazza San Pietro mentre recita i Misteri, raccogliendosi davanti alla fontana. Dopo la visita agli altari del Sacramento e dei SS. Apostoli in San Pietro, la processione raggiunge San Paolo fuori le mura. Qui, in piena campagna, i pellegrini pranzano all’aperto e riposano per circa un’ora. Poi, sempre in preghiera, la processione raggiunge San Giovanni in Laterano e infine Santa Maria Maggiore, dove, dopo la benedizione del Padre Presidente della Confraternita, il corteo si scioglie” (52). “Sembra ben di vederlo il sommo Dante guardar fra le imposte del Purgatorio”, dico io, cercando uno spazio per la divagazione. “Ah!, quel diavolo di Dante, dice il frate recitando, buono quello! Non s’era forse ne la Settimana Santa ch’ei immaginò, si dice, - con quale dovizia di particolari dico io - di penetrar lo Inferno? Che forse voi nol sapete ch’ei, ben inspirato, per nove volte insulta nel suo poema il suo mortal nimico, Bonifacio VIII? E che al Giubileo di quel lontano anno ei si rifè pel suo immaginifico viaggio ultraterreno? E chi se non il Diavolo in persona avrebbe potuto accompagnar niuno in cotal luogo, senza conoscer l’angoli più oscuri, e digrignar, sotto il naso pendulo, li denti, senza mutar lo viso? Chi, v’immaginate voi, fosse capace di giudicar li vivi, quando ancor non furon morti e giudicati, e riporli laggiù, in quelle spire oscure che ognor fanno ribrezzo? Chi, se non lo Diavolo in persona, sottil infingardo e sputasentenze, che all’altrui pianto non sminuisce il riso?”. E Arturo, stizzito: “Una volta tanto faresti meglio a tacere”. Per nostra fortuna sopraggiunge Onorio festoso e, per nulla sorpreso ci abbraccia tutti, compreso il frate. “Ma a te, com’è tanta ora tolta?”, dice il frate a lui, rifacendo il verso a Dante. Ed egli: “Nessun m’è fatto oltraggio”, se non che te. Non ti ho veduto in sala. E il frate, non senza un pizzico d’ironia: “No, certo, in mezzo a tanta santità, qualcuno doveva pur esserci a cui stuzzicar l’appetito. Così, tra un brano e un’altro s’è pure divertito a parlar di lazzi e cazzi, ed io ho preferito guardarlo dentro dagli specchi”. Arturo mi lancia uno sguardo risentito. Scusateci, diciamo entrambi contemporaneamente, s’è fatto tardi, e noi dovremmo proprio andare. Buonanotte! “Se permettete, dice infine quel diavolo d’un frate, la bonanotte si così a da esse, la dichiaro io: bonanotte!”.
“La pompa di Roma e la sua principale grandiosità, consiste nell’appariscenza della divozione: è pur bello, in questi giorni, constatare lo zelo religioso di una moltitudine così sterminata. Vi sono cento Confraternite e più, e quasi non esiste persona di qualche grado che non faccia parte di qualcuna: se ne hanno pure per i forestieri, i nostri appartengono a quella del Gonfalone. Queste particolari comunità celebrano varie cerimonie religiose che si svolgono principalmente sotto quaresima, ma, in questo giorno, sfilano in processione con vestiti di tela: ogni Confraternita con un colore proprio, quale bianco, quale rosso, o azzurro, verde, nero; per lo più a viso coperto. La cosa più notevole e stupefacente che abbia mai vista, qui o altrove, era l’incredibile quantità di gente sparsa quel giorno nella città per le devozioni, e soprattutto la quantità di confratelli. Poiché, oltre al gran numero di quelli che si erano visti di giorno, convenuti a San Pietro, non appena si fece buio la città parve un fuoco per ogni dove, avviandosi tutti quei fratelli in fila verso San Pietro, reggendo ciascuno una torcia, nel maggior numero dei casi di cera bianca. Credo che dinanzi a me siano passate almeno dodicimila torce, visto che dalle otto di sera fino a mezzanotte la strada rimase sempre piena per questa processione, procedente in sì bell’ordine e con tale compostezza che, per quanto formata di compagnie diverse e partite da differenti luoghi, non vide mai né un vuoto né un’interruzione. Ogni Confraternita dispone d’una gran schiera di cantori, salmodianti senza posa mentre procedono, e - in mezzo ai diversi gruppi - si vede una fila di penitenti che si fustigano con corde: ve n’erano almeno cinquecento, la schiena tutta quanta scorticata e sanguinante da far pena. È questo un enigma, che non riesco ancora a risolvere: son tutti coperti di piaghe, crudelmente feriti, e continuano a tormentarsi e a percuotersi; eppure, a considerarne il contegno, la fermezza del passo, la calma delle parole (ne ho uditi molti parlare), il viso (molti se ne stavano scoperti), non solo non sembravano trovarsi in una situazione penosa, ma nemmeno seria, benché ve ne fossero alcuni di non oltre dodici o tredici anni. Proprio di fronte a me ne passò uno molto tenero d’età e con un viso piacente; una giovane donna ebbe a compiangerlo, vedendolo così straziato, e quello - volgendosi a noi - le rispose, ridendo: -“Basta, disse, che fò questo per li tui peccati, non pe li miei”. Ma ancor più, a distanza di secoli, la cambiata atmosfera giubilare si rispecchia in quest’altro sonetto del Belli, del 1825:
“Arfine, grazziaddio, semo arivati all’anno santo, alegramente, Meo: er papa ha sprubbricato er Giubbileo pe’ tutti li cristiani battezzati. Beato in tutto st’anno chi ha peccato che a la cuscenza nun je resta gneo! Basta nun esse giacubbino o abbreo o antra razza di cani arinnegati. Se leva ar purgatorio er catenaccio; e all’inferno peccristo, pe’ quest’anno poi fa’, poi di’ nun ce se va un... Tu va a le sette chiese sorfeggianno, mettete in testa, un po’ de ceneraccio e tienghi er paradiso ar tu commanno” (54)
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