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Roma in fabula - Cronaca di città / 6

Argomento: Letteratura

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 26/09/2025 17:02:16


ROMA IN FABULA / 6

A OGNI MORTE DI PAPA

Che mai significherà, quell’immagine della Morte, che si presenta a chi giunge a Roma dalla Via Flaminia, nell’immediato interno della Chiesa di Santa Maria del Popolo?, dico io. Quello scheletro curioso, collocato dietro la grata del sepolcro di Giovanbattista Gileni, secentesco architetto, pittore e scultore di romana memoria. Certo, il Barocco non ha mai disdegnato siffatte rappresentazioni, svolazzando come fece in terra e in cielo con le sue brucianti fantasie, affrontando ogni voluttà e ogni tragedia con una sorta d’acre foga. E non si peritò minimamente di situare la figura della Morte presso i sarcofaghi illustri, come un’augusta guardia d’onore, ma la elevò agli onori degli altari, ove la Vita e la Morte si davano la mano senza imbarazzo, guardandosi negli occhi, abituate a bisbigliarsi all’orecchio quel memento mori che sa di continuo richiamo ad un convegno:
“Io fui qual tu sei, tu sei qual io sono”.
Il ricordo di quell’ammonizione riconduce me ed Arturo nel terrificante labirinto dei sotterranei di Roma, in quel regno delle ombre dove infine possiamo aspettarci qualsiasi incontro.
“Chi sa?, dice Arturo, magari uno spirito vagante, un’entità che non appartiene al nostro tempo ma che di questa città conosce gli anfratti, i segreti non ancora svelati, che conserva la memoria dei trapassati”.
Lo guardo esterrefatto, è la prima volta che mi apra la sua anima segreta, che mi rivela la sua volontà di penetrare il mistero dell’al di là. Quell’al di là
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inteso simbolicamente come l’altrove, inizio luogo e fine del trapasso; punto di conseguimento finale e di eterno principio, nel ripetersi ciclico della vita e della morte.
“Ecco io penso, dice, che la morte assume l’aspetto particolare dell’“assenza”, ciò che ha reso possibile talvolta l’accesso nel regno dei morti, seppure temporaneamente, e che ci ha permesso di esprimere l’ineffabile che si nasconde nel profondo dell’essere umano. Del resto, aggiunse, nei miti e nei riti riferiti alla morte è molto insistente l’idea del ritorno alla vita, come anche quella di rinascere che in fondo sovverte il mondo ordinato e gerarchizzato della ragione e ci spinge ad ipotizzare innumerevoli io, più o meno larvati e sacralizzati, che fanno ricorso all’estasi come alla maschera, al sogno e al mito. In una continua riformulazione di ciò che è per natura e ciò che è per convenzione. Dev’essere così che a Roma ebbe inizio la gestazione della società cristiana, in un mondo dapprima sotterraneo, compenetrato nelle viscere stesse della città, che man mano, nella risalita dei secoli, si fece più evidente in superficie: con i suoi dogmi, i sacrifici, i riti connessi alla morte, la liturgia piagnona, la beatitudine, le estasi”.
Che sia piagnona, è fuor di dubbio!, dico io.
“Ma anche sublime!, afferma Arturo. Pensa al senso della preghiera. Quel senso “alto” e “supremo”, che fa da ponte tra la nostra piccola vita e la “vita” più grande che si spinge al di sopra di noi tutti, e che dà valore al nostro operato. Quel senso che ci restituisce, nella consapevolezza dell’umana grandezza, la certezza della nostra esistenza. Pensa alla grandiosità del canto. Che sia il canto semplice e pacato di una lauda, o quello lirico di un oratorio, che sia una pagina di musica splendidamente ispirata o una sinfonia sacra. Pensa alla profondità emozionale, alla sua capacità d’espressione di elevare e sospingere l’animo umano verso il cielo che spalancato lo riceve nella beatitudine dell’estasi. Ben sapevano i padri della Chiesa di Roma, quando accolsero il canto nell’ambito della liturgia ufficiale, quale sublime strumento Dio aveva messo nelle loro mani. Più immediato del pensiero, superiore talvolta alla parola stessa, atto a creare attorno ad essa quell’aura luminosissima capace di sgombrare le tenebre, di scacciare l’insita paura della morte”.
Trovo Arturo semplicemente grande. Come tutto ciò che dice sembra meditato e non sia invece fonte dello studio. Non un libro aperto, ma, semplicemente la conoscenza. Insieme andiamo alla veglia pasquale detta “in Passione Domini” in occasione del Venerdì Santo. La preghiera, detta in silenzio, si protrae fino a notte, fin quando il sacerdote, annunziata la morte di Cristo e distende un velo pietoso sulle colpe umane:
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Annunziamo la tua morte, Signore,
proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta.
Pietà di me, o Signore, secondo la tua misericordia;
nel tuo grande amore cancella il mio peccato. (55)
L’antifona iniziale: “Christum” viene ripetuta dopo i salmi, le lamentazioni, i responsori e gli inni, fra i quali si leva in isolata bellezza il “Pange Lingua”.
La cosa si ripete l’indomani, quando insieme torniamo in chiesa per la liturgia del Sabato Santo cui è riferita la Benedizione del Fuoco.
“Fratelli preghiamo”, dice il sacerdote:
“O Padre, che per mezzo del tuo Figlio ci hai comunicato la fiamma viva della tua gloria, benedici questo fuoco nuovo, fa’ che le feste pasquali accendano in noi il desiderio del cielo, e ci guidino, rinnovati nello spirito, alla festa dello splendore eterno”.
Segnando poi una croce sul grande cero, dice:
Il Cristo, ieri e oggi, principio e fine, alfa e omega; a lui appartengono il tempo e i secoli, a lui la gloria e il potere, per tutti i secoli, in eterno”.
Quindi, accende il cero pasquale con il nuovo fuoco, e dice:
. . .
“La luce del Cristo che risorge glorioso, disperda le tenebre del cuore e dello spirito”.
Dunque s’avvia in processione lungo la navata centrale tenendo il cero elevato e cantando per tre volte: “Lumen Christi” dal Graduale Romano (56) al quale rispondiamo: “Deo gratias”.
Con la speranza che la nuova luce giunga fino ad illuminare le grotte, passo sotto silenzio l’intenzione di recarmi ancora una volta là, con o senza l’approvazione di Arturo. Penso tra me di non avere nulla da temere. Sono fatto così, se esiste un anfratto sotterraneo, voglio vederlo a ogni costo. Del resto, necropoli, colombari, tombe, sarcofaghi e cippi funerari, esposti un po dappertutto, rendono più familiare l’idea della morte.
Dalla benedizione dell’acqua insieme al sacerdote recitiamo:
. . .
“Infondi in quest’acqua, per opera dello Spirito santo, la grazia del tuo unico Figlio, perché con il sacramento del Battesimo l’uomo, fatto a tua
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immagine, sia lavato dalla macchia del peccato, e dall’acqua e dallo Spirito santo rinasca come nuova creatura”.
Poi, immerso il cero pasquale tre volte nell’acqua, egli dice:
. . .
“Discenda, Padre in quest’acqua, per opera del tuo Figlio, la potenza dello Spirito santo, perché tutti coloro che in essa riceveranno il Battesimo, sepolti insieme con Cristo nella morte, con lui risorgano alla vita immortale”.
Quindi si rivolge ai fedeli con queste parole:
. . .
“Rinunziate a Satana? A tutte le sue opere? “E a tutte le sue seduzioni?”
Tutti rispondono: “Rinunzio”.
“Credete in . . .”
E tutti: “Credo”.
È ancora lui che tiene la scena. Il Diavolo in persona, che s’intromette a ostacolare una funzione dedicata al Padre. Ma allora è proprio dappertutto, aveva ragione da vendere la vecchia signora. Possibile che non lo si possa respingere lontano? O, chessò, relegarlo negli abissi più profondi, scaraventarlo nella fossa più tenebrosa?
“Ma se è appena uscito proprio da lì”, dice l’anziano cisposo signore che siede al mio fianco fin dall’inizio della funzione.
“Da lì dove, scusi?”
“Ma dalla grande fossa che s’apre sotto all’altare, comunemente chiamata “Confessione”, e che porta direttamente sottoterra”. Poi, sussurrando più vicino al mio orecchio, dice: “nei meandri oscuri delle grotte”.
“Ma Lei vi è mai stato?”, chiedo.
“Certamente che vi sono stato, non posso negarlo. Anzi posso assicurarle che il Diavolo ha proprio lì la sua fissa dimora”.
“Davvero?, chiedo, nell’incredulità che mi è consueta.
“Penso che dovrebbe farvi una visitina, per rendersene conto di persona”.
Lo interpreto come un invito esplicito, che ben presto si trasforma in un tirata di giacca a cui fa seguito l’ammiccamento a seguirlo nel sottosuolo. Mi allontano dal mio posto lasciando Arturo contrito in preghiera, il quale non si accorge di me che mi defilo al seguito dell’anziano signore. Un chiarore opaco illumina la scala in discesa che s’avvolge a spirale fino ai sotterranei, e già sull’entrata si accende, diventa molto più forte, quasi accecante per chi come me arriva dalla penombra. Nella grande cripta, ovunque nelle nicchie e sulle tombe,
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sono accese mille o forse più candele, che lasciano cadere la cera in rigagnoli che lentamente si congiungono formando come una tela, o forse un macabro merletto. Un leggero sentore d’umido e di muffa mi fa tornare alla mente la connessione con la nuda terra, ed odo più volte un respiro sommesso proveniente dal profondo. D’un tratto l’aria si raffredda, e come un alito gelido, di vento, sopraggiunse attraverso i cunicoli e i corridoi che in essa si aprono.
Mi aggiro furtivo nel sotterraneo stando attento a non posare i piedi su quella cera che si raggruma dando forma a delle chiazze scure e molli, mentre rileggo tra i rigagnoli colati i nomi dei papi sulle lapidi di marmo. I ritratti tombali testimoniano di quella “vita eterna” che ogni pontefice ha voluto assicurarsi prima d’ogni altra cosa. In questo luogo il trascorrere inesorabile del tempo mette bene in risalto la contraddizione palese: l’alternanza di miseria e splendore che ha contraddistinto ogni pontificato; le affermazioni dell’arte e le contraddizioni del pensiero; la conservazione del passato e la previsione del futuro. All’affermazione del potere spirituale, si contrappone una meditazione inquietante e tragica, intrisa di morte. È più che mai evidente, come solo alcuni pontefici abbiano potuto immaginare, un cosmo di intenzioni fortemente consolidate nella tradizione a fondamento della Chiesa. Gregorovius l’aveva ben detto nell’attribuire a Bonifacio VIII, ch’egli definì essere l’ultimo grande Papa del Medioevo, il concepimento del papato come dominazione universale.
Ed è proprio attorno al suo sarcofago, opera di Arnolfo di Cambio, che più s’accende la mia attenzione. L’artista lo ha ritratto giacente, il volto raccolto nella purezza di un solido geometrico che ne accentua il potere mistico, la penetrazione interiore leggibile alla radice dell’immagine. Perché?, mi chiedo. S’egli in vita sembra fosse preda di una instabile ambizione individuale? Dove avrei potuto cercare una risposta? A parer del vero, non vedo antro che arda di più. Le fiammelle di mille candele non avrebbero reso la pietra più rovente. Come se la luce eterna si fosse nascosta tra le pieghe della terra. Come se la Divinità fosse li a mescolarsi alla schiera degli Eletti a infondere la sua arcana essenza in quei corpi. Ma come è possibile legare l’eternità, di per se infinita, a un inizio e una fine?, mi chiedo infine..
“Chi può spiegare una simile incoerenza?”, dice l’anziano signore, del quale non riesco più a vedere la figura, poiché un fumo odoroso e acre d’incenso invade ormai la cripta.
“Ascolta! questa è la voce del Tempo che tutto trasforma e verso cui tutto tende, dice, essi già sussurrano, non odi il salmodiare delle loro voci? Presto si leveranno, e come una turba col petto e i fianchi cinti del luttuoso velo, saranno ammessi al banchetto eterno e alle gioie senza fine. Coloro che erano
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sprofondati nell’afflizione ora formano una turba felice che s’avvia verso il Giudizio finale”.
Non so perché ma in questo preciso momento mi chiedo se l’equità può infine pronunciarsi in un giudizio iniquo? Forse Colui che ha fatto le leggi, può sempre cambiarle e quindi assolvere anche il Papa. Anche Bonifacio VIII, dico. Anche solo perdonarlo. Del resto Celestino V prima del “gran rifiuto” aveva già emesso la Bolla della Perdonanza, e il perdono del piccolo grande Papa non escludeva neppure Bonifacio VIII.
“Non biasimare dunque il giudizio di Dio!, dice tosto il vecchio, non guadagnamo nulla a perderci in pensieri inutili. Tutto è legato all’esito: prima di conoscere il risultato finale, il giudizio è soggetto all’errore. Rifletti mentr’io mi procurerò di far esaudire le tue giuste aspirazioni, con un patto reciproco e libertario”.
“Con che mezzo?”, chiedo.
“Poiché è necessario, acconsento di scambiare l’equità con un verdetto iniquo, di strappare con la forza un giudizio che ritengo ingiusto”.
A quale prezzo?
“Purché tu giuri a un tempo d’essere fedele al Signore delle Tenebre e metti al Suo servizio la tua potenza occulta. Non vedi che dilaga nel cielo l’incendio della rivolta? Non tener fede alle spoglie immortalate nella pietra, è Bonifacio stesso che l’alimenta. Ecco il drappo ricamato nel nome di colui che per primo lanciò la sfida del Giubileo, e che ora gli nega la sua fedeltà”.
“Bonifacio VIII gli ha dunque negato la sua fedeltà?”
“È tutto scritto, l’anno centesimo segnerà la fine del potere divino, disse la voce senza volto del vecchio, il Signore delle Tenebre sconvolgerà ogni ordine del creato: il cielo, la terra, il mare, non offriranno di più che lo spettacolo di un vasto incendio”.
Alle sue parole, un rumore confuso, come di tempesta, risuona da ogni parte. Mugghiano i venti, i lampi e i tuoni attraversano le pareti del sotterraneo. Non odo più le voci salmodianti e vengo sopraffatto dal terrore e dalla pena. Quand’ecco, nel mezzo del fumo dell’incenso bruciato, appare un uomo dall’aspetto spettrale, consunto e livido, che non riesco a guardare: un essere mostruoso, animalesco e informe: con gli artigli di un grifone e la testa di drago, che subitaneo svanisce nei meandri del labirinto sotterraneo, almeno così come mi pare. Il Diavolo in persona, dico fra me, una volta ripreso dallo spavento, allorquando vedo davanti a me l’anziano signore al quale mi ero accompagnato.
“Che c’è, sembra spaventato?”
“No, è che qua sotto manca l’aria. Forse mi gioverebbe uscire”.
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“Non voleva visitare le sacre Grotte? Mi sono assentato un momento per controllare che la grata fosse aperta. È aperta, adesso possiamo entrare”.
“No, grazie, sarà per un’altra volta. C’è di sopra una persona che mi aspetta, a quest’ora sarà già in pensiero, forse mi sta cercando”.
. . .
“Di sopra c’è tanta folla, la penserà smarrita tra le navate. Del resto siamo qui solo da poco. Venga, dice prendendomi per mano, l’accompagno”.
Insieme ci avviamo lungo un antro buio che sfocia in uno slargo dove sono ad attenderci numerosi altri con le torce accese. Uno di loro mi fa scegliere da un mazzo di Tarocchi, una carta coperta che non devo guardare fino a che non è il momento. Giunti che siamo in uno spiazzo, illuminato da torce appese alle pareti, alcune donne mi prendono per mano e insieme facciamo un girotondo in senso antiorario. Noto esponenti di tutte le classi sociali sotto l’occhio vigile di un deputato della Morte, che, ad un certo punto, da ordine alle schiere dei trapassati di farsi avanti e di unirsi a noi. Questi sopraggiungono numerosi e s’inseriscono nella danza macabra:
“Ciascuna creatura qual si sia
Venga a ballare al mio funesto suono,
E seguiti ciascun la danza mia,
La qual, per nome, Morte detta sono.
. . .
E mentre che la Morte suona e danza
La vanità di questo secol mostra:
Cioè, che chi nel secol riposa,
Quivi l’eterna morte sta ascosa. (57)
Protagonisti in egual misura i Vivi e i Morti: i primi, svuotati di ogni volontà, interpretano i più svariati membri della gerarchia mondana: i potenti, i nobili, i belli, i ricchi, i poveri e i vecchi, riconoscibili dalla foggia degli abiti e dalle espressioni dei volti; anche se i secondi altro non sono che scheletri semicoperti dai loro stessi sudari, che danzano al suono di ossa battute l’una contro l’altra ed altri strumenti che emettono suoni diversi e fragorosi.
Siamo lontani dal canto romano estatico e sacrale che la Chiesa ci ha tramandato e che è alla base della liturgia cristiana. La Danza Macabra è un chiaro riferimento al più antico culto del fuoco, la cui festa popolare era piena di leggende e superstizioni. In letteratura traeva origine dalle Palilie romane: una
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tremenda bagarre durante la quale i pastori saltavano con i loro greggi sopra i fuochi accesi nelle campagne. Una danza che aveva un evidente carattere di fertilità, allorché i contadini percorrevano con le loro fiaccole i campi, alternando canti profani e spesso sacrileghi, a scongiuri, preghiere e minacce fino all’alba. Il che, li proteggeva da morbi e disgrazie, e la cui buona riuscita sarebbe stata di buon auspicio per i raccolti. Tipica del Basso Medioevo la Danza Macabra, a noi più nota per l’impressione che suscitò nell’arte del Rinascimento e nei secoli successivi, era degenerata ben presto nelle solennità burlesche dall’ambiguo carattere religioso, sì da indurre l’autorità ecclesiastica a creare, nelle processioni, un’ambigua figura di demonio danzante, affinché il popolo ne individuasse la negatività e coscienziosamente ne prendesse le distanze.
Strettamente legate alla Danza erano pure le “processioni danzanti”, dove su tutto e su tutti gravava la Morte, orrida, vendicatrice, spaventosa. Non poi così distante da dov’eravamo i passi si fecero affrettati, precipitosi, la danza prese un ritmo vorticoso. Fina a ritrovarci tutti quanti distesi, aggrovigliati alle ossa e ai teschi dispersi sul pavimento. Quand’ecco una grande vecchia, mi viene incontro mettendo in bella mostra la sua scarsa dentatura che non somiglia certo un sorriso, e che mi dice: “Ecco, adesso puoi darmi la tua carta, questo è il momento”. Faccio per dargliela ma quando la volto vedo che si tratta della Morte:
“I’s so’ la cruda e dispietata Morte
Che temgh l’archo teso a tutte l’ore:
Sie chi si vuole, o re o ‘mperatore,
Che possa riparare alle mie sorte.
La mia saetta è temperata forte
Per la virtù di Christo Salvatore,
E non gli vale dimostrar valore,
né esser saputo chom parole achorte:
Perch’io uccisi Christo in su la croce,
Ch’era signore di chotanta altura
E fealo parlare a bassa voce.
A chiunque nascie posso dar finita
Però ch’é son cholei che spengo vita”. (58)
Ecco che la Danza pretende il suo olocausto, il capro espiatorio. Avrei dovuto aspettarmelo, la scelta ricade su di me per il Trionfo della Morte. Il tredicesimo (XIII) degli Arcani Maggiori con lo scheletro falciatore, il cui raccolto è formato di teste umane, rimane fra le mie mani intenzionalmente
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muto, e tuttavia mi rivela la mia subordinazione. Dobbiamo la nostra effimera esistenza a ciò che chiamiamo Morte, essa ci permette di nascere e può condurci soltanto a una rinascita.
È quindi a ragione che l’arcano che noi chiamiamo Morte si collega al generatore attivo della vita universale, della vita dopo la vita, di cui la Temperanza (arcano XIV) simboleggia il dinamismo circolatorio, mentre il Diavolo (arcano XV) ne rappresenta l’accumulazione statica. Il profano, dunque, deve morire per poter rinascere alla vita superiore conferita dall’Iniziazione.
Se si sottrae alla morte il suo stato d’imperfezione non compie alcun progresso iniziatico. Saper morire è quindi il grande segreto dell’Iniziato, poiché, morendo, egli si libera di ciò che gli è inferiore, per elevarsi, sublimandosi.
Quale carta dunque avrebbe giocata l’anziana signora?
Improvvisamente ricordo dove l’avevo incontrata. Era lei che all’interno della basilica mi aveva indirizzato alla famosa porta che non avrei dovuto valicare. Rise sardonicamente prima di scoprire la sua carta: il Diavolo. Ecco dunque, il grande agente magico, al quale tutti dobbiamo la nostra esistenza materiale.
“Il Diavolo non è nero come lo si dipinge”, mi dice citando un noto proverbio, è il nostro compagno ineluttabile nella via di questo basso mondo. Venite, l’altare del Sabba è costruito secondo leggi occulte che Voi dovete conoscere”.
L’altare del Sabba?
Un’assemblea del Sabba, dunque; che si svolge secondo precisi cerimoniali che non conosco, ma che pure sostiene idee eretiche parodia del culto cristiano. Le sue origini vanno ricercate nei riti magici con i quali anticamente si celebrava la fertilità della Dea Madre, simbolo di vita e rigenerazione, ma anche connessa con la morte e con il mondo dell’al di là. Se di un vero Sabba si trattava, e questo ne presenta tutti i risvolti, presto dovrei vedere il Diavolo in persona?
“Il Diavolo come lo immaginate Voi!, disse l’anziana signora: venite!”.
Con il suo: venite!, non significava andare oltre nei sotterranei, bensì: muovetevi!, o meglio: avanti, decidetevi! prendete posto sull’altare del sacrificio. L’arcano altare del Sabba”.
Che strano!, mi dico. Non avrei mai pensato che un giorno mi sarei trovato nel bel mezzo di un raduno satanico, eppure eccomi qua, contro la mia volontà, immerso nella realtà fantastica dell’inconscio, nell’orrore della realtà materiale. Per essere io, sono io; ma quale altro io si rivela alla mia persona? Quale smascheramento avrei io dovuto attuare? Oppure quell’incubo diabolico,
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secondo cui il Diavolo assume forma di uomo o di donna e seduce i viventi, si è davvero impossessato di me? Non è forse detto: “Il vostro nemico, il Diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare”. (Prima Lettera di Pietro 5,8) E cos’è questo suono di piva che di lontano giunge alle mie orecchie? E questo ritornello osceno? Non è forse, uno dei tanti canti goliardici trascritto sull’imitazione dei canti liturgici, così detti a indicare l’attitudine mangiona e beona di quegli studenti senza prebende e un po’ burloni che girovagavano durante il Medioevo da una Università all’altra? Che sia un carmina?, intonato da quei “clerici vagantes” così chiamati per il loro girovagare e chiedere l’elemosina, ch’erano poi diventati veri e propri intrattenitori della plebaglia, al servizio e alla mercé dei signori, come pure degli uomini di chiesa?
II motivo mi è abbastanza noto, dico fra me, me ne ricorda un altro, ma quale? Le parole sono però diverse, anzi sono certo che sono state cambiate. Non ho dubbi, poiché avrebbero dovuto essere in latino maccheronico, misto ad altre lingue, come il francese, il tedesco e persino lo slavo. Ma forse mi sbaglio, potrebbe essere una lauda in volgare italiano con risvolti satirici e anticlericali scagliati contro l’avidità e la simonia della Chiesa. Chissà? Tutto corrisponde: la Danza Macabra, l’Altare del Sabba, il Trionfo della Morte. Ma certo, come non averci pensato prima? Non a caso mi tornano alla mente le immagini pittoriche dell’Orcagna, osservate che non è molto tempo nel Camposanto di Pisa, di cui v’è anche un chiaro riscontro nel “Trionfo della Morte” del Petrarca, in cui l’idea dominante è il trionfo della Nera Signora: un trionfo non macabro, bensì pieno di pace e di solennità.
“O ciechi, il tanto affaticar che giova?
Tutti tornate alla Gran Madre antica. . .” (59)
Mi convinco di non poter soggiacere a una qualsiasi iniziazione contro la mia volontà. No di certo, non l’avrei permesso neppure questa volta. Né tantomeno quella gente, possono accettarmi nella loro cerchia, sono certo; neppure in qualità di adepto, senza aver prima fatto davanti a loro il giuramento solenne che si richiede.
“Venite, ordunque!”, ripete l’anziana signora, prendendomi per mano.
In quel preciso istante mi tornano alla mente le parole originali del canto che tante volte avevo sentito, fin da quando ancor ragazzo frequentavo l’Oratorio. Erano le parole di una famosa lauda di Jacopone da Todi, tratta dal Laudario di Cortona risalente alla seconda metà del XIII secolo:
. . .
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“Stomme alegro et lazioso
questo mondo delectando:
ma ‘iudicio rimembrando
sto dolente e pauroso.
Pauroso è di fallanza,
questo mondo pien d’errore:
signor, ‘faite penitenzia
ché s’approccia ‘l grand’errore:
ché ‘l nimico arà ‘l valore;
ciò fie a la fine del mondo,
ché ciascun sirà remondo
d’esto dilecto fetoroso”. (60)
Il mio canto risuona spontaneo, forte e chiaro, come non avevo mai potuto prima. Quasi che la mia voce fuoriesce non già dalla mia ugola, bensì dal solo pensare le parole. E tutto intorno prende a farsi tremulo, le figure si confondono, si mescolano e in mezzo alla gran folla, dalla quale presto si snoda una processione silente, interminabile. Vi prendono parte tutti quelli che conosco e che non conosco: i sacerdoti e i chierici incontrati poco prima, gli officianti impegnati nella basilica, Celestino V, Bonifacio VIII, la presunta Guida, il vecchio accompagnatore, il frate incontrato alla rappresentazione, i musici e i cantori, l’anziana signora che mi tende la mano. . .
Ma spetta a Onorio infine a tendermi una mano. Sua è la voce nel canto sacro che odo sì “chiaro e forte”, e che dipana l’incubo satanico al quale dunque mi sono assoggettato.
Onorio, tu? Dio ti ha mandato!
“No, dice, ma ringrazialo lo stesso. Arturo non vedendoti da circa un’ora, scontrandomi per caso nella Basilica, mi ha detto che, se mai ti avessi incontrato, di dirti che ti chiamerà domani. Ma cosa ti è accaduto? Sei bianco come un panno lavato, no, peggio, come quel marmo tombale! “.
Oh, non riusciresti a immaginare. Ma per fortuna sei qua tu e mi accompagnerai all’uscita.
“Certo, figurati, sto uscendo anch’io, e questa è la scorciatoia ch’io faccio per districarmi dalla quantità di gente che in queste occasioni affolla la Basilica”.
Mi aggrappo al suo braccio, e insieme usciamo “a riveder le stelle” .
Sarà stata certo la Morte, penso a ritroso, che, a un certo momento, ha conferito al governo della Chiesa lo scettro del suo potere esecutivo. La paura
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del Diavolo poi, ha fatto tutto il resto. Ma non lo dico a Onorio, che candidamente, mi parla delle sue esperienze di canto.
. . .
“Exultet!”, dice Arturo al telefono l’indomani nell’augurarmi Buona Pasqua. “L’Exsultet, caro mio, appartiene a quella magnifica collana di formule che nel sec. V avevano mirabilmente arricchito il patrimonio della liturgia romana. Spicca per il lirico entusiasmo, l’eleganza della forma, la regolarità del cursus, la nobile arditezza dei concetti. Il tema è la vittoria di Cristo riportata durante la notte del Sabato Santo sulla morte e sulle tenebre simbolo del peccato. Premesso un breve esordio, si esalta Cristo trionfatore della morte e redentore del genere umano, si celebra la notte pasquale, adombrata nell’Antico Testamento e piena di tanti misteriosi avvenimenti, e si conclude offrendo a Dio il cero in onore del suo nome”. (61)
“Sei sempre intenzionato a visitare le viscere della religione?”
“Si, certo! Dove andiamo?” gli chiedo, facendo finta di niente.
“Allora devi sbrigarti, Onorio ci ha procurato uno speciale permesso per una visita guidata ai sotterranei del Vaticano”.
“Per Dio!”, esclamo terrificato dall’annuncio.
“Non montarti la testa, Dio non centra, sottolinea Arturo, semmai bisognerà ringraziare qualche cardinale. Si capisce che non sei romano”.
“Da che?”
“Ma dall’idea che ti sei fatto di Roma! Dai vagheggiamenti e dai sogni che fai sui suoi fasti, sulle sue leggendarie verità. “I romani, dipendesse da loro, lascerebbero la città in pace, senza provare l’imperioso bisogno di scrutarne le viscere. Lascerebbero che la città restasse vegliata dalle sue grandi statue; ed esplorata, al massimo, dai gatti nottambuli che le sono inquilini familiari. L’aria che segretamente vi si respira, per la congiura di certe ore del giorno o della sera, per il sopravvenire imprevisto di una stagione, o di un’acquata o dello stesso sole, è l’aria della Roma pigra e sonnacchiosa, sempre limitata a un ruolo di spettatrice, a offrire riparo o il guscio della sua cinica tolleranza, ad una trama dall’intreccio fosco, ad una risata resa acidula da un’amarezza a lungo covata dalla storia” (62)
“In quanto al Diavolo poi, credo abbia voglia di fuggirsene a gambe levate, se non la smetti d’inseguirlo. Anche ieri sera, ti ho sentito quando ne parlavi a quel povero vecchio al tuo fianco. Guarda che nella teologia contemporanea, cattolica ed evangelica, l’esistenza del Diavolo non è ritenuta una verità dogmaticamente definita”.
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“Oh, dici davvero?”, gli chiedo, non poco dubbioso.
“Non so, ad un certo momento ti ho perso di vista, dove ti eri cacciato?”
“Mi sono perso in mezzo alla folla” dico mentendo a me stesso.
E lui: “Guarda che le bugie hanno le gambe corte!”
“Solo le mie!”, confermo.
“Beh, adesso spicciati, e preparati per il grande evento, dice, la Cristianità tutta già esulta per la Resurrezione di Cristo. Bene! allora ci vediamo in Piazza San Pietro, al solito posto vicino all’obelisco attorno alle undici”.
Inutile dire che accetto seppure con riserva l’invito, e che infine vado all’appuntamento. La piazza è gremita oltremisura. La folla continua ad arrivare a frotte attraverso le entrate del colonnato. Sembra impazzita, impossibile contenerla. Ci sono intere schiere di religiosi: Cardinali in porpora, Vescovi con la tiara a punta, rappresentanti le altre confessioni, ambascerie e personalità accreditate alla Città del Vaticano. La massa è formata da persone provenienti da ogni parte del mondo. Dietro ogni stendardo, dietro ogni vessillo è rappresentanza di una diversa origine etnica, o d’appartenenza ad una qualche altra professione; c’è chi nell’attesa, e sono in molti, leva la propria voce nel canto.
Autentico fulcro della cerimonia è il momento in cui:
“Il venerando pontefice, vestito di seta bianca, portato dai suoi staffieri su un’immensa barella offre uno degli spettacoli più belli e commoventi che abbia mai visto in vita mia.(..) D’un tratto tutti si inginocchiano, e, su una pedana addobbata con le stoffe più sontuose, appare la figura pallida, inanimata, superba...” (63).
Neppure gli fossero dati i poteri sublimi della gioia più grande e dell’estremo conforto che stanno al di sopra dell’anelito stesso delle anime. E per una volta ancora, il rituale si svolge secondo la tradizione, nello stesso modo come la penna autorevole di Stendhal lo ha descritto centocinquanta anni prima, a dimostrazione che a Roma nulla mai cambia, nulla scompare del tutto, bensì resta, nella leggenda e nel colore della sua eternità. Ma la memorie come si sa, col tempo si confonde, si affievolisce. Non c’è più traccia alcuna del timore, dell’inquietudine, né del terrore che, a detta di Arturo, mille anni prima aveva sconvolto il mondo. Forse che l’uomo è diventato scettico e indifferente? O forse, crede di aver conosciuto tutto, ormai? Di aver vissuto il proprio passato, il presente, e il proprio futuro?
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“Provati come sono da mille calamità, gli uomini hanno perduto oggi ogni speranza di un riscatto, dice Arturo: “Mille e non più mille”, ricorda la maledizione insita nelle tremende profezie dell’Apocalisse di Giovanni. Quell’atroce e misterioso capitolo XX che segna il compiersi del regno temporale di mille anni, durante il quale Satana, ridotto in catene, sferrava la sua più terribile offensiva contro l’universo creato da Dio, e spingeva l’umanità in un vortice di tribolazioni, di orrori e di angosce, a cui faceva poi seguito il Giudizio Universale. Beh!, quella minaccia non si è ancora spenta, serpeggia ancora il timore che le buie pagine dell’Apocalisse facciano riferimento a qualcosa che si deve ancora avverare”.
Penso che forse doveva aver ragione lui. C’è qualcosa di terribile nelle statue che si levano sul colonnato e che si stagliano contro il cielo coperto dalle nuvole barocche. Quelle volute fluttuanti, quei drappi sontuosi che il Bernini ha strappato alla pietra, e che più che mai sembrano distendersi come le tenebre sul Golgota nell’ora nona, per l’essersi oscurato il sole. Come d’una processione fermatasi nel tempo, le statue dei Santi e dei Martiri sembrano dar forma a un Calvario su cui si staglia un cielo apocalittico. E il canto funebre, quel salmodiare amaro e ininterrotto dei presenti, infine non è che il pianto suggestivo e pieno di sentimento che accompagnava il Cristo da sempre, e che ora, conduceva il Suo vicario Pietro sul monte Vaticano, prima del supplizio.
Entrando nella grande Basilica provo di nuovo un brivido alla schiena. Com’è fredda e tetra. Com’è vicina la morte, penso. Ho le mani gelide e lo stomaco stretto in una morsa di tensione, come per l’attesa di un qualche evento. Ma il mesto corteo dei chierici si muove verso l’altare maggiore intonando a gran voce un canto che annuncia l’avvenuta resurrezione. Più tardi, quando l’ultima voce si è ormai affievolita nell’eco della cupola michelangiolesca, l’anziano Pontefice, ripete le sacre parole del Vangelo di Luca?:
“Perché cercate tra i morti colui che è vivo?
Egli non è qui, è risorto”.
E l’Officiante: “Questo tempio tutto risuoni per le acclamazioni del popolo in festa”. (Precn.Pasq.)
Alle sue parole esplode improvviso l’inno di gioia dei cantori nel portentoso “Gloria” di Antonio Vivaldi:
“Gloria, gloria, gloria, gloria
in excelsis Deo”
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Sembra che la cristianità tutta si sia data convegno per intonare le lodi al Signore, col più bel canto che mai si sia udito. Allorché vengono accese le candele e le fiaccole, che l’interno della Basilica, da tragico sepolcro, si trasforma in un empireo di luci e di suoni. E proprio quando il Pontefice è vicino a recitare l’omelia del ringraziamento e tutti i presenti si inginocchiano in silenzio, alcuni passi risuonano nel mezzo della navata. Un vecchio dal passo incerto avanza lentamente in mezzo ai fedeli. Poi, d’un tratto si ferma, s’inchina e dice: “Dio ti ringrazio”, e in quell’atto rivolge lo sguardo verso me. È Giustino!, esclamo. Ma Arturo mi strattona per la giacca invitandomi al silenzio.
Man mano che il vecchio si avvicina si fa spazio in me il silenzio della sua voce, la mia mente è invasa da una visione arcana, misteriosa: in un vuoto senza fine Egli cammina solitario attraverso una strada deserta, inciampa in alcuni sassi, quasi cade come sotto il peso d’una invisibile croce, si risolleva, prende a camminare di nuovo, senza meta. Poi la strada diventa un viale alberato spazzato dal vento, ombre informi passano veloci e lo sospingono, torna a cadere e a risollevarsi, poi riprende a camminare di nuovo. Fino a quando, fatto il suo ingresso nella basilica, attraversa la grande navata in mezzo alla folla stipata, e tuttavia senza essere visto da alcuno, e cade di nuovo nell’inginocchiarsi per il ringraziamento. Adesso è qui, vorrei aiutarlo a risollevarsi, ma egli mi fa cenno di no, deve andare avanti da solo, portare la sua croce fin sull’altare, fino alla morte.
Si dice che la morte sia la fine della vita. Al contrario, la riscatta. La salva. Giustino vuole davvero tutto questo?, mi chiedo. “Dio c’è!” diceva sovente, ricordando le parole del pastore. “Dio c’è!”, ripete sollevandosi da terra, e riprende a camminare, più stanco, più lentamente. Lo vedo dirigersi verso l’altare, inginocchiarsi davanti al sommo sacerdote di Cristo. Il Pontefice, tolto il telo violaceo che ricopre il sacro Calice, restituisce a lui attraverso la Comunione, il riscatto salvifico nella morte, la vita eterna. La folla dei presenti, molto lentamente, invade la grande navata e si dirige verso l’altare maggiore per ricevere il Sacramento della Comunione, mentre il coro intona il “Deo Gratias” con veemenza, con maggiore ardore.
La Quaresima è giunta dunque alla sua consumata conclusione. Tutte le campane di Roma a stormo sembrano rallegrarsi nella festa. La cristianità ha ancora una volta rivelato a se stessa e al mondo intero la sua verità. Le parole del Pontefice affacciato alla finestra risuonano nelle orecchie di tutti: “Figli miei, tornate alla devozione, alla modestia, alla temperanza, e le vostre anime saranno degne del Signore”. La voce di uno sconosciuto tra la gente mi colpisce con una frase inquietante: “Ricordatevi sempre che l’Inferno ribolle sotto di voi, pronto ad inghiottirvi”. Una frase detta con voce caduca, sofferente, come
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sussurrata all’orecchio. La morte ha di che agitare la clessidra sopra la porta chiusa, i romani, quelli veri, per quanto con l’animo contrito, già pensano al banchetto a base d’agnello ed ogni ben di Dio, che di lì a poco consueranno.
Non è forse detto: “Aiutete insino a Pasqua, che ddoppo, ‘gni poeta abbusca, ‘gni morto de fame se ne casca!”?
“E che te pare, dice Gigetto che come noi è finito all’osteria del buchetto per una lallera come aperitivo, a Roma abbasta sapè er canale e trovà er bucio pe ficcà er zampetto, a quaresima puro è carnovale!”.
“Il gusto di sentenziare dei romani, dice Arturo, sta nell’importanza dei proverbi, in cui essi danno prova di un’imprevista filosofia, un superstite candore popolare. Chi lo direbbe che sotto la scorza d’una ruvidezza scontrosa e impulsiva, d’una aggressività sempre pronta al battibecco, i romani nascondessero un bene così prezioso?”
“Eh! nun te mette a giudicà, tanto se sa che chi soffia su la cenere se ne j’empie l’occhi, dice Gigetto e che poi aggiunge, nun hai da facce caso, li romani parleno male ma penseno bene, a Roma ausa de dì pane ar pane e vino ar vino. Che ce voi fà, semo fatti accussì. Er perchè, si proprio voi sapello, sta sotto ar culo de Pasquino”.
“Ma tu hai mai pensato alla morte?”, gli chiede tosto Arturo.
E quello: “Antro è pparlà dde morte, antro è mmorì”. Chi more, more. Sai come dimo noi a Roma?: magna bene, caca forte e nun avè paura de la morte. L’urtima minchioneria è proprio quella de morì”.
“Tutto sta a nun tremà quanno se more!”, gli fa eco Arturo con un altra frase proverbiale. E aggiunge: “nisuno po' morì come se pare”.
“Si, dice Gigetto, ma chi sta troppo vicino ar foco infin s’abbrucia”.
“C’è chi spera cor ffoco d’abbruciasse er culo e no la camicia”, gli ribatte Arturo.
“Nun da retta, dice Gigetto, aspetta a ‘vvedé la fine de le cose”.
“E della fede, che ne pensi Giggè?”, chiedo io pensando di prenderlo in contropiede.
“De tutti li cristiani che so’ ar monno, li peggio so’ certo li romani. Ma la barca de la fede nun z’affonna!, risponde. Se dice che chi sputa ‘n cielo jaricasca ‘n faccia. Si, certo, lo Spirto Santo nun abbotta. Ma chi magna e caca, dimo noiantri a Roma, campa da Papa”.
“Non dar retta Giggè, nun è tutt’oro quello c’ariluce”.
“Si, certo, però piove o nun piove er Papa magna lo stesso. Pure San Pietro, prima se fece la barba ppe sè, e poi disse ch’er rasore nun tajava. Così hanno sempre fatto i Chigi, i Torlonia, i Del Drago, i Sacchetti, i Patrizi, i Ruspoli, i Colonna, i Borghese, l’Aldobrandini, i Palombara che la bocca ce
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l’hanno sempre avuta pe la chiesa, ma er core l’hanno avuto solo pe’ i quatrini. E noantri allora che ce stamo affà? A fa la riverenza a lor zignori? A fa li baciaculi pe la strada? A ‘nginocchiasse davanti a questo e a quello abbasta che ciabbieno la tonica prelata? Poi come se sa: morto ‘n papa se ne fa n’antro, doppo questo ce ne viè n’antro, e poi n’antro ancora. È che Roma è sempre stata la villa dei minchioni. Io da parte mia, me pio ‘gni tanto n’indurgenza e si ce scappa arivo puro ar Giubbileo, e ‘n paradiso va a finì che c’arivo co’ tutti li panni. Pure la storia fa la parte sua: noi romani ciavemo er vizio de dì “che me ne frega”, ma quella è un’arte. Come se dice: paradiso perso, inferno aperto”.
“Attento Giggè che le pene dell’Inferno non finiscono mai!” diss’io.
“Un Giubileo pe’ tanti è poco! Qualcuno se le va a cercà cor moccolo”, dice Arturo, facendo sfoggio imprevedibile della lingua popolare.
“Tutte le cose ar monno hanno du’ facce, dice Gigetto, e er monno novo è come quello vecchio. Lo disse mastro Pavolo a Petecchia: “decrina er monno e peggioranno invecchia”.
“Sicché tu non hai paura de’ morì?”
“Avvi paura de li vivi, ssò assai peggio de li morti”
“E de finì all’Inferno?”
“L’orore de l’Inferno sta ner fatto che è irreale, che nun esiste. Der resto, come se dice: la pricissione addov’esce, entra. E io nun stavo forse appresso a quella nel sacro giorno de la risurrezione?”
“Vedi Giggè, l’ora de oggi potrebbe nun esse quella de domani”, gli ribatte Arturo divertito.
“Sai che te dico, che più scuro de mezzanotte nun po’ venì. Chi lo sa ‘ndo tiè la coda er Diavolo? Se dice che li diavoli che nun stanno all’Inferno stanno a Roma. E ppare che se arisveijno ‘gni vvorta che ricade er Giubbileo”
“Questa sì ch’è ‘na notizia!”, dico io.
“Ma, scuseme ‘npò Giggè, gli chiede Arturo, e ‘ndove l’avresti appresa stà notizia?”
“Ce l’ho avuta in zogno, è stato come n’apparizione. Mo tu vedi, primma d’annà a letto, me faccio sempre er segno de la Croce. E no pe’ scrupolo de coscienza, ma così, come se dice qui, pe fregà er santaro. E quanno che ho spento er lume me sò preso quasi no spavento. Dentro de me dicevo: m’ha sgamato, pensanno a Dio. E ‘n vece era nu Diavolo co’ le corna tese. E tu che vvoi?, jò detto a quello. Te vorebbe ariccontà un fatterello, disse lui, sedennose sur letto: Mo tu preparate a riceve ‘n zò che fortuna, c’ariccoierai li sordi co’ la pala. Sai quer vinello che tieni nascosto? Beh, preparane, che sò, un gran vascone, che a un certo giorno, quanno serà cominciata la tenzone, der
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Giubileo s’intenne, lo darò a beve pe’ tutte le funtanelle. E chi c’enzupperà er becco e chi la bocca, tutti a la fine se la pierà ‘n saccoccia: a chi inzieme ar core, jè scoppierà la coccia; a chi contro la voja je s’arzerà l’ucello. E allora sai che ride, quanno d’en mezzo all’orgia, usciranno li diavoli da Castello. En fine, se spalancherà quer vòto sott’ar culo de San Pietro, pe’ sprofonnalli tutti, con un peto. E se ‘na gnede. Lasciannome ‘na puzza drento er letto, che me sembrava d’essemeormai cacato addosso”.
“A Giggé, n’è che per caso, fossi ‘n po' mbriaco?, gli chiede Arturo. Come ben sai: ” Il diavolo fa le pile e no i coperchi” e questa l’hai inventata sana, sana, la volta che “tu moije” te le diede.
“De certo che lo so, e sò pure che nun se buggera er santaro. Chi sparte, è risaputo cià la mejo parte. Ma guai se le chiacchere le pijassero ar Monte de Pietà. È risaputo che a la commedia ce se va pe’ ride.”
“Beh! ciao Giggè, adesso ce n’annamo, prima che incomincia a piova. E quanno a Roma piove, come se sà: “ ce fa’ certi goccioloni”.
“Annate, annate pure, tanto su la porta dell’osteria come der camposanto c’è scritto: girate quanto voi che sempre qui v’aspetto”.
“In altre parole, dice Arturo, riferendosi a Gigetto, adesso che il Giubileo è alle porte, una storia come questa suona all’orecchio come il ripetersi d’una profezia”.
“Con questo che voi dì, che quella che non s’è avverata l’Anno Mille, potrebbe sempre avverarsi nel Duemila?”
“È così che funziona, conferma Arturo, quantomeno bisognerebbe avere fede, per accedere a quella verità. E prende a recitare Pascarella:
Ma... ciai quarche dubbio? Tiettelo per te.
La Fede è bella senza li “chissà”,
senza li “come” e senza li “perché”. (64)
“Sai che c’è, gli rispondo con la solita ironia, non tanto mi preoccupa ormai la verità, quanto invece mi preoccupa questa nostra fede. Qui, fra Santi presunti, e Diavoli acquattati, non ci rimane spazio per nessuno. E se l’Inferno non è che un tormentone, neppure il Paradiso sembra bello: che annacce sembrerebbe da minchione”.
“Dai retta a me, mi risponde Arturo sulle rime, è meglio lasciar le cose come stanno, come si dice? Se non sappiamo dove l’anima va a finire prima che facci notte, è meglio “da’ ‘na botta ar cerchio e una alla botte”.
“In fondo, l’ammetto, che a ben guardarla questa Roma s’è rivestita di malinconica. Sarà per via della giornata uggiosa, ma a me sembra, che con
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l’andar del tempo, si sia un po’ crinata. È un fatto che col nuovo riassetto “cittadino”, abbia perso quel suo aspetto “casereccio”, un po’ provinciale e un po’ burino. Che l’andamento del fiume scorre più lento dentro la storia, e nessuno ormai più non si gloria che d’una vanità sola: quella d’ammascherasse come ‘na puttana”.
“Ma no, no, mi riprende Arturo, non è così. Roma, in verità, non vuole annisconne la propria identità. Tutto è cambiato e tutto resta uguale, come sempre accade a sta città.”
“Eppure col tempo qualche cosa è sparita!, dico.
“No, risponde lui, è sparita una vita, quella di Giustino, e di quella è rimasta un’eco tremula, straziante. Di tutto il resto non è sparito niente, e pare un miracolo. Ma tale è questa Roma, come quella di tanto tempo fa, sempre la stessa. E Giustino e Giggetto, tu ed io, e tutti quanti a Roma, stiamo come sospesi entro un vuoto, ove il sole s’adagia e perde tempo, e come filtrata dall’eternità, nella luce che c’illumina d’immenso.”
“Ma in fondo cos’è quest’eternità... è Arturo, cos’è davvero questa eternità?”
“No, dice sommesso, non è questo il tema del racconto. E a dirla in breve, adesso ti saluto, che ormai più non rispondo. Non vedi anche tu che Roma ha perso la parola? Che lascia il posto ai sogni e che s’invola? Il tempo ormai è, per dirla con le parole del poeta, di chi si bea, che prima ancor che facci notte, s’è fatto sera”:
“S’è fatto sera, er sole s’annisconne
e tigne de violetto er cèlo azzuro
l’ombre se fanno er nido addosso ar muro
e Fiume smorza er verde su’le sponne.
L’urtime rondinelle vagabonne
giocheno a acchiapparella ar chiaroscuro
e er ponentino intrufola un sussuro
fra l’arberate...e stuzzica le fronne.
Le stelle opreno l’occhi a poco a poco,
finnanno ne’ lo spazio senza fine
un carosello d’attimi de foco.
E mentre che la luna s’arza er velo,
Roma, che già s’addorme, opre er confine
pe sparpaijà li sogni verzo er cèlo”. (65)

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