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Il Volo Interrotto

Argomento: Letteratura

di Teresa Nastri
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Pubblicato il 09/04/2014 16:32:05

                                         Il Volo Interrotto
                              (Un ricordo di Marcella D'Arle)
Un giorno la trovai in ufficio ad aspettarmi, e la sua figura mi parve più straordinaria e pittoresca che mai. I capelli lisci, di un biondo ormai smorzato, le stavano appiccicati alle orecchie che appena ricoprivano, e l'eterna frangia le cadeva sulla fronte fin quasi a confondersi con le sopracciglia. Sulle spalle aveva il vecchio lapin bianco, un po' ingiallito; sul petto, le pesanti catene coi complicati medaglioni arabi facevano pendant con la fibbia di metallo lavorato, che chiudeva in vita una vecchia cintura elasticizzata, arrotolata a mo' di un cordone. Ceste di paglia colorata, legate con spago e cinghie, erano poggiate ovunque, e dai coperchi spuntavano gli oggetti più disparati: bacchette da tavola cinese, un drappo di seta bianca, il tacco di uno zoccolo.
“Ho fatto due conferenze che son costate alla Lauro almeno un milione l’una. Da restarci secca!”
Non capivo. Chiesi: “Da dove viene?”
“Sono in transito sull’Achille Lauro, abbiamo fatto una crociera di 65 giorni, ma io voglio sbarcare a Genova e proseguire per Vienna. Perciò, carina, dovrebbe farmi il piacere di portarmi questa roba ad Amalfi.’’
“E così è stata finalmente in Estremo Oriente, ce l’ha fatta!”.
In occasione di precedenti viaggi ero riuscita a farle ottenere condizioni vantaggiose in cambio di qualche articolo sulle nostre rotte turistiche, ma la compagnia per la quale lavoravo non aveva destinazioni in Estremo Oriente.
“Pensi che mi hanno dato una grande cabina tutta per me. Una fortuna!”
Finalmente cominciò a raccontare tutto dal principio: la lettera alla compagnia armatrice, la telefonata della compagnia al suo numero di Vienna, lo sconto in cambio di qualche conferenza a bordo.
“Non ci avevo mai pensato, sa? Ho preparato tutto in fretta, le diapositive, gli appunti, i ritagli dei giornali... Un successo. Alla serata per i tedeschi il locale era pieno. A quella per gli italiani c’erano un centinaio di persone, ed erano comunque tanti, sa? Gli italiani in vacanza non è che si interessino molto alle conferenze.”
La conoscevo da vent’anni. Mi chiesi che età potesse avere: era impossibile dirlo dal suo aspetto. Dall’esuberanza entusiastica del carattere, dal suo dinamismo, dalla capacità di adattamento a tutte le situazioni (con la sola eccezione dell’impossibilità, per lei quasi fisiologica, di dividere la camera da letto con chicchessia), la si sarebbe detta un’adolescente,
ma con tratti così contrastanti che sembravano appartenere ad epoche distanti fra loro.
Ricordo i suoi slanci verbali, ma anche gli improvvisi rossori non appena si parlasse di questioni sessuali (“non mi dica che lei approva l’aborto, le pillole?... che vergogna, ma perché non si può essere casti?”).
Un tempo era stata giornalista ed aveva vissuto un momento di grande notorietà quando - con l’appoggio di Re Saud - si era introdotta nella Mecca, travestita da musulmana, e aveva realizzato il suo reportage più importante. Da allora, il suo biglietto di presentazione era sempre stato lo stesso: Sono stata alla Mecca. Una volta mi aveva mostrato alcune fotografie in cui indossava il meraviglioso abito donatole dal monarca saudita: con l’espressione del volto ‘controllata’ per l’occasione, la somiglianza con Greta Garbo era fulminante. Anche quel giorno la notai, e glielo dissi. “Sì - mi rispose con assoluta serietà - però lei si è fatta brutta, mentre io sono ancora carina”. Ma il sorriso pronto e infantilmente civettuolo la distingueva dalla divina e la rendeva diversamente meravigliosa, umana e vicina.
Parlammo del suo viaggio. “No, la Tailandia non mi ha lasciato col fiato sospeso. Amalfi, mi lascia col fiato sospeso, e la vista dalla mia casa di Pogèrola. Trinità dei Monti e Piazza Navona mi lasciano col fiato sospeso. E il Colosseo, e... sissignora, stanno tutte in Italia le cose più belle. I famosi templi di Bangkok non sono la Bellezza. Vede, in tedesco si dice Konditoreien , pasticcini colorati, come si dice... pastocchie. Sembrano di cartapesta. E Hong Kong è una città senza Dio. Però... il Taj Mahal mi lascia col fiato sospeso.”
Scriveva romanzi per ragazzi, storie bellissime quasi tutte ambientate nel mondo arabo. Scriveva in tedesco, ma da qualche anno aveva cominciato a tradursi da sola in italiano.
Professionalmente stava vivendo un periodo felice: in Austria preparavano la ristampa di due libri, proprio mentre ne usciva uno nuovo, di cui promise di regalarmi una copia: “Die Herrin der Sahara, da restarci secca, vedrà!”.
La ricordavo da sempre amica di tutti, capace di vivere giorno e notte sui ciottoli della spiaggetta di Amalfi, dove da tempo non era più un’attrazione, ma una presenza imprescindibile e integrata alla fisionomia stessa della città: come il mare, la strada serpeggiante tagliata nella roccia, e i mosaici della facciata del duomo. Ma quel giorno, in ufficio, non so più come, ad un certo momento il discorso scivolò - per mia sbadataggine - sulla politica e sui problemi sociali.
“Non mi dica che fa la comunista!”, esclamò guardandomi perplessa e dispiaciuta. “Beh, faccia pure la comunista cristiana...”, aggiunse quasi timidamente, col tono di chi si trovi in presenza di un’alternativa difficile - tra i vincoli di una fede esigente e quelli di un’indole che rifugge da ogni contrapposizione. E alla parola “consumismo”, da me pronunciata ancora più
incautamente, chiese con incredibile candore: “Che cos’è?”. La guardai a lungo, quasi cercando nelle linee del volto, nella limpidezza di uno sguardo che sembrava non conoscere doppiezza, il segreto di un modo di esistenza in cui l’aderenza materiale alla necessità del quotidiano appariva depurata delle contraddizioni più laceranti. Ma com’era riuscita a disinnescare la latente conflittualità su cui sembra radicarsi la stessa possibilità di ogni rapporto umano?
Per la prima volta, vidi nella sua espressione una serietà quasi spaventata. Qualcosa che non riuscivo a decifrare mi causò un oscuro disagio, come un presagio di colpa.

La fissavo incerta, sembrava rimpicciolita di colpo e come rannicchiata su se stessa. Poi la voce le si spense in un sussurro: “Vede, io ho sofferto tanto per la politica...” Vagamente mi ricordai che una volta, parlando di arabi e di israeliani, lei aveva accennato a un suo essere in parte di origine ebraica. Oppure lo era sua madre? no, non ero più sicura di cosa mi avesse detto.
Tentando di ricordare, mi venne in mente con chiarezza una sua osservazione, secondo la quale se non si era ebrei, nella Vienna dell’epoca, “non si entrava in certi ambienti”.
La guardavo e avrei voluto riprendere a parlare dei templi tailandesi, per cancellare quella svolta nella nostra conversazione. Ma ero sotto l’effetto di una sorpresa, e la rivelazione giunse inaspettata, prima che potessi prevenirla.
“Io sono stata anche in prigione, perché non potevano prendere mia madre, non riuscirono mai a prenderla. Ma un giorno vennero a casa, a Vienna, e trovarono tanti passaporti in un cassetto chiuso a chiave. Io non sapevo nulla, ma mia madre aiutava gli antifascisti a fuggire, così presero me e volevano fucilarmi. Quando mi lasciarono, dopo tre settimane, dissero che dovevo andarmene come straniera indesiderabile. Era di giovedì. Il sabato mi sposai e non poterono più cacciarmi. E poi, ogni volta che pubblicavo una novella, arrivavano le lettere al giornale perché non mi accettassero, che ero figlia di antifascisti... Vede, mia madre era redattrice dell’Avanti quando Mussolini era il direttore, e anche mio padre era un collaboratore di Mussolini. A Genova c’è una piazza intitolata a lui, c’è scritto 'Statista ed Educatore di Popoli', non so bene. Ogni tanto litigavano perché una era un po’ più socialista dell’altro. Una volta a Vienna venne da noi anche Saragat e non so chi altro. Mia madre era forte, aggressiva, una grande antifascista. Mio padre era più dolce, moderato. Io non sapevo niente, ma poi è stata dura, sa!... Vedersi sbarrare gli usci, le strade...”.
Una sofferenza oscura e profonda pareva salire, con la voce, dai recessi più segreti dell’anima, diventava palpabile e, mentre lei parlava, ogni frase sembrava accumulare anni su quel viso, che era stato così a lungo senza età visibile. Avrei voluto cancellare del tutto quell’ultima ora, restituirle quell’innocenza delle cose del mondo che lei si era costruita radicandola in un primordiale istinto di sopravvivenza, così saldamente da cancellare nella coscienza i contorni delle cose. Fino a confonderne il significato doloroso.
Sono trascorsi tanti anni, e per l'imprevedibile concatenazione di molte circostanze non ho più rivisto Marcella. Ma ripensando a quel lontano incontro mi sento ogni volta come chi abbia per sventatezza calpestato l’ala di una tortora fermatasi al suolo a beccare, e si chieda, sospirando di rimorso, se il volo interrotto poté mai essere ripreso.


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