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Dove abita l’utopia

Poesia e Prosa

Stefania Fanesi Ferretti
Premio Libero Ferretti

Recensione di Maria Grazia Maiorino
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Pubblicato il 16/06/2017 12:00:00



Filo d’invisibile argento - Una storia d’amore

 

 

Un filo d’invisibile argento, “sinuoso, leggero, persino soave “, scende dall’alto nel momento della morte dell’amato e si dipana dal bozzolo che ne avvolgeva l’anima e il corpo, inesorabilmente tagliato e oscillante. Visione insolita, forse presentimento. Stefania, pur annichilita dal dolore, intuisce dal primo istante che raccoglierà quel filo d’aquilone e proverà a tessere l’abito di un nuovo amore, senza avere alcuna sicurezza della riuscita, perché una parte di lei era dentro il bozzolo disfatto e quella parte se ne è andata con lui.

Ma l’amore è un mistero, è un miracolo l’amore, capace di scavare nell’assenza le sue vie imperscrutabili. Stefania si affida alle parole, le lascia fluire in frammenti, balbettii, gocce, schegge, riflessi; le lascia scendere e salire, cucire e scucire, recuperando memorie e attingendo ai suoi strumenti di lavoro, primo fra tutti quell’arte di tradurre che ha esercitato a lungo con appassionato impegno, e che significa immedesimarsi nel mondo dell’altro, entrare nella sua lingua e trasformarla. Non può dimenticare di aver respirato la pittura fin da bambina, lei figlia di Bruno Fanesi, artista marchigiano fortemente legato al paesaggio della sua origine anche quando se ne allontana, e moglie di Libero Ferretti, architetto e pittore anconetano scomparso prematuramente nel 2000“, sua città di adozione.

Anche il dialogo con gli autori più cari – Emily Dickinson, Wislava Szymborska, Rimbaud, Kafka e tanti altri – offre un all’autrice un appiglio prezioso per entrare nella materia dei quadri lasciati da Libero. Sarà infatti un ridipingere, uno spogliarsi di sé per rivestire le forme dell’altro; per ricrearne i simboli, le figure, il viaggio e il vento, lasciandosi trasportare da un’energia sconosciuta ma certa. Così affiorano le immagini che lentamente l’accompagnano, come a ricomporre i tasselli di un sogno dimenticato nelle pagine di prose poetiche che formano la prima parte di questo libro.

La prima immagine è la camera oscura, luogo di trasformazione alchemica e di stupite riapparizioni, esercizio di silenzio e di ascolto. La mia scrittura ha creato il suo “quadro”, dice Stefania. E noi lettori sentiamo che le parole, nutrite di sentimento e visionarietà, riescono nella loro piccolezza di semplici segni, nero su bianco, ad incarnarsi e a traghettarci lungo la corrente di un fiume che riprende a scorrere, calamitandoci in un flusso meditativo, sensuale, avventuroso…

Poi lo specchio, al quale si chiede di vedere come se fosse l’occhio dell’amato, e la necessità di andare oltre lo specchio, perché esso può soltanto riflettere una donna dimezzata, prigioniera, “rossa gelatina di desiderio”. Discesa agli inferi e perduta nel vuoto dell’abbandono. Ma l’abbandono è anche un lasciarsi andare, una resa alla nudità della propria anima. E’ riprendere in mano il filo d’argento della vita/morte/rinascita e partorire altre immagini, sempre fecondate da luce di gemme, frammenti di specchi, corpi iridati e obelischi, enigmi affioranti dalla sabbia, colori e voli dei quadri di Libero.

Infine il ponte e la piramide, che segnano i punti culminanti del viaggio. Le parole vorrebbero costruire un ponte per unire due rive gemelle ma disperatamente divise dall’assenza. Cercano il contatto con l’invisibile, vogliono andare oltre lo specchio per raggiungere le figure dell’immaginario. Possibilità? Pericolosa illusione? Incontriamo nel racconto una citazione di Kafka che sembra negare ogni speranza di proseguire il faticoso cammino: “Chi era? Un bambino? Un sogno? Un bandito? Un suicida? Un tentatore? Un distruttore? E mi girai per vederlo. Un ponte che si volta? Non mi ero ancora voltato che già precipitavo ed ero straziato e infilzato sui sassi aguzzi che mi avevano sempre fissato così pacifici dall’acqua impetuosa”.

 Bella e raggelante questa orfica fantasia di metamorfosi. Ma lo stesso Kafka ha detto: “La fermezza che mi dà il minimo scritto è meravigliosa e indubitata”. E’ una riflessione che ci conforta come un amuleto. Pensiamo a Giacomo Leopardi, alle sue invettive contro la natura matrigna e al suo rivolgersi alla luna con i dolci e semplici aggettivi che si usano per una ragazza di cui si è innamorati.

La parola, la dolce umile semplice parola alla fine vince, e ricama al centro della tela/scrittura, con lo stesso filo dorato del pittore, il simbolo della piramide. La forma del fuoco, secondo l’etimologia. Il monte l’ascesa la verticalità. La sepoltura il fondo l’abisso. Lo scrigno, il cuore del cristallo, “la caverna spalancata nell’inaccessibile e nell’ignoto”. Inganno e pietra filosofale.

Raggiunto grembo materno vissuto nuovamente in pienezza, nella consapevole conciliazione tra vita e morte. Parole del grande poeta Rainer Maria Rilke , risonanti nella lingua tedesca con la quale Stefania ha una lunga consuetudine di traduttrice, sono messe a suggello, sono fatte proprie perché coincidono alla perfezione con il cammino percorso fin qui: “Bisogna imparare a morire: ecco in che cosa consiste tutto il vivere. Noi dobbiamo accogliere la nostra esistenza quanto più ampiamente ci riesca; tutto, anche l’inaudito, deve essere ivi possibile …”

Nel grembo Piramide si è già formato il seme che darà frutto: Esso verrà chiamato con un nome egualmente antico, dalla storia affascinante e sofferta a un tempo. Utopia. Luogo non luogo, e perciò il luogo del desiderio, dell’indicibile e dell’ignoto che ci sovrasta. Come non pensare a un tesoro sepolto, a una luce che rischiara qualcosa che prima non c’era?

Il dolore, finite tutte le lacrime, può mandare nastri di luce come la grande e magica lanterna di un faro, uno degli emblemi scelti da Libero Ferretti per rappresentare la sua città di mare. Utopia era nei suoi quadri, era il vento, era il deserto, era la piramide, era la sua arte, ed è sempre l’arte nella sua essenza più vera.

Di gradino in gradino, perdendosi e ritrovandosi, con femminile pazienza, cura e perseveranza, Stefania ha espresso la sua creatività sia nel dare forma a una prosa lirica originale e autentica sia nel realizzare, insieme al figlio Sandro, il progetto del premio rivolto a giovani artisti e architetti, affinché non vada perduto il lascito di un pittore che se ne è andato toppo presto. Il libro Dove abita l’utopia è anche un regalo di compleanno per gli undici anni del premio così intitolato, di cui si dà conto nella seconda parte del volume attraverso un ricco repertorio di immagini, testimonianze, notizie biobibliografiche e contributi critici.

 


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