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La fiaba delle emozioni

di Valentina Grazia Harè
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Pubblicato il 16/08/2011 14:24:01

In un paese chiamato Pacello per il semplice fatto che era un piccolo paese pieno di pace cosicché tutti, con poco volo di fantasia, lo fecero derivare da Paesello. Ma a supplire questa triste mancanza di fantasia -che era anche un po' dovuta alla mancanza di emozioni- un giorno venne al mondo una bambina che ne aveva abbastanza per tutti, e a volte si divertiva a nasconderne un pochino nel cestino della spazzatura per sorprendere gli altri di non averne più così tanto come si aspettavano loro. Siccome era una cosa molto strana, la cosa più strana che potesse capitare nel paese, usciva su tutti i giornali e la gente trasecolava. Dicevano: "ma come può essere che le emozioni di Selfeamor non abbiano raggiunto il quantitativo solito: è il rifornimento industriale di tutto il paese. Così è peggio di un black- out"

Le emozioni le nascondeva sempre nella spazzatura poiché così si vendicava contro queste che la facevano soffrire così tanto, nonostante fossero bellissime, ma la regola era: "più in alto vai più possibilità hai di cadere" e allora la ragazza gioiva e soffriva al ricordo di ogni gioia.

Un giorno il sole era generoso e i suoi raggi sapevano di un incanto, così incanto che la ragazza sentiva di volerlo ringraziare, e allora si chiese come...

"Io cosa so darti, sole?", gli chiese mentre lui gratuitamente la abbracciava.

Più ci pensava più si rispondeva: "io non ho niente da dare al sole", e si disperava.

Eppure tanta fu la commozione di quell'abbraccio dolcissimo che lei sentì nascere dentro al suo petto un gemello di quel sole. Era insomma come se i raggi le avessero penetrato il cuore e da lì una piccola calda presenza danzava in lei e scoppiettava di bellezza infinita; anche nei suoi occhi.

"Allora", a un tratto sentì di avere capito tutto quello che doveva capire: "certo! alle emozioni io rispondo con le emozioni. E anche perché il sole ha scelto me, ha scelto d'illuminarmi, di regalarmi il mondo con i cieli e i mari profondi e... ancora di più! mi ha dato il forte desiderio di voler guardare questi mari e questi cieli insieme ad altri occhi... che ne so? magari per sentire più veri questi miracoli..."

E si innamorava così tanto delle sue idee e soprattutto delle emozioni che quelle teneramente partorivano, e si innamorava di ogni cosa, niente per lei era privo di fascino: anche le finestre della sua stanza che per metà erano occhi chiusi, per metà occhi aperti, le piaceva paragonarle a bellissimi amplessi col mondo, quando da un canto hai paura del troppo splendore, dall'altro ti abbandoni al richiamo dei colori e con slancio fortissimo desideri possedere lo spettacolo che è fuori. Per poi cullarlo sempre dentro di te.

Tutto queste cose le facevano pensare le finestre, e quando lo raccontava agli altri tutti dicevano, sorridendole di una forzata allegria: "sì, è vero, hai molta fantasia, ma a cosa credi che serva tutto questo volare?"

"E invece mi serve!", protestava quasi gridando. Voleva difendere le uniche cose stupende che brillavano in lei. Non sapeva precisamente a cosa servissero tutte queste cose che sentiva, solo sapeva che era bellissimo sentirle. Però di una cosa era certa: se gliele avessero tolte, anche lei sarebbe morta.

Un giorno arrivò il tempo di dover arrangiarsi da sola e le dissero: "da oggi dovrai tenere più ai soldi che alla fantasia perché la fantasia non produce niente di pratico"

Quindi, sforzandosi di capire, la ragazza ebbe chiaro il concetto: lavorare è necessario, se io continuo a correre per i prati e a carezzare le piantine che il vento strapazza, non potrò neanche mangiare...

Però non ne voleva sapere di smettere di essere se stessa.

E da quel momento, più forti erano le emozioni durante il giorno più grandi erano gli schiaffi che il buio le dava quando sul suo lettino cercava di dormire. Eppure una cosa non escludeva l'altra. Il giorno correva di gioia, la sera era immobile dal dolore.

Non sapeva più cosa fare. Chiedeva sempre a Dio di aiutarla. Ma a volte credeva di parlare da sola perché lui sembrava sordo anche alla disperazione delle sue creature, che lui diceva perfette. Un giorno Dio la avrebbe ascoltata. Ma prima bisogna descrivere come avveniva questa trasformazione dal piacere al dolore.



La sua esperienza più dolcemente forte era quella di stendersi su un prato e farsi carezzare da ogni filo d'erba, e farsi solleticare. E poi guardare l’orizzonte e parlarci. E la cosa veramente bella era che lui -così enorme- entrava tutto nei suoi occhi. E le rispondeva anche passando dal rosa chiaro al violetto: si cambiava d’abito per lei! E quindi la ragazza non poteva non amarlo e diceva: "ti abbraccio con lo sguardo, fa lo stesso?" E questi rispondeva con un rosso acceso che era il sì alla vita. Perché era proprio colorato di sentimento ardente per tutti i suoi ospiti, piccoli e formicolanti. Ma in ogni più piccolo ospite lui trovava spazio in abbondanza: era questa la magica relatività della vita che l’orizzonte aveva insegnato alla ragazza.



Ma cosa succedeva la sera, quando tutto intorno si spegneva? La finestra era chiusa, una rosa ritrosa e spaventata al buio.

Guardandosi le braccia, alla luce di una piccolissima lampadina, Selfeamor poteva ben distinguere nelle ferite quelle che erano state le carezze dei fili d’erba sulla sua pelle. E come bruciavano, adesso!

Poi al mattino non aveva più niente e, più del giorno precedente, tornava la voglia incontenibile del sole, di toccare la terra bagnata e passarla sul viso per ricevere la sua fresca carezza, come a ricordarle di avere una faccia. Perché, potrebbe sembrare strano, ma lei aveva questa urgenza di sentire i fili d’erba come un soffio, il sole come un abbraccio, la terra come una carezza, perché altrimenti non avrebbe sentito di avere -eh sì- una faccia. Poiché, forse questo è il nodo di questa favola, la ragazza era figlia di due medici legali, e non avevano mai fatto differenza nel trattare i morti e la bambina… Quando la prendevano per mano lei sentiva di essere una borsa o uno spazzolino; avevano sempre giocato a ucciderla col loro corpo e i loro modi di ghiaccio, e in lei invece era invincibile la ribellione, la lotta a sangue per sentire il sole.



La terra che si era passata come una sciocca sul viso, anche assaggiandola, come un bacio indiscreto ma dolce, alla sera le aveva provocato delle puntine in tutta la faccia e la bocca era ferita.

"Ma io non posso vivere senza essere baciata o accarezzata!" Gridava così tutta la sua dolcezza soffocata da un inverno troppo precoce sulla sua pelle.

"Dio, ti prego, fammi sparire le mani e le braccia, cosicché io non senta più il dolore delle mie ferite!"

Infatti presto fu esaudita, niente più dolore, ma niente più fili d’erba; si disse: "ma io ho ancora le gambe, i piedi... ho ancora tante cose, però poi anche ciò mi farà male. Come devo fare?” Parlava da sola nella sua stanza non smettendo di piangere. Non volle vedere nessuno per mesi. Si vergognava a farsi vedere senza braccia.

E nella sua solitudine disperata chiese ancora a Dio di farle scomparire le guance, la bocca, poi anche le gambe e rimasero solo degli occhi aperti nel buio che nessuno vedeva e che piangevano ininterrottamente, al punto che tutto Pacello si riempì di pianto, e tutti furono costretti a nuotare per le stradine.

La gente sentiva molto la mancanza di Selfeamor, ma non se ne spiegava la così misteriosa scomparsa. Sembrava che sui prati di quel paese una matrigna carezza avesse posto un sudario. Non c’era più un fiore neanche a pagarlo oro e oro.



Ma quando per sbaglio un uomo ingoiò un po’ di quel pianto, fece una terribile e bellissima scoperta: si sentiva vibrare tutto il corpo e il cuore aveva come un orgasmo. Allora lo comunicò a tutti quelli che incontrava, raggiante, e di primo acchito tutti ridevano, poi uno provò e dovette ammettere che una grandissima gioia si impossessava piano piano di lui. E così tutto il paese si ubriacava di lacrime, quelle lacrime così buone e sincere. Le lacrime alle quali nessuno aveva mai creduto quando la ragazza era viva.

Allora il dolore si convertiva in gioia, ed era l’esatto contrario di quello che accadeva a Selfeamor in vita. Perché la gente di quel paese non aveva mai pianto e bere il pianto di lei fu un’esperienza indimenticabile per tutti, e finalmente tutti cominciarono a provare emozioni, forse le stesse che aveva provato colei che era morta.

In vita aveva provato a raccontare, e lo sapeva fare bene, tutto ciò che provava, ma la gente non rispondeva in maniera autentica e veramente coinvolta al tumulto delle sue sensazioni.

Ma soltanto conoscendo il suo pianto, bevendolo, la gente poté conoscere la vera gioia della vita.

Allora Selfeamor sorrise per sempre sulle labbra di tutti e si disse, lo disse il vento perché lei ormai era vento: "Se tengo solo per me le emozioni, loro mi fanno male, ma se altra gente -come ora accade- ride col mio sorriso e beve il mio pianto- allora le emozioni non mi fanno più male! ho dovuto morire per capirlo, ma ora sono felice!"

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