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La barca capovolta

di Valentina Grazia Harè
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Pubblicato il 03/09/2011 20:15:11

Stava sorprendendolo di nuovo il ricordo –quello che lo mordeva e gli rimordeva da tanto tempo, insidioso come un verme in un frutto: il frutto più delizioso di tutta la sua vita: averla amata.
Che cosa rimaneva di tutta quella poesia, ora scottante, a quest’uomo?
“E’ orribile”, pensava, “come quei giorni, che io ho amato come il figlio più caro, adesso mi riconoscono come un padre degenere. Eppure li ho amati, li ho partoriti io. Sì, questo è stato il mio destino. Destino! Questa parola mi tormenta, fosse una parola! Invece sono mille, duemila, milioni di parole… il che vuol dire ricordi, splendente bellezza di un viso che ora uccide, sogno che prima era intero e noi eravamo due, e ora io sono uno, uno!, e il sogno è in mille cocci, così aguzzi che mi hanno tagliato il cuore irrimediabilmente. Sì, perché non credo più a niente ora, dal momento che ero signore e padrone nel sentimento, avevo braccia, ormai inutili, per sembrarle il mare e lei nuotava dolcemente aggrappandosi a me. Avevo storie che inventavo io stesso, e lei come stregata… ah quanto male le ho fatto, egoista!, lei stava assorta ad ascoltarmi, piccola, innamorata, e con una curiosità un po’ spaventata, come una bimba emozionata al primo giorno di scuola. Tutto questo onore era per me! Pensavo fosse una bella cosa, mi dicevo: lei mi ama moltissimo, lei ha un disperato bisogno d’amore e io ho bisogno di sapere che la sto aiutando. Non è solo per me che l’ho fatto, credetemi, io l’amavo, e l’amo ancora… ma sapete l’errore dove è stato? Bene, l’errore era che io sapevo che non sarei restato a lungo nel piccolo paese dove abitavamo, e tuttavia l’ho illusa che sarebbe stato per sempre. Il fatto è che anch’io avevo bisogno di essere amato e l’ho illusa, quindi, per illudermi”.

Il nome dell’uomo, beffardo e sincero: Primo Re, era uno specchio macchiato di sangue, che gli rimandava con lancinante precisione tutto ciò che era stato e, quindi, tutto ciò che era. Forse il primo dei re del rimpianto e del senso di colpa, il primo, il sopravvissuto re che ha escluso tutti i suoi compagni, sapendo che, se prima era stato il re di una doppia felicità, ora era il re della passata felicità, vale a dire il re del ricordo, del bicchiere a volte usato come confessore e poi come fanfarone che cambia la realtà e inganna con amore chi soffre, come sonnifero; il re dei colori sbiaditi, dei sorrisi anziani nella spontaneità. Prima tutto era naturale come fare l’amore con chi si ama.
E ora?

Ora l’unica compagna di questa penosa e pesante solitudine era la musica. Qualche briciola di dolente poesia era rimasta nella sua anima. E anche se non parlava con nessuno da mesi, non si era arreso al silenzio dei ricordi che è la fine di tutto. Quei ricordi continuavano a cantare attraverso i suoi dischi. E, se anche soffriva, era meglio una malinconia autentica che un’ allegria fasulla. Lui era sempre per la verità. Solo quella frase, sarebbe bastata solo quella: <<senti, io poi partirò>>
Questa sì che era la verità che lui avrebbe dovuto dire, ma non era mai riuscito a pronunciare queste poche e brucianti parole. E anche ora, a distanza di anni, queste parole continuava a non ascoltare. Il suo sbaglio più enorme: fardello di ieri, flagello di oggi.
Amari i momenti in cui questa consapevolezza diventava una croce e una bocca. La bocca lo attirava e la croce poi lo feriva. Anche la sensualità di lei, del ricordo, continuava ad agire su di lui: amava quello che era stato e quello che non poteva essere più. Ma il suo corpo era triste e la stanza era vuota.
E quasi odiava il suo corpo, che era ormai dove la strada diventa più buia. Con lei giocavano a indovinare l’estate, con lei tutto era così meravigliosamente nudo, i corpi come il cuore. E anche le parole che sognavano insieme erano nude di censure e aperte come un regalo.

Primo Re faceva, che terribile e simbolico gioco della sorte!, i tarocchi alla gente. Aveva bisogno di pensare al destino degli altri per non pensare al suo.
“Cosa mi riserva il futuro?”, una donna truccatissima e incerta domandò all’uomo.
Questi fece un sorriso pieno di lontananze; come ogni volta quando gli facevano una domanda come questa.

La donna, toccata anche lei forse dalla medesima, offesa solitudine, sprofondò in uno sguardo senza più occhi, viaggiati lontano per non soffrire il presente di quelle parole.
“Allora?”, fu il duro aggancio di lei alla realtà.
“Qui vedo dei giorni”, l’indovino disse, “tanti giorni che non hanno più il piacere del loro scorrere. E una stanza vuota, una casa senza amore e senza bambini, non sento musica nel suo futuro, insomma”.
“Lei è cattivo però! Mi scusi!”
“Io ho imparato a capire gli occhi, mi perdoni, signora”
“E a che scopo demoralizzare la gente?”, quanta sofferenza in questa domanda. E anche quanta paura.
“Per unirci, perché un corpo ha bisogno di vuoto per muoversi, lo ha studiato anche lei, no? Ma è un concetto meno filosofico di quanto si possa pensare. Cioè, mi spiego, per incontrarci ci vuole il vuoto del dolore, per poter compiere il passo che ci unisce. Se non ci fosse vuoto… va bene, diciamo spazio (che fa meno male) fra noi, non cammineremmo più l’una verso l’altro”
“Ma è strano: ora non mi sento tanto sola, nonostante abbia la mia sorte!”
“Allora ha visto che il discorso sul vuoto è vero? Tutto sta nell’incontrarsi e poi le lacrime fanno il resto”.
Improvvisamente venne a Primo un desiderio spietato di dire qualcosa di buono a qualcuno, fosse anche una piccola bugia. Ma voleva crederci, era come fare il ruffiano col destino, voleva un piccolo regalo, magari che una donna gli dicesse: “anch’io ci sono passata e ancora soffro, io ti capisco. Possiamo riscrivere una storia, diversa e felice, insieme!”
Questo era quello che sognava. Una, solo una che comprendesse il suo passato e come si sentiva ora. E poi forse si sarebbero addormentati fantasticando la vita che li aspettava da tempo.
Aveva paura di essere solo un bimbo che pretende tutta l’attenzione, che piange e batte i piedi, perché nessuno si accorge di lui e Primo Re quasi si era abituato ad essere trascurato e anche la felicità gli sembrava un affare non suo. Ma appannaggio di chi se la merita e lui era quello che aveva illuso, lui era l’usuraio della felicità, a buon prezzo ma con alti interessi… un discorso come questo, così assordante, non gli faceva sentire la felicità. Poi si sentiva simile a Beethoven, con la stessa condanna: quella di non sentire più, ma quella di lui era più grave perché non sentiva più col cuore. E avrebbe voluto essere come il compositore per non sentire più le voci attorno a lui, e invece ascoltare soltanto la passione, la musica che si ha dentro. Non aveva più voglia di sentire il mondo, che gridava così forte! Voleva solo sentire le voci di dentro. Voleva solo ricordare in pace. Era il più lieve dolore che gli potesse capitare, tutto pur di non pensare alla casa vuota.

Le bianche tende erano -la notte- fantasmi che si prendevano, per vivere, la sua stessa vita. E solo così lui sentiva di vivere, vedendo danzare quelle creature, quegli incubi leggiadri come era per lui ora la ragazzina triste della sua gioventù. Si potevano amare -l'uomo e il suo ricordo- la notte, grazie allo sfinimento che dopo avere bevuto lui conosceva. E allora i movimenti divenivano lenti, quasi dolci, e lui con il lasciapassare del vino, entrava nel suo passato e fra le braccia di lei. Niente gli gridava la sua colpa perché era come amarla da lontano e dirle ancora: “scusa, piccola, se ti ho fatto così male, ma io ti amo ancora come vedi”.
Poi al mattino puntuali le cattive parole assassinavano il ricordo. Ciò che la notte era dolce, di giorno era una macchia. Lottava con se stesso per evitare di pensare alla bellezza della ragazza, ma così evitava, come un terremotato dell’anima, la sua salvatrice: la bellezza della vita. Perché vita era anche saperla –invisibile- dormiente sul suo letto e invitante di sapori.
Tutta questa sua poesia non sapeva arrivare alla coscienza –era una poesia dolorosa- e restava confinata nella notte del rimpianto e della colpa. Solo prima tutto era diverso: anche la biancheria abbandonata dovunque –allora- era più ordinata e giusta che adesso i suoi pensieri e la sua vita. Continuava a pensare che lei era una ragazzina distratta e disordinata, ma creativa perché l’amore la faceva artista. E anche lui. Ed erano allegri, clown di se stessi… Certo, lei era una ragazza di suo molto triste ma l’amore aveva cambiato le loro facce. Lui aveva voglia di dare gioia a lei e lei urgeva d’amore.
Anche l'occasionale rabbia di un momento, anche la noia, tutto era animato da un’energia radiosa che li avvicinava nell’alba che tutti sognano nella vita, nell’alba dell’incontrarsi che giustifica tutte le notti solitarie e senza significato di valore.
Primo uscì, una sera, ne aveva poca voglia, ma si accorse che non poteva stare a casa, che aveva bisogno di aria pulita e immemore.

Col cappotto vecchio e logoro, voleva quasi nascondersi, andò dritto in piazza a fare il suo lavoro. Non salutava nessuno, non vedeva nessuno a parte tante sagome scure e lontane come le barche che vedeva dal lungomare. E lui era più lontano delle barche lontane, più inconscio e doloroso di loro, più solo di chi si perde perché forse ha paura di trovarsi e preferisce la notte che verità lampanti, come il giorno, che però aspettava e che sembrava un sogno di mai.

La stessa donna lo aspettava seduta sulla seggiola al tavolino dove di fronte a lei lui si sedette.
Lei aveva un’aria così innocente e dolce, e soprattutto soffriva. Lui poteva quasi sentire le parole di questa sofferenza, gli parlava una lingua ben familiare. E si sentiva grato a quella donna che non aveva giudizio per le colpe dell’indovino triste.
“Ciao”, e dicendo questo la signora mise una mano su quella dell’uomo che un po’ impaurito ma con un incerto sorriso, si ritrasse di un poco. Era emozionato e silenziosamente felice, respirava l’aria del mare ed era diversa. Ovvio che pensava sempre al suo dolore, ma qualcosa non era più come prima.
Lei percepì questa piccola emozione e sorrise, non intorbidendo lo sguardo cristallino e leggermente velato. Era bellissima.
“Allora”, Primo cercò le parole, “allora… vediamo le carte…”
“Non me ne importa delle carte, so già che saranno fortunate. E’ inutile farle. Voglio passeggiare con te lungo il mare”
Primo si lasciò sfuggire un deciso: “perché no?” e prese per mano la seconda occasione di vivere.
“Mai credere troppo al dolore, se no poi lo viziamo e lui vuole essere pensato sempre”
Lui le rispose: “Così non l'avevo vista mai, la cosa”
“Dobbiamo solo considerarlo”, nella voce di lei c’era umiltà, "in quanto insegnante e poi staccarcene, mai restare attaccati ai maestri. Ma diventare noi i maestri. Che ne dici?”
“Dico”, rispose lui, “che sei più forte di me e se diventi la mia maestra non mi staccherò mai da te!”:
Le risate si propagarono per il mare e salirono al cielo e riempirono lo spazio vuoto che vuoto non era più. E questo era l’inizio di una guarigione, era la sera che diventava più chiara, erano gli occhi che guardavano anche le immagini della mente e le commentavano col cuore. Erano due dolori che si capivano e si quietavano spiegandosi a vicenda con parole buone.
“Io”, disse a un tratto lui, mordendosi le labbra, “ho lasciato che lei si illudesse, sapendo di avere il tempo contato. Dovevo cambiare paese per ragioni importanti, per seguire quello che volevo essere: un pittore famoso. Eppure era più bello, ora che ci penso, essere un pittore famoso ai suoi occhi. Poiché ogni suo giudizio era sentito e io lo sentivo, tanto…”
“Dai”, disse la donna, “tu la puoi dipingere, ti aiuterebbe a ricordarla. A non cancellare il tuo passato”
“E’ vero, ma io non dipingo più da quando ci siamo lasciati. Non posso dipingere più. Capisci la tragedia sopra la tragedia?”
“Certo, e io che pensavo, senza neanche saperlo: deve essere un artista.”
“L’hai capito? Davvero?!”
“Non potevi essere un indovino senza essere un artista”.
“Grazie. Ma sai?”, l’animo dell’artista si risvegliava, “ma sai, io non ho smesso mai di esserlo anche se non dipingo più. Io dentro di me dico: questa giornata è un quadro con colori caldi, è piena d’amore… come… come questa… anche se è sera!”
“Sì, è un quadro di magia!”
“Vero”, Primo sembrava colpito da quelle parole perché erano precise e belle. Erano piene di loro.
Mentre lui parlava e raccontava tutto quello che gli veniva in mente, anche le cose più insanguinate oppure sporche, lei manteneva, brillante più della gioia, il suo sguardo da cui lui si sentiva accarezzato.
“Lei mi ha detto: <<sì, è meglio che fai l’artista, sei così bravo e io sono così triste che potrei rendere triste anche te. E sarebbe un peccato, visto che i tuoi dipinti sono pieni di vita…>>”
Stette in silenzio per lunghi minuti, come piangendo dentro, poi disse, allo stesso modo “Lei diceva: i tuoi dipinti sono eccezionali, pieni di vita… ma andandosene lei niente è stato più pieno di vita, niente è stato più eccezionale”

“Ma il dolore che mi stai offrendo quasi come un dono, questo è eccezionale, e rende bello e poetico il nostro incontro e il mare meno nero, accanto a noi”

“Grazie. Poi mi racconterai di te, magari domani. Ma credo di conoscerti già perché hai capito il mio buio”
Tacque un attimo, poi con aria entusiasta e dolce disse:
“No, stavo dimenticando una cosa: sarebbe bello, visto che ormai ci siamo detti tutto, vederci a casa mia e passare la notte insieme. E lo sai perché?”

Lei sorrideva e stupita chiese: “perché?"
E lui: “perché ne ho abbastanza della parola notte. Ora voglio notti con un perché più dolce".

Tenendosi per mano, senza guardarsi, sentendosi, giunsero a casa che ormai era alba, parlarono fino al mattino e ci sarebbe stato tempo per stare insieme, quel mattino preferirono parlare e parlare, e stanchi alla fine si addormentarono sotto una barca capovolta.

E in quella tarda mattinata, il dolore non si svegliò più con loro, per la prima volta nella loro vita.
“Te lo dicevo il discorso del vuoto… e dei corpi che possono andare l’uno verso l’altro solo se c’è un vuoto fra loro”, disse Primo Re.

“Soltanto ora ho capito che, come dicevi tu, è un concetto meno filosofico di quanto si pensi. E’ la vita, è il dolore, poi è la felicità di noi qui sulla spiaggia e il sole che finalmente sorge”.

Un pescatore si affaccendava accanto a loro e a un certo punto disse: “scusate, la barca, mi serve”
Loro non sentirono, allora l’uomo disse: “Dica alla sua signora di alzarsi. Va, bene, la chiamo io. Come si chiama la sua signora?

Primo Re, guardò incredulo il mare, poi scoppiando a ridere, disse a lei:
“Scusa, come ti chiami?”

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