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Colei che trascina il masso

di Maria Musik
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Pubblicato il 15/05/2008

Il mio nome era, tradotto nella vostra lingua, “Colei che trascina il masso”.
Mia madre era al nono mese e sedeva con le altre donne nel tepee a noi destinato quando il fuoco, al centro della tenda, diventò più sfavillate: entrò in trance. Tutte la udirono parlare con voce tonante e le sue parole furono: “Con la luna nuova partorirai una femmina: il suo nome sarà “Colei che trascina il masso” e quando vedrà il sangue bagnarle le vesti dovrai legarle una grossa pietra alla vita e la dovrà trascinare per sempre.”
Fu così che, quando ad undici anni, ebbi le mie prime mestruazioni, le donne mi portarono alla sorgente sacra, mi lavarono e purificarono aspergendomi d’acqua con rami fioriti presi sul terreno sacro dove giacciono, adagiati sui rami degli alberi, i nostri morti. Poi, mi fecero indossare una veste di pelle di cervo e legarono una fune alla mia vita ed al capo opposto, ben stretto, un masso bianco. Poi piansero, urlarono e danzarono. Infine, facemmo ritorno al villaggio.
Stringevo i denti mentre le lacrime mi scendevano lungo il viso ed il sangue lungo le cosce. Il sasso pesava terribilmente. Camminando mi aiutavo con le mani ma spesso cadevo. Le altre donne, piccole e grandi, non mi guardavano perché io non provassi vergogna. Così, nel silenzio e senza aiuto alcuno, raggiunsi la tenda di mio padre.
Da quel giorno feci ogni cosa trascinando la mia pietra. Ogni anno veniva cambiata con una più grande, perché il peso fosse proporzionato alla mia crescita. Raccoglievo legna, prendevo acqua, cercavo bacche: tutto tirando, come un cavallo da soma, il mio fardello.
L’inverno era il momento più terribile: nella neve il sasso affondava e allora dovevo spingerlo per poterlo spostare. Le mani inerti si coprivano di tagli e geloni, la schiena si spezzava e, al disgelo, tutto si ripeteva con il fango nel quale scivolando, cadevo, imbrattandomi il viso e le vesti.
Anche mentre dormivo dovevo rimanere unita al mio masso che ormai era mia madre, mio padre, mia sorella, il mio sposo.
Poi, dopo tante primavere, una notte sognai un grande uccello che volava verso la cima delle montagne. Il mattino seguente, mentre andavo verso la fonte, un corvo scese su di me e comincio a beccare con l’aguzzo rostro la fune che mi univa al mio sasso. Ma la corda era spessa e strettamente intrecciata. Comparve allora un lupo ed io pensai “Finalmente è finita”. Ma ero terrorizzata all’idea dei suoi aguzzi denti che avrebbero strappato le mie carni. Invece, la bestia si avvicinò anch’essa alla fune e cominciò a morderla con forza. Ma il lupo ed il corvo non riuscirono a romperla. Fu così che giunse un grosso topo, di quelli che vivono ai margini dell’accampamento: non aveva paura né del corvo, né del lupo suoi naturali predatori. Insieme continuarono il loro lavoro: il corvo beccava, il lupo addentava ed il topo rodeva. La corda si spezzò.
Allora le mie vesti si lacerarono ed io, tramutata in aquila, spiccai il volo, mi librai in alto fino alla cima dei monti e volai gridando sull’accampamento.
Da allora, ad ogni luna nuova, mi tramuto in aquila e mi innalzo sopra la terra ed il popolo degli uomini.
Ora il mio nome, tradotto nella vostra lingua, è “Colei che vola in alto”.


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