Pubblicato il 11/11/2008 17:49:29
Una domenica ottusa come lo sanno essere solo certe domeniche di febbraio. Dormivo, staccati tutti i telefoni, bisognoso di silenzio e solitudine. Appena riacceso il petulante cellulare, la chiamata: stavi morendo. Corsi veloce e feroce, arrabbiato della mia cecità, ottuso di sonno interrotto. Arrivai alla tua casa grigia, o forse il cielo lo era, o forse nero. La porta aperta, le tante facce affrante e, forse, un po’ irritate del ritardo; il corridoio, la tua camera, tu. Vecchia ormai bianca, piccola, bambina, nel letto di sale. Mi avvicinai. A qualche passo uno stupido dottore, vicino allo stupido comodino di fronte allo stupido me. Ti accarezzai i capelli sudati; sembrasti sorridere di un piccolo conforto. Sembrasti sorridere. Poi il respiro affannato, il rantolo, la morte. Pochi attimi. Io avevo tardato, ma tu mi avevi aspettato ostinata, come sempre, attaccata all’ultimo alito con i denti. Avevi fatto attendere anche gli angeli. Me ne andai, mi mossi verso l’auto, già accesa la sigaretta del ritorno. Forte, nell’aria tersa della notte, la sensazione di aver ricevuto, ancora una volta, più di quanto non avessi dato.
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